In nome del popolo italiano la corte suprema di cassazione sezione lavoro



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#15269

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STILE Paolo - Presidente -

Dott. NAPOLETANO Giuseppe - rel. Consigliere -

Dott. BRONZINI Giuseppe - Consigliere -

Dott. PAGETTA Antonella - Consigliere -

Dott. TRICOMI Irene - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza


sul ricorso 27911/2009 proposto da:

INTESA SAN PAOLO S.P.A. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 31, presso lo studio degli avvocati PULSONI FABIO, RAPONE RAFFAELLA, che la rappresentano e difendono giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro


C.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE, 56/A, presso lo studio dell'avvocato PENNA CARLO, rappresentato e difeso dall'avvocato MARZIALE GIUSEPPE, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 2907/2009 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 02/07/2009 r.g.n. 6972/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/01/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l'Avvocato RAPONE RAFFAELLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.




Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di C.A., proposta nei confronti della società Intesa Sanpaolo, avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimatogli dalla predetta società per una serie di operazioni irregolari consistenti rispettivamente: nell'apposizione di firme di clienti non conformi agli specimen, nel consentire la vendita disposta da un cliente su titoli di proprietà di altri clienti e nell'aver fatto apporre su ordini di acquisto firme di clienti del tutto diverse dagli ordinanti.

La Corte del merito, ricondotte le varie contestazioni a tre fondamentali gruppi, riteneva, sulla base dell'esame delle emergenze istruttorie, corretta la valutazione delle stesse operata dal giudice di primo grado avendo questi valutato in modo oggettivo ed imparziale le richiamate risultanze.

Asseriva, poi, la Corte di Appello la correttezza giuridica della sentenza di primo grado essendo la stessa conforme ai principi sanciti in materia dalla giurisprudenza della Cassazione in quanto il Tribunale aveva considerato gli aspetti oggettivi e soggettivi della vicenda, quali l'assenza di precedenti disciplinari, la non gravità dei comportamenti addebitati, il sovraccarico lavorativo oggettivamente aggravato dalla lentezza dei sistemi operativi, l'assenza di volontà di arrecare nocumento al datore di lavoro e la mancanza di vantaggi personali nonchè l'intento di semplificare il lavoro per far fronte alla massa di lavoro.

Sottolineava, quindi, la Corte territoriale che proprio in tale ottica la gravità delle irregolarità contestate al C. risultava attenuata tenuto conto anche che il lavoro svolto era sottoposto al controllo del Direttore della filiale. Proprio questo particolare atteggiarsi della elemento psicologico, secondo la predetta Corte, induceva a giudicare sproporzionata la sanzione espulsiva comminata al C. al quale ben sarebbero potute essere irrogate più opportune ed adeguate sanzioni conservative.

Avverso questa sentenza la società in epigrafe ricorre in cassazione sulla base di due censure, illustrate da memoria.

Resiste con controricorso la parte intimata.




Motivi della decisione
Con la prima censura la società ricorrente deduce violazione dell'art. 12 preleggi in relazione agli artt. 2119, 2106 e 2104 c.c. nonchè superficialità e insufficienza della motivazione.

Assume la società, in proposito, che la sentenza, quanto al giudizio di proporzionalità, "è assolutamente superficiale, motivata con argomentazioni incongruenti, in fatto inverosimile ed in diritto assolutamente inaccettabile perchè caratterizzata da un vistoso errore nella applicazione di principi fondamentali di diritto che nell'esatta portata il collegio ha di fatto dimostrato di non conoscere, pervenendo ad una decisione profondamente ingiusta ed erronea".

Pone, poi, la società ricorrente, i seguente interpelli: "Rispetta il principio di proporzionalità ex art. 2106 c.c. e costituisce manifestazione del libero esercizio da parte del datore di lavoro del legittimo potere ex art. 2106 c.c., il licenziamento di un dipendente bancario che aveva apposto ben 240 firme apocrife, aveva venduto titoli senza l'ordine del cliente, aveva fatto ordini di compravendita titoli firmati da signori diversi da quelli richiedenti l'operazione e aveva raccolto ordini di compravendita con sottoscrizioni non conformi a quelle depositate?"; 2. "Può ritenersi venir meno il dovere di diligenza ex art. 2104 c.c. del dipendente a causa di una presunta omissione dello ius vigilandi da parte del datore di lavoro?".

Con la seconda censura la società, denuncia omessa motivazione su punto decisivo della controversia - gli addebiti mossi al C., la loro gravità anche in considerazione della posizione ricoperta e il connesso venir meno del vincolo fiduciario - nonchè violazione dell'art. 132 c.p.c..

Formula, in proposito, la società ricorrente il seguente quesito:

"Rispetta l'obbligo di cui all'art. 132 c.p.c. di rendere una motivazione logica, sufficiente ed ordinata il giudice collegiale che motiva il proprio convincimento avvalendosi esclusivamente delle argomentazioni espresse nella sentenza di primo grado che ripropone integralmente facendole proprie, senza di fatto giustificare, se non apparentemente e non in diritto, le ragioni di tale pedissequa adesione e senza che le relative argomentazioni rispondano ai motivi di gravame sottoposti al suo esame?".

