E’ la terra che tradisce



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Articolo sul terremoto
E’ la terra che tradisce. Quella terra coltivata da generazioni, quei viottoli percorsi innumerevoli volte, i pascoli conosciuti, i campi che hanno sfamato donne e bambini e anziani. E’ la terra a non essere più sicura, solida, materna. Questo mormorano gli sguardi di persone abituate a vivere all’aria aperta, ben piantati sulla crosta di una città amata: lo smarrimento per le morti, la precarietà, i disagi sono solo la conseguenza di un’accusa sorda, di un lamento sommesso a un sostegno che sembra strappato per sempre, a una radice che viene tolta dall’origine. A frasi strozzate, mentre parli con uomini o donne, ci si avvicina a questo grande interrogativo che è pianto e allo stesso tempo sgomento: perché non sei più tu? Ricostruirsi non è facile, forse non è nemmeno pensabile, almeno finchè non si digerirà quest’inquietudine che continua a tremare sotto i piedi, che scuote prima ancora dei letti e dei muri l’ultima garanzia di stabilità. Allora si vedono volti scavati, spalle curve: e a pesare è la chimera, che di giorno in giorno diventa sempre più esigente e mostruosa, del futuro e della ricostruzione. Voci si affastellano alle carte della burocrazia statale, e le riunioni di popolo aumentano solo la tensione. Tutti vorrebbero andar via, partire, ripartire; e nessuno (o pochi) si muovono. Punteggi, graduatorie, moduli, cantieri: gli abitanti come cavie dell’industria edile e merce da mostrare ai grandi del pianeta, ma senza che si dicano parole definitorie su una condizione che sta diventando di panico. Cosa sarà di loro dai primi di settembre: albergo, casetta di legno, prefabbricato? Quale destino discernere in una ridda di supposizioni alimentate dalla stampa e dal gioco politico locale?

Di notte è ancora più evidente la devastazione delle scosse, la frantumazione di un corpo che diventa pubblicamente piagato. E sempre di notte, nel silenzio innaturale di una città che non ha giovani per le sue strade, o coppie che passeggiano, si vedono militari a presidiare crepacci. Così come si vedono militari in libera uscita che in divisa cercano di fare colpo sulle ragazze del posto. Militari, come se il nemico fosse visibile, espugnabile grazie al fuoco dell’artiglieria amica. Ma il nemico non si vede, non si fa sentire, se non con l’intensità e l’improvvisazione che gli sono tipiche.


Stavo a Bagno, e soprattutto a Lilletta: di mattina a scuola, con bambini italiani che mal sopportano bambini rumeni, e in mezzo qualche peruano rasserenato da famiglie sorridenti. Ho provato l’emozione dei maestri di inizio secolo scorso, in una pluriclasse dove i pianti e i dispetti erano frequenti come le cavallette che a ondate hanno invaso le nostre tende. Merenda, un po’ di compiti (per qualcuno prima alfabetizzazione), i giochi: ma il sottofondo resta sempre il terrore di sentire ancora scosse. I bambini sanno ancora ridere e stupirsi! Le soste però, quando gli occhi hanno lo spazio per vagare nei ricordi, fanno emergere la paura slabbrata e senza contorni di essere inghiottiti nella terra.

Il pomeriggio, sotto un sole inaudito che rendeva rovente le pietre e le tende, cercavo di passeggiare per un improvvisato villaggio ancestrale: ho conosciuto parentele, vicende passate, sentito racconti di tradizioni e di rimpianti. Tutto è pubblico. Dai bisogni corporali agli stati d’animo. Non si può tacere nulla all’interno dei ritmi lenti e costanti dell’organizzazione del campo: non si può restare intimi a se stessi perché il confine personale è sempre sfiorato dalla spalla di un’altra persona, dall’ombra del vicino di tenda o del compagno di fila in mensa. Mi sono accorto che questo terremoto ha spaccato non solo le costruzioni, ma anche le anime delle persone, e ha fatto emergere ciò che nessuno di noi vorrebbe fosse visto dagli altri. E molte volte avrei voluto andarmene, e molte volte mi sono allontanato, perché non venisse deturpato il guizzo di umanità garantito dal segreto. Ascoltare per me ha significato soprattutto non invadere, mai. Stare, anche a rischio di pomeriggi senza far nulla, senza dire nulla. Ma prima di tutto viene la dignità. Il pudore di girare il capo quando Concetta ha pianto, o quando Mimminella ha raccontato delle sue preparazioni per i pasti domenicali in famiglia, tutta la famiglia.

Come in un qualsiasi altro paesino avevo degli appuntamenti fissi: il caffè in una famiglia, la chiacchiera dopo cena, il biliardino con i bambini. “Quando te ne vai?” era la porta di accesso alla relazione con loro, piccoli e grandicelli: entrare nel loro campo di attenzione significava esattamente dare dei confini, non far soffrire troppo il cuore per un altro, ulteriore distacco.

Sono stai bei momenti a Lilletta, dove la presenza della Confraternita della Misericordia e i cuochi dei Carabinieri hanno costantemente attutito le brutture della precarietà, con una cura delicata e silenziosa dei residenti del campo.



Ma così si arriva al cuore del paradosso di quest’esperienza, la tridimensionalità. Mangiando, magari vedevo sorridere e scherzare un volto; anch’io scherzavo, e mi sembrava di stare in campeggio, un ben organizzato campeggio simil-parrocchiale. Poi il ricordo delle vicende di quel volto specifico, gli intrecci raccontati con le altre persone del villaggio; e infine la consapevolezza dolorosa, un rumore sordo che gracchia in sottofondo, della perdita e della tragedia. Gli anziani in fila, o sotto il caldo del pomeriggio, malfermi sulle gambe e senza un futuro certo. Uomini e donne strappati alla casa, agli affetti, alle abitudini che costruiscono ogni persona. Molte volte per non farmi vedere sono andato lontano, a piangere. Perché il mistero resta questo: l’incontro assurdo tra la tragedia e la vita, nella polvere di tendopoli che saranno smantellate a settembre. Così sale un sussurro, quasi per non disturbare, per non togliere ad altri il compito dell’intercessione. E Dio si fa sentire, quando meno te lo aspetti… o forse proprio perché te lo aspetti…

(Brian Vanzo – 11/18 luglio)
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