Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana



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L’ANOMALIA PSICOPATOLOGICA

 

I dueiniziatori della fisiopatologia sono l’uno, Bernard, morto da un quindicennio, e l’altro, Virchow, ancora attivo e assurto quello stesso anno al rettorato dell’Università di Berlino, quando un giovane e promettente allievo della Facoltà medica viennese, Sigmund Freud (1856 – 1939), pubblica nel’93 sulle Archives de neurologie un articolo: Alcune considerazioni per una studio comparativo delle paralisi motorie organiche e isteriche[16], che crea una vistosa anomalia rispetto al paradigma fisiopatologico della medicina scientifica. L’anomalia era destinata a crescere, anzi a ingigantirsi, passando dalla psicoanalisi alla psicosomatica, fino a essere riconosciuta e ricompresa nello spazio complessivo della medicina, non senza perduranti incertezze. Qui è necessaria una parentesi. Abbiamo adottato una terminologia di derivazione sociologica (R. Merton, Th. Kuhn) – paradigma, anomalia -, con il vantaggio di acquisire, per determinati termini, significati condivisi. Rispetto al paradigma, insieme di asserzioni basilari per una teoria o per una disciplina, si configura come anomalia ciò che, a differenza del puro e semplice ampliamento, contraddice uno o più princìpi sostanziali dell’impianto teorico originario, pur accettandone altre asserzioni normative. Nei riguardi della fisiopatologia assunta come paradigma, risulta anomala la prospettiva psicoanalitica e psicosomatica, che rimanda a fattori non inerenti a strutture anatomiche oppure a funzioni di organi determinati: coerente al paradigma era, viceversa, lo sviluppo della microbiologia con Louis Pasteur (1822-1895) e Robert Koch (1843-1910). Riprendiamo il nostro discorso. Nella memoria citata, Freud dava notizia di una nuova tipologia di paralisi, non simulate e non accompagnate da lesioni cerebrali, distribuite sui distretticorporei «come se l’anatomia del sistema nervoso non esistesse.» Cominciava il lungo itinerario freudiano dalle neuropsicosi di difesa alle fobie, alle psiconevrosi d’angoscia, al narcisismo, alle ossessioni: stati morbosi dove i vissuti psichici imprimono sul soma il loro suggello, anzitutto disegnandovi il profilo soggettivo del sintomo, pur senza ripetere da alterazioni somatiche la loro origine e il loro decorso. Questo la fisiopatologia non poteva accettarlo – e lo aveva rifiutato all’aprirsi della nuova prospettiva con il capo della scuola neurologica di Vienna, Theodor Meynert (1833-1892) -, pur avendo abbandonato, già con Virchow, la pregiudiziale di un rigoroso materialismo, a favore di altra, più aperta e meglio difendibile premessa ideologica. La priorità causale doveva attribuirsi al soma, la posteriorità agli effetti e, tra essi, ai disturbi psichici.

Secondo Freud, il paziente affetto da paralisi isterica subiva l’effetto di ricordi sottratti alla coscienza: era l’evento traumatico pregresso, non una lesione anatomica che provocava il deficit motorio e ne disegnava il contorno. Come accedere a contenuti psichici dimenticati, sommersi? Negli Studi sull’isteria, pubblicati nel ’95 con Joseph Breuer (1842-1925)[17], il caso clinico dominante, quello di Anna O., pseudonimo di Berta Pappenheim, presentava una procedura curativa che la stessa paziente aveva inventata. Dando libero corso ai propri pensieri, Anna O. vedeva risolversi i deficit motorî e lo stato di agitazione in cui si trovava. A questo punto occorreva trovare il coraggio, da parte del terapeuta, di rinunciare a ogni intervento esterno, in particolare all’ipnosi, e adottare «un procedimento di svuotamento strato per strato, che ci piaceva paragonare alla tecnica del dissotterrare una città sepolta.» Nel caso di Emmy von N., compreso negli Studi, Freud giungeva a una delle nozioni fondamentali dell’analisi, quella di «conversione» [Konversion], per cui l’energia psichica, proveniente da una rappresentazione rimossa, si traspone in sintomo somatico, conferendogli un contenuto espressivo che diventa un significato da recuperare. Ma negli stessi anni Freud affrontava il problema del sintomo da un altro punto di vista come «equivalente dell’attacco d’angoscia», mascherato, insospettabile. La neuropatologia era giunta a un bivio, tra la psiche tradotta e talvolta regredita in corporeità, e la corporeità come contenitore di processi non giunti a elaborarsi psichicamente.

