S giovanni bosco



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XLVII.
Silvio Pellico (169).

(Nato nel 1789, morto nel 1854).


Nel camminare per Torino forse avrete incontrato un uomo di mediocre statura, modesto nel volto e nell’atteggiamento della persona, di aspetto grave, fronte alta e serena, di sguardo vivace, occhi scintillanti muniti di occhiali, aria ridente, voce dolce, affabile, pieno di bontà e di condiscendenza nel parlare, nel salutare gli amici o conoscenti: quest’uomo era Silvio Pellico. Egli era nato in Saluzzo, città distante 20 miglia da Torino, il 24 giugno 1789. La sua infanzia andò soggetta a molte malattie; i medici opinavano che a sette anni sarebbe morto. Ma questi presagi fallirono. Col crescere in età acquistò robustezza bastante a coltivare la pietà e il suo grande ingegno negli studi. La sua condotta esemplare, i suoi modi cortesi lo rendevano la delizia dei genitori. La sua sodezza poi, la sua religiosa istruzione fecero sì che venne ammesso alla prima comunione all’età di otto anni.

Contava appena dieci anni quando compose una tragedia che andava recitando co’ suoi coetanei sopra un palco scenico costrutto in sua casa. Questo primo lavoro di Silvio cominciò fin d’allora a far conoscere la non ordinaria sua abilità per le scienze. Circa quel tempo la famiglia Pellico essendosi trasportata a Torino, Silvio poté con maggiore comodità attendere allo studio. Ma all’età di quindici anni fu mandato a Lione, dove per quattro anni coltivò lo studio delle lettere e della poesia. Il padre colla famiglia erasi trasportato a Milano dove aveva ottenuto un pubblico impiego, e Silvio andò a raggiungerlo in quella città. L’ingegno di Silvio fu in breve conosciuto, e sebbene non toccasse ancora i vent’anni di età, fu nominato professore al collegio degli orfani militari. Questa cattedra lo teneva occupato non più di un’ora al giorno; così che poteva secondare liberamente la sua propensione per lo studio. Ma quest’impiego essendogli di poca utilità, il lasciò per entrare in casa del conte Porro come educatore de’ suoi figliuoli. Egli fu in questa città che contrasse amicizia coi due letterati Vincenzo Monti ed Ugo Foscolo. Il giovane Silvio divenne il loro sincero amico. Quei due ardenti ingegni riportarono grande utilità dalla mansuetudine di Pellico. Quando loro avveniva di trattare con lui sentivansi costretti ad usare dolcezza e cordialità anche nelle quistioni più animate. Un dì Monti sedeva in conversazione con Pellico, e discorrendo con lui: Ebbene, gli disse, mi negherete voi che Ugo mi odia e mi vilipende? L’ingrato! E chi lo ha fatto salire in rinomanza se non io? I Sepolcri (è questo il titolo di un’opera scritta da Ugo Foscolo) sarebbero rimasti ignorati, se io non li proclamava sublimi, e una sola parola che pronunciassi, essi tornerebbero nel fango donde li ho tratti.

Silvio rispose: Adagio, Monti mio; i Sepolcri salirono in grande rinomanza per voi, ciò è vero: e questo onora il vostro criterio e il vostro cuore. Quanto al dire che Ugo vi odia e vilipende, io so il contrario. So che vilipende chi vilipende voi; ricordatevi che in questo medesimo luogo, nel posto appunto ove sedete, un giorno egli diede uno schiaffo a chi per adular lui parlò di voi indegnamente. Monti si calmò, e battendosi colla mano la fronte esclamò: Ed io ho potuto dimenticarlo!

In mezzo agli sconvolgimenti politici di quei tempi alcuni si studiavano d’introdurre in Milano le società segrete, dette comunemente Franchi Muratori (*).