Rileva la Corte che tale ultimo motivo, il cui esame è preliminare per ragioni logico-giuridiche, è infondato.

Al riguardo deve, innanzitutto, rilevarsi che la Corte di Appello, nella impugnata sentenza, non rinvia, contrariamente a quanto denunciato dalla società, per relationem alle argomentazioni svolte dalla sentenza di primo grado, ma, perchè investita dai motivi di appello proposti dalla stessa società, verifica la correttezza della valutazione operata dal giudice di primo grado delle risultanze istruttorie. Nell'operare tale verifica la predetta Corte esamina le molteplici emergenze pervenendo alla conclusione della piena condivisibilità della valutazione operata dal giudice di primo grado essendo questa oggettiva ed imparziale.

Del resto la Corte territoriale, e vale la pena di sottolinearlo, considera partitamene gli elementi istruttori e rispetto a tali elementi pone il proprio giudizio di proporzionalità.

Che, poi, la suddetta valutazione non corrisponde alle aspettative della società, ciò non significa che la sentenza è di per sè immotivata per il solo fatto che sono condivise le considerazioni operate dal Tribunale.

Nè possono venire in rilievo gli assunti della società secondo i quali la sentenza non risponde a tutti i motivi di appello. Difatti, per correttamente investire questa Corte della relativa questione la società avrebbe dovuto dedurre la violazione dell'art. 112 cpc, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4.

E' giurisprudenza consolidata di questa Corte che l'omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello - così come, in genere, l'omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio - risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3 o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l'abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo "error in procedendo" - ovverosia della violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4 - la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità - in tal caso giudice anche del fatto processuale - di effettuare l'esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell'atto di appello. La mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro "ex actis" dell'assunta omissione, rende, pertanto, inammissibile il motivo (Cass. 1755/2006 e Cass. S.U. 2006 n. 23071/2006).

Passando all'esame del primo motivo del ricorso ritiene la Corte che lo stesso è infondato.

E' opportuno richiamare, innanzitutto, alcuni principi fondamentali elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema, e di licenziamento, e di limiti del sindacato del giudice di legittimità che costituiscono, in quanto definitivamente acquisiti, regula iuris.

Sotto il primo profilo viene in evidenza, ai fini di cui trattasi, la regola secondo la quale in tema di licenziamento per giusta causa occorre che la mancanza del lavoratore sia tanto grave da giustificare l'irrogazione della sanzione espulsiva e, pertanto, va valutato il comportamento del prestatore non solo nel suo contenuto oggettivo - ossia con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle. mansioni espletate - ma anche nella sua portata soggettiva e, quindi, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento volitivo dell'agente (per tutte V., fra le ultime, Cass.5019/2011 e 8641/2010).

Sotto il secondo profilo viene, poi, in rilievo la ricorrente affermazione che in tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità (Cfr., per tutte, Cass. 7948/2011).

Nè va sottaciuto che costituisce massima consolidata di questa Corte quella secondo la quale il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, con la conseguenza che il preteso vizio di motivazione sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione (V. per tutte Cass. 2357/04).

Nè questo vizio può consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (Cfr. Cass. 15693/04).

Alla stregua di siffatti principi risulta, innanzitutto, infondata la critica mossa alla impugnata sentenza secondo la quale il giudice di appello avrebbe posto a fondamento della propria decisione una nozione errata di giusta causa o giustificato motivo.

La Corte del merito, invero, nel dare rilievo, ai fini del giudizio di proporzionalità tra fatti addebitati e sanzione adottata, all'assenza di precedenti disciplinari, alla non gravità dei comportamenti addebitati, al sovraccarico lavorativo oggettivamente aggravato dalla lentezza dei sistemi operativi, all'assenza di volontà di arrecare nocumento al datore di lavoro, alla mancanza di vantaggi personali nonchè all'intento di semplificare il lavoro per far fronte alla massa di lavoro ha tenuto correttamente conto, con motivazione priva d'incongruenze logiche, degli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del rapporto di lavoro, nonchè della portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, dei motivi e della intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto.

Nè può non rilevarsi che la sentenza impugnata è conforme al principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo il quale in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso - rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto, e l'inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 cod. civ., sicchè l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (V. da ultimo Cass. 6848/2010 e giurisprudenza ivi richiamata).

Consegue da tanto, che l'apprezzamento di merito della proporzionalità tra infrazione e sanzione in quanto sorretta da adeguata e logica motivazione si sottrae, come tale, al sindacato di legittimità (Cfr. per tutte da ultimo Cass. 8293/21012.) risolvendosi le critiche mosse sul punto alla sentenza impugnata in una inammissibile istanza di diversa valutazione delle emergenze istruttorie.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.




P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 50,00 per esborsi oltre Euro 3.500,00 per compensi ed oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 gennaio 2013.



Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2013
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