Il secondo itinerario sarà quello percorso dalla medicina psicosomatica con i suoi più autorevoli Autori e i testi che ne hanno fissato l’assetto teorico: Franz Alexander, Medicina psicosomatica: princìpi e applicazioni[18], Michael Balint, La colpa basilare. Aspetti terapeutici della regressione[19], Viktor von Weizsäcker, Natura e spirito[20], Günter Ammon, Psicoanalisi e psicosomatica[21]. La psicosomatica si allontana dalla storia del soggetto, dell’Io, per tornare alla genesi delle strutture egoiche, penetrando nel cuore della struttura relazionale produttrice della malattia, che è ravvisata nella «famiglia psicosomatogena». Punto nodale dell’evento morboso nel paziente con reazioni psicosomatiche, secondo Ammon, è il disturbo delle funzioni basilari dell’Io corporeo: l’aggressività e il narcisismo. Il vertice della soggettività, tra coscienza e «potenze del destino», per dirla con il Freud di Inibizione, sintomo e angoscia[22], si perde in un lontano orizzonte per chi segua l’itinerario psicosomatico, e non quello psicoanalitico del Maestro di Vienna e del suo geniale e infedele allievo, Carl Gustav Jung (1875-1961), analista dell’espressione simbolica tra psicologia del profondo e scienze umane[23]. Si è intanto costituita una psichiatria, totalmente rinnovata, attraverso Karl Jaspers (1883 – 1969) e la sua con la Psicopatologia generale[24] , alla ricerca d’ipotesi interpretative e tentativi terapeutici nell’universo sovvertito delle psicosi.

Quanto sopra accennato, in particolare la complementarità di psicoanalisi e psicosomatica, dovrebbe favorire il riassorbimento dell’anomalia psicopatologica, in funzione interrogativa e problematica, nella fisiopatologia, pur all’inizio circoscritta nella funzione di riferimento paradigmatico. E tuttavia ciò tarda a verificarsi, perché la corporeità, come la fisiopatologia è incline a concepirla, non offre un terreno ontologicamente idoneo all’innesto della mente o, più modestamente, del mentale. Sono rimaste convinzioni isolate quelle del Bernard nel Quaderno rosso, per cui la caratteristica di ogni cosa risiederebbe nel suo «insieme», che a sua volta non avrebbe un «sostrato materiale determinato», ma sarebbe «per così dire, l’anima della cosa.» Siamo al confine dell’osservabile, che troppo spesso la scienza ha considerato e considera come il confine del pensabile, almeno in senso scientifico. Saranno la teoria dell’informazione e la cibernetica a varcarlo, il presunto limite, meccanicistico ed empiristico, della pensabilità, tra gli anni Quaranta e i Cinquanta: ilcibernetico Norbert Wiener riconoscerà che un materialismo non aperto all’immaterialità dell’informazione si preclude il diritto di appartenere all’odierno pensiero scientifico. Va riconosciuto al paradigma fisiopatologico il merito di un’evoluzione sostanziale affrontata e proseguita nel Novecento, per rintracciare e descrivere l’unità somatopsichica dell’organismo. Il sistema nervoso autonomo diventa il garante dell’omeostasi interna. Sistema nervoso e ghiandole endocrine giungono a correlarsi in un nuovo programma di ricerca, la già segnalata neuroendocrinologia, superando la netta cesura che il Bernard aveva postulata tra funzioni di relazione e funzioni di nutrizione. Ma l’unità dell’individuo che da ciò scaturisce, pur rappresentando una lusinghiera conquista, dev’essere avviata verso l’unità psicosomatica della persona. Con l’ontologia virtuale che la sottende, tale unità rappresenta il nuovo traguardo che il paradigma fisiopatologico, e con esso l’intera medicina, hanno avuto il grande merito di delineare e dovranno nei prossimi decenni cercar di raggiungere, articolare, definire.