[(*) O Carbonari: così l’VIII edizione (*).]
Caldo promotore di queste funeste società era certo Pietro Maroncelli venutovi a bella posta da Napoli. Egli si avvicinò a Silvio Pellico studiandosi di guadagnarlo. Siccome la frequenza dei perversi fa pervertire anche i buoni, così il povero Pellico si lasciò rovinare dal perfido amico. Caduto Pellico in sospetto alla polizia fu arrestato con Maroncelli ed altri. Trattenuto qualche tempo in carcere a Milano, fu dipoi tradotto a Venezia e posto sotto i piombi. Così chiamasi la prigione di Stato situata nell’antico Palazzo dei Dogi, il cui piano superiore è coperto di piombo. Pellico stette parecchi mesi colà, indi fu trasferito nell’isola di Murano, distante un miglio da Venezia, ove erano altri carcerati per motivi politici.

Un mattino, era il 21 febbraio 1822, il carceriere venne ad annunziargli che gli si doveva leggere la sentenza. Silvio fu condotto nella sala della commissione. Il presidente gli disse, la sentenza essere venuta, il giudizio essere terribile; ma già l’imperatore averla mitigata, cangiando la pena di morte in quindici anni di carcere duro da scontarsi nella fortezza di Spielbergo.

Pellico non cercò di far conoscere la sua innocenza, perché non sarebbe stato ascoltato. Egli alzò gli occhi al cielo e disse: Sia fatta la volontà di Dio. Il giorno seguente abbandonava l’Italia per andare ad essere rinchiuso nel più severo ergastolo della monarchia austriaca. Questa fortezza è situata sopra un monticello presso alla città di Brunn in Moravia. Ivi egli tollerò indicibili patimenti senza smarrirsi di coraggio, senza profferire parola contro la sua sorte. La religione fu sempre il suo conforto in queste gravi e prolungate sventure.

Parlando più tardi di Spielbergo soleva dire: Delle passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene e di tutto il male che mi era serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili strumenti che ella sa adoperare a fini degni di sé.

Erano dieci anni da che Silvio aveva perduta la libertà, otto e mezzo di carcere duro, quando un mattino (10 agosto 1830) l’imperatore d’Austria, facendogli grazia della libertà, condonavagli oltre sei anni di pena. A quell’annunzio Pellico si portò col pensiero a’ suoi cari genitori, di cui non aveva più avuta notizia dopo la sua partenza da Milano. Questo pensiero lo turbò: - li troverò ancora sulla terra, diceva fra sé, saranno già passati all’altra vita? Partì tosto, e colla massima prestezza andò a raggiungere la sua famiglia, che da parecchi anni era ritornata a Torino. Quale non fu il suo contento allora che dopo sì lunga assenza e dopo tante pene poté rivedere e riabbracciare padre, madre, fratelli e sorelle! Renduto, così diceva egli, a quei tenerissimi oggetti della mia tenerezza, io era divenuto il più fortunato dei mortali.

Dopo il ritorno da Spielbergo Pellico visse ancora 24 anni che impiegò nello studio e nell’esercizio della virtù. Né volle più mischiarsi nelle pubbliche faccende. Frutto di questo riposo è l’opera maravigliosa intitolata: Le mie Prigioni. Le curiose vicende ora triste, ora liete avvenutegli nel tempo del suo carcere eccitarono in molti la curiosità di vedere esposto dalla sublime sua penna quanto andava talvolta raccontando in privato a’ suoi amici. Egli medesimo narra il motivo che lo indusse ad intraprendere questo lavoro. «Negli ultimi anni della mia prigionia, egli dice, una delle più grandi mie consolazioni era stata l’avere per direttore di coscienza un sacerdote di molto merito. Io desiderava ardentemente di trovarne uno simile, e lo trovai. Fu questi un venerabile ottuagenario, l’abate Giordano, curato della mia parrocchia, uomo di grande dottrina e santità. La scelta di un padre spirituale è per un cattolico di suprema importanza; e quanto a me non saprei dire tutto il bene che reca all’anima mia un vero amico di Dio, il quale di Dio mi parli con autorità, con amore e senza pedanteria.