 

 



LA DIMENSIONE CHIMICA

 

Alla fine del Settecento, l’analisi chimica della vita si affianca alle discipline morfologiche della tradizione, e alla più recente fisiologia, con Antoine L. Lavoisier (1743 – 1794) e la sua «révolution chimique». Un coraggioso innovatore, Lavoisier, rispetto alla conoscenza dei costituenti elementari della natura, come Galilei e Newton erano stati rispetto alle leggi del movimento. Le due rivoluzioni in corso, quella sociale e quella chimica, culminano entrambe nello stesso luogo e anno: a Parigi nell’89 si riuniscono gli Stati generali e si pubblica il Trattato elementare di chimica[25]. L’aria non è più un corpo semplice, ma mostra d’essere la miscela di un elemento ossidante e di un altro, insufficiente a preservare la vita e perciò chiamato «azoto». Si chiarisce in che cosa consista la respirazione: i polmoni trattengono l’ossigeno contenuto nell’aria inspirata e restituiscono la parte residua. Nello stesso periodo i punti di vista dai quali erano osservati e descritti gli organismi viventi, con il naturalista Georges L. Buffon (1707 – 1788) e il fisiologo Gottfried R. Treviranus (1776 – 1837), accennano a unificarsi nella «biologia», che il Virchow definirà «teoria della vita in genere e in particolare dell’uomo», indicandone la compiuta realizzazione nella propria fisiopatologia. Tra questa prospettiva e la nuova chimica Lavoisier aveva istituito un intrinseco rapporto: non a caso una delle sue innovative memorie era apparsa nell’85 sulle Annales de la Société de médicine[26]. Mandato alla ghigliottina come «fermier du Roi», esattore delle imposte al servizio della corona, Lavoisier muore precocemente, ma la strada aperta da lui si prolungherà verso traguardi lontani.



 

La chimica fisiologica

Fra gli «elementi» elencati nel Trattato con ampiezza di particolari, c’era il carbonio, capace di combinarsi con il principio ossidante dell’aria formando un composto acido allo stato gassoso. La posizione privilegiata del carbonio nella scala elettrochimica degli elementi verrà in seguita adeguatamente chiarita, e potrà nascere una «chimica organica», dapprima collegata con l’organismo come presunto fattore di sintesi per i composti del carbonio, poi affrancata dall’ipotesi di una «forza vitale». All’interno della chimica organica si sarebbe enucleata una «chimica fisiologica» con Felix Hoppe-Seyler (1825 -1895), scopritore dell’emoglobina contenuta nei globuli rossi come vettore dell’ossigeno ai tessuti: la struttura chimica e il dosaggio saranno opera di Anders Angström (1814 – 1875). Siamo negli anni in cui nascono la fisiopatologia e la medicina scientifica, con il Virchow e il Bernard: quest’ultimo, come dimostrano alcuni volumi nell’imponente serie delle Leçons, assertore di un esteso e intrinseco rapporto tra chimica e vita. Un allievo tedesco del Bernard, Wilhelm Kühne (1837-1900), coniava nel ’78 il termine «enzima» e contribuiva a individuare i fattori enzimatici-gastrici, intestinali, pancreatici –, che agiscono nei processi digestivi. Come le trasformazioni metaboliche, anche quelle enzimatiche possono ottenersi fuori dall’organismo. Se Friedrich Wöhler (1800 – 1882) nel ’28 aveva ottenuto in laboratorio l’urea che si produce nel metabolismo delle proteine, Edouard Büchner (1860 – 1917) nel ’97 trasformava il glucosio in etanolo e anidride carbonica utilizzando un estratto cellulare di lievito. Al passaggio dall’Otto al Novecento, chimica fisiologica e fisiopatologia avevano lavorato a un’estesa correlazione dei propri ambiti, mostrando la presenza praticamente ubiquitaria di processi chimici in quelli vitali, tanto da simulare un rapporto di causa a effetto. La «biochimica» subentra, quando il passaggio dalla natura inorganica alla natura vivente è stato assunto a proprio carico dalla teoria dell’evoluzione, che ne attenua l’aspetto problematico a vantaggio dell’inferenza osservativa, e valendosi di concetti che fungono da simulatori di evidenza: quello stesso di evoluzione, poi la selezione, l’adattamento, l’autorganizzazione. Ma problemi sostanziali della transizione dalla fisica e dalla chimica alla vita si riproporranno con il successivo passaggio dalla biochimica alla «biologia molecolare».

 

La biochimica

Il ventesimo secolo riceve in eredità una chimica per così dire esterna all’organismo, dove va a inserirsi, paradossalmente, una classe di sostanze che l’organismo stesso è incapace di sintetizzare, pur essendo indispensabili a determinate funzioni