»Quel santo vecchio, avendomi udito a mano a mano raccontare per minuto tutto quello che io aveva sofferto nelle prigioni di Milano, di Venezia e dello Spielbergo, mi consigliò a scriverne la narrazione e a pubblicarla. Da prima non fui del suo parere. Mi sembravano tuttavia troppo ardenti in Italia e in tutta l’Europa le passioni politiche, tuttora troppo comune il furore di calunniarsi a vicenda. - Le mie intenzioni saranno mal giudicate, io diceva; le cose, che avrò raccontate con iscrupolosa esattezza, saranno rappresentate dai miei nemici come prette esagerazioni, e ogni riposo sarà perduto per me».

«Due sorta di riposo ci sono, rispondevami il degno sacerdote, il riposo delle anime forti, e quello dei pusillanimi; quest’ultimo è indegno di voi, è indegno di un cristiano. Col libro, che vi ho consigliato di scrivere, voi renderete alta testimonianza all’immensa carità del Signore verso gl’infelici che ricorrono alla sua grazia; mostrerete quanto il deismo e la filosofia siano impotenti a fronte della religione cattolica. Molti giovani, letto il vostro libro, scuoteranno il giogo dell’incredulità, o almeno saranno più disposti a rispettare la religione e studiarla. E che importa se, mentre voi farete un poco di bene, sorgerà qualche nemico a calunniare le vostre intenzioni?».

«L’ottimo D. Giordano aveva una maschia e generosa eloquenza efficacissima sul mio spirito. - Il riposo dei pusillanimi non ha alcun valore! - ripetevami spesso. Pensateci bene, se Dio vi concedette di acquistarvi nome in letteratura fu per animarvi a scrivere qualche libro salutare pel prossimo.

»Queste ragioni non mi avevano ancora indotto a promettere formalmente di ubbidire, e chiesi tempo a riflettere; ma ogni volta che io incontrava il buon vecchio, ei stringevami la mano come per trasfondere in me la sua energia; poi alzava due dita ripetendo: Vi sono due sorte di riposo, scegliete».

Allora Silvio Pellico, superando non piccole difficoltà, scrisse gli avvenimenti di sua prigionia. Appena Le mie Prigioni comparvero alla luce, furono lette con avidità da ogni ceto di persone e tradotte in tutte le lingue. La purezza dello stile, la semplicità e la sublimità dei concetti morali e religiosi rendono quel libro ameno ed utile ad ogni persona anche di poca istruzione. lo vi consiglio di volerne fare attenta lettura, e ne riporterete certamente non poco vantaggio.

Silvio Pellico scrisse anche altre opere di gran pregio in versi ed in prosa. Ma il libro più ammirato, dopo Le mie Prigioni, è quello intitolato: Dei doveri degli uomini. In questo libro non vi ha cosa che sappia di ricercatezza; tutto è espresso con semplicità e soavità veramente evangelica. - Egli occupavasi grandemente del bene della gioventù, e provava sempre un gran piacere ogni volta che, o col consiglio, o coi mezzi pecuniari poteva avviare un mendico al lavoro, istruire un ignorante, o coadiuvare qualche giovanetto a compiere la carriera degli studi. Fra le cose ch’egli dice merita che io vi accenni una lettera scritta ad un protestante sui mali che i libri irreligiosi recano alla tenera mente dei giovani.

«Io conobbi, scrive egli, i dubbi desolanti dell’irreligione, ma non ne avrei fatto un tema di composizione letteraria; io portava il mio tormento in silenzio. Avrei temuto di far deviare dal retto sentiero le anime giovani, sempre facili ad essere sedotte. Ah purtroppo sovente in Francia ed in Inghilterra non si ha questo timore! Si reputa bello e filosofico il dichiararsi senza fede. Non si vuoI più un’empietà grossolana come al tempo di Voltaire, ma si fa di cappello al cristianesimo, considerandolo come una finzione venerabile, a cui si vorrebbe pur credere. lo prego Dio di concedere la fede a tutti coloro che non l’hanno, e segnatamente al signor N., poiché senza questa forza divina l’uomo è infelice, e provengono dal suo spirito emanazioni nocive agli altri: ditegli queste cose e segnatamente che io l’amo.

»Quando prego per voi, amico mio, mi sorride talvolta

una dolce speranza... Deh possa io essere esaudito! Amiamoci per l’eternità!».

Dopo alcuni anni di felicissimo convivere in famiglia ebbe il dolore di perdere la madre, di poi il padre, e poco appresso un suo fratello. Nella sua disgrazia Silvio fu tuttavia fortunato: il marchese e la marchesa di Barolo gli offrirono onorevole ospitalità in casa loro, ed egli accettò con riconoscenza perché gli era nota la bontà delle persone da cui era invitato. Gli furono fatte vantaggiose offerte di occupazioni e lavori assai lucrosi. Un inglese gli offrì 20 franchi per linea qualunque cosa scrivesse; ma egli ha sempre voluto rinunziare ad ogni sorta d’interesse, contento di fare del bene agli altri, nulla badando ad arricchire se stesso.

Mentre Pellico passava il suo tempo nello studio e nella pratica della religione, Iddio lo andava preparando pel cielo con una diminuzione di salute, che gli si faceva ogni di più sentire. L’anno 1853 cadde in grave e lunga malattia. A quelli che lo andavano a visitare diceva con ilarità: La morte mi è un guadagno. Intanto si avvicinava l’ultima ora: allora che gli fu portato il Viatico volle dire ad alta voce: Bontà grande! Iddio immenso viene a me... di qui a poco io andrò a lui. Sempre animato dalla più viva carità, volse uno sguardo agli astanti e soggiunse: Al Paradiso, al Paradiso... io me ne vado, egli è per me una gran fortuna il morire dopo aver potuto espiare le mie colpe sopra la terra. - Queste furono le ultime parole di questo grande filosofo, poeta e scrittore, la cui memoria sarà sempre in venerazione presso i posteri. Silvio Pellico moriva il 31 gennaio 1854.


XLVIII.
Antonio Rosmini (170).

(Nato nel 1797, morto nel 1855).


La filosofia che ha per iscopo di far conoscere la verità, e guidare l’uomo alla fuga del male e alla pratica del bene, ebbe un grande coltivatore nell’abate Antonio Rosmini. Egli traeva i suoi natali da ricca e nobile famiglia di Rovereto, piccola città presso Trento. Forte di complessione, fornito di acutissimo intelletto, applicossi costantemente agli studi. I pii suoi genitori, per assicurare al figliuolo una buona educazione, vollero che fosse allevato sotto i loro occhi medesimi, provvedendolo di buoni precettori. Egli era pio, e colla massima assiduità coltivava gli studi più severi. Ma la virtù più caratteristica del Rosmini fu la carità verso gli infelici. Era edificante spettacolo il vedere un giovinetto da dodici a quindici anni star lontano dai pubblici spettacoli, privarsi dei trastulli, risparmiare in tutti i modi per aver denaro da largire in elemosine ai poverelli! Fu più volte veduto tornare a casa colle saccocce smunte di danaro, e talvolta privo di alcuni dei suoi abiti stessi, che egli aveva dato ai poverelli. Il suo grande ingegno, la sua assiduità allo studio, la sua carità cagionavano meraviglia a’ suoi maestri e condiscepoli, che fin d’allora cominciavano a pronosticare di lui qualche cosa di grande. A sedici anni deliberò di abbracciare lo stato ecclesiastico. I suoi genitori fecero molte opposizioni, e per assicurarsi della vocazione del figlio lo affidarono al dotto e pio Antonio Cesari. Questo profondo conoscitore del cuore umano lo esaminò, lo pose a varie prove, ma finì con assicurare che tale era il volere di Dio sopra di lui. Rosmini lesse e studiò in Rovereto i principali sistemi di filosofia che corre vano in quei tempi in Italia e in Francia; e disgustato di tutti, gli era già balenato alla mente quell’uno che stringe insieme la ragione e la fede. Studiò pertanto la teologia. Fatto sacerdote e sparsa la fama delle virtù e della scienza di lui, fu invitato a tener conferenze morali, e in breve eletto professore di teologia.

Diverse società lo onorarono dei loro diplomi. Invitato dal patriarca di Venezia ad accompagnarlo in Roma, Rosmini accettò l’invito. In quella congiuntura strinse amicizia coll’abate Mauro Cappellari, assunto in seguito al Pontificato col nome di Gregorio XVI. Durante quel soggiorno a Roma il Pontefice Pio VII lo esortò ad occuparsi di proposito della filosofia. Ritornato in patria si applicò agli studi con tale fatica e assiduità che teneva del prodigioso. Ma lo spirito di carità manifestato fin da giovinetto l’accompagnava in tutti i suoi passi; e poiché da solo non poteva fare del bene a tutti siccome desiderava, pensò di chiamare a sé chi lo aiutasse. A questo fine fondò l’Istituto della Carità, volgarmente detto dei Rosminiani dal suo fondatore.

Portatosi a Milano per meglio attendere a’ suoi studi, pubblicò ivi diverse opere di filosofia. Alessandro Manzoni, che voi già conoscete per le dotte produzioni letterarie (*), quando ebbe letto quegli scritti senza mai averne conosciuto l’autore, ebbe a dire: Un grand’uomo il cielo ha dato all’Italia ed alla Chiesa nell’autore di questo libro.
[(*) Così stava nelle edizioni anteriori al 1873 perché, vivendo ancora il Manzoni, non poteva annunziarne la biografia. - Nell’edizione VIII fu scritto: «di cui presto vi terrò discorso» (*).]
Venuto di nuovo a Roma, ode una seconda volta la voce del Supremo Gerarca, che allora era Pio VIII, che lo esorta a proseguire nell’impresa incominciata. In questa occasione il Papa gli additò un opuscolo anonimo, encomiandone assai il vigore e la sostanza degli argomenti con cui era scritto. L’opuscolo era del Rosmini stesso, che interrogato del suo parere, non poté far sì che il Papa non si accorgesse del curioso incidente, e non si rallegrasse coll’autore riconosciuto.

Fra la moltitudine delle opere di questo insigne filosofo e scrittore ve ne furono alcune (**) che vennero riprovate dalla Chiesa e messe all’indice de’ libri proibiti.


[(**) Così le edizioni anteriori al 1873: il che poteva far credere ad un maggior numero. Nel fatto furono due soli opuscoli (*).]
Questo fatto, il quale in altri sarebbe stato motivo di sdegno e di risentimento, fu appunto quello che fece conoscere al mondo tutto, che il Rosmini alla profondità della scienza accoppiava la fermezza e l’umiltà di buon cattolico.

Come adunque gli fu partecipato che quelle operette erano state proibite, senza dar segno di risentimento rispose colle seguenti cristiane parole: Coi sentimenti del figliuolo più devoto ed obbediente alla Santa Sede, quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore, e me ne sono anche pubblicamente professato, io le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente e semplicemente e in ogni miglior modo possibile, pregando di assicurare di ciò il Santo Padre e la Sacra Congregazione. Di più scongiurò pubblicamente alcuni a non cercare di difenderlo coi pubblici scritti, facendo loro intendere quale dispiacere simile difesa gli recherebbe. Egli intanto ritiravasi all’amato soggiorno di Stresa per ivi continuare le sue opere di carità e di studio. I suoi studi assidui e profondi furono causa che nel 1855 cadesse in grave malattia. Aggravandosi ogni dì più il male, non tardò a manifestarsi il pericolo di perderlo. Molti illustri personaggi, fra i quali monsignor Moreno, vescovo d’Ivrea, e il celebre Alessandro Manzoni, vennero a fargli visita. A quanti egli parlava negli ultimi giorni, a tutti raccomandava la salute dell’anima. Finalmente assistito dagli amici, circondato dai religiosi del suo Ordine, cui dava il nome di suoi figliuoli, munito dei conforti della cattolica religione, dopo lunga malattia, morì nel primo giorno di luglio 1855, in età di anni 58.


XLIX.
Le università degli studi in Piemonte e Carlo Boucheron (171).

(Nato nel 1797, morto nel 1855).


Nei tempi antichi, cari amici, non esistevano in Piemonte Università degli studi; cioè nei nostri paesi non si trovava alcun luogo pubblico dove fossero insegnate le scienze necessarie alla vita sociale. Quindi avveniva che un giovanetto quando deliberava di percorrere la carriera degli studi dovesse recarsi a Padova, a Bologna, a Parigi o in qualche altra lontana città per avere un maestro idoneo ad insegnargli quella scienza cui egli voleva applicarsi. La più antica università del Piemonte è quella di Vercelli, che rimonta al secolo decimoterzo; dopo viene quella di Torino fondata sul principio del secolo decimo quinto dal nostro principe Lodovico di Acaia (*).

[(*) La Università di Vercelli fu fondata da quel civico Municipio nel 1224 e durò sino al 1338. La Università di Torino fu fondata nel 1404 dal mentovato principe Lodovico col concorso della città di Torino (V. VALLAURI, Storia delle Università degli studi in Piemonte, vol. 1) (a).]


È vero che qualche volta la tristezza dei tempi costrinse a trasferire altrove l’insegnamento universitario, ma per lo più esso riteneva il nome di Università Torinese. In questa Università non pochi ingegni poterono coltivare le arti belle, recare molta gloria alla patria e grande utilità all’Italia. Omettendo quelli de’ tempi andati noi parleremo di alcuni che vissero nella nostra età, quali sono, Boucheron, Paravia e Peyron.

Carlo Boucheron era nato in Torino nel 1773. I rapidi progressi nello studio gli ottennero con molto plauso la laurea dottorale in lettere e teologia quando aveva appena vent’anni. Conosciutosi il suo grande ingegno, ai soli 22 anni per volontà del sovrano venne fatto segretario di Stato pegli affari esteri. Ma le civili perturbazioni ed i cangiamenti di governo lo risolsero di ritornare alla vita privata. Allora si diede con ardore a studiare le lettere latine, greche ed ebraiche, sotto la guida del dotto Tommaso Valperga Caluso. Nel 1804 fu chiamato alla carica di professore di eloquenza nella nostra Università, e adempì gloriosamente a quest’uffizio oltre a trentaquattro anni. Tutti quelli che ebbero la sorte di udirlo asseriscono che ogni lezione di lui era un tesoro di scienza. Le cose più difficili in sua bocca divenivano facili, chiare, popolari; la stessa locuzione latina gli era divenuta così familiare, che tanto nella scuola quanto fuori la parlava popolarmente e speditamente come fosse stata sua lingua domestica. Compose anche in forbito latino eleganti operette, fra cui merita speciale menzione la Vita del cav. Priocca; il Commentario sul barone Vernazza e la Vita di Valperga Caluso suo precettore. In queste scritture, dice il Vallauri, vi è ad un tempo l’abbondanza di Livio, l’acume e la robustezza di Tacito.

Il re Carlo Alberto ebbe in molto pregio l’alto sapere del Boucheron fregiandolo di varie decorazioni e scegliendolo a precettore de’ suoi due figliuoli. Onorato da’ grandi, stimato dai dotti, riverito e careggiato da tutti gli onesti, accresceva splendore alla R. nostra Università e gloria alla patria nostra, quando il 22 febbraio 1838 inciampando tra via cadde e n’ebbe rotto un ginocchio. Questo fu cagione si inasprisse in lui una malattia d’infiammazione, la quale già da alcuni mesi lo travagliava. Sentendosi aggravare il male, da buon cattolico ricevette i conforti della religione, come spesso soleva fare nel corso della vita. Si addormentò nel sonno dei giusti il 16 marzo nel 65° di sua età (*).
[(*) Vedi la vita che ne scrisse in aureo latino il suo discepolo e successore alla cattedra Tommaso Vallauri (a)]

]


L.
Pier Alessandro Paravia (172).

(Dall’anno 1797 all’anno 1857).


Tra’ letterati più insigni della prima metà del secolo XIX per eletto ingegno, squisita cultura, operosità di studi, onestà di costumi, e vivacità di fede deesi riporre Pier Alessandro Paravia. Nacque il 15 luglio 1797 in Zara, città della Dalmazia. Mortogli il padre all’età di dieci anni traslocossi a Venezia, e fu accolto gratuitamente come convittore nel liceo di S. Caterina. Qui fece progresso notabilissimo sotto alla direzione del chiaro Mons. Antonio Traversi, che, amico a Gregorio XVI e da lui chiamato a Roma, morì patriarca di Costantinopoli. Compiuti onoratamente gli studi liceali, passò all’Università di Padova per istudiarvi giurisprudenza. Contrasse ivi amicizia coi giovani che maggiormente segnalavansi nelle lettere e nella scienza; fra cui Nicolò Tommaseo, Antonio Rosmini, Cesarotti, Francesconi, Barbieri ed altri.

Per le condizioni domestiche, dovendo provvedere al sostentamento della madre e di una sorella, dovette cercare negli uffici governativi un pronto guadagno. In mezzo alle molte occupazioni del suo uffizio egli trovava tempo di pascolar lo svegliato suo ingegno nelle dotte amicizie, negli applauditi lavori letterarii e nelle pubblicazioni, quando di sue operette, quando di scritti inediti di uomini illustri.

Nel 1817 stampava in Venezia il volgarizzamento del poemetto del Fracastoro: Sul governo dei cani da caccia; nel 1818 in Padova le Memorie sulla vita ed opere di Giuseppe Bartoli; nel 1819 pure in Padova la bella Dissertazione sulle cause per le quali ai nostri giorni da pochi dirittamente si adopera la bellissima italiana favella; nel 1820 in Venezia la Vita di Alfonso Varano, e in Rovereto Dodici sonetti di sacro argomento; nel 1822 in Padova Tre vite di Cornelio Nipote con alcune lettere di Plinio il Giovane, volgarizzate, lettere che tradotte ed annotate compiutamente stampavansi nel 1830.

La molteplicità delle pubblicazioni, sì in verso come in prosa fatte dal Paravia, meritavano certamente che il giovine scrittore fosse tolto al misero impiego, e collocato in luogo dove spiegar si potesse convenientemente la erudita maturità dell’ingegno, e le onorate fatiche ricevessero il premio meritato. A questo provvide il Re Carlo Alberto pei conforti segnatamente del conte Napione e del Marchese Cesare Saluzzo. Il 17 aprile 1832 apponevasi la firma reale al decreto di sua nomina a Professore di eloquenza italiana nella R. Università di Torino, affermandosi in esso ch’era chiamato a sì onorevole posto per la distinta scienza accoppiata alle più lodevoli qualità religiose e morali.

La cattedra di eloquenza italiana, a cui in appresso fu aggiunta quella di Storia Patria, si tenne dal Paravia fino al marzo del 1857, nel qual anno mancò ai vivi con universale compianto.

La frequenza degli scolari e dei liberi ascoltatori alle sue lezioni, la nobile emulazione destata ne’ suoi discepoli, il profitto che ne traevano, le utili instituzioni promosse, le dotte società cui appartenne, i plausi coi quali erano accolte le sue orazioni inaugurali e quelle cui premetteva alle feste letterarie date a quando a quando ad eccitamento della gioventù studiosa, stavano a prova irrefragabile ed evidente del modo con cui il Paravia reggeva la cattedra dell’Università Torinese. Le principali opere pubblicate dal Paravia sono due volumi di Lezioni di varia letteratura ed altri due di Storia Subalpina; le Lezioni accademiche sulla epigrafia volgare; le Memorie veneziane, le Piemontesi di letteratura e di storia; due volumi che hanno per titolo: Carlo Alberto e il suo regno; le vite di parecchi uomini illustri, le allocuzioni e i discorsi recitati nei più lieti o luttuosi avvenimenti contemporanei; il volume in cui furono raccolte le iscrizioni italiane ch’egli dettò; quello della Vita e delle opere di Cesare Saluzzo, e parecchie altre prose e poesie. Queste opere, che videro ripetutamente la luce, attesteranno ai posteri quanta fosse la scienza letteraria di lui, quanto assidui ed utili gli studi, quanto l’amore della cattedra che sì onoratamente copriva, e della gioventù verso la quale sovente il professore mutavasi in amorevole padre.

E tali erano veramente le cure ch’egli pigliavasi pe’ suoi discepoli, che affettuoso padre non potrebbe fare di più pei propri figli. Si sa che per taluni pagò la pigione domestica; per altri provvide libri, abiti, onorari per esami e laurea. Ma però se si mostrava tenero padre in mezzo ai suoi allievi, era poi severissimo in fatto di moralità e di religione. Un giorno interruppe un allievo perché lasciò sfuggire parole, che, secondo lui, non si addicevano a bene educato studente. Altra volta fece tacere a metà lettura un altro, il quale leggeva una novella contenente espressioni non abbastanza castigate. Questa, dice quell’allievo che ora è celebre professore, fu per me una terribile lezione, cui non potrò mai dimenticare nel pubblico mio insegnamento.

Lo stile del Paravia è nitido, vivace, sicuro. Il periodare ordinariamente breve, e spesso abbonda d’incisi, talvolta pure si compiace de’ contrasti. È sempre erudito, e nelle annotazioni, che occorrono frequenti, scorgesi la cura ch’egli poneva a rintracciare la verità, non perdonando a molte e severe indagini. Le poesie segnalansi per affetto, per limpidezza di pensiero e per esattezza di forma. La vita del Paravia ebbe i suoi contrasti, e non fu senza dolori. Gli ultimi furongli procacciati dalla più importante e bella delle orazioni inaugurali ch’ei recitasse: da quella nella quale trattò Della responsabilità dello scrittore. Gli avversi divulgarono che parlasse contro alla libertà della stampa: ma egli parlò contro all’abuso che se ne fa dagli scrittori malvagi, e volle fare intendere loro, che la responsabilità cresce a proporzione della maggior libertà che si gode. Pier Alessandro Paravia era uomo onesto e religioso, stava volentieri dinanzi al SS. Sacramento orando; e quando parlava della sublimità del Cristianesimo, i suoi occhi brillavano d’un’insolita luce. Egli aveva il coraggio delle sue opinioni, gli scritti suoi già pubblicati lo dipingono quale egli fu davvero, e più vivamente e meglio ancora appariranno appena si daranno alla luce le cose inedite ch’ei lasciò, e sono già ordinate, e religiosamente custodite da un suo riconoscente amico (*).


[(*) V. Vita e scritti del Paravia di I. Bernardi, T. V. G. (a)]

LI.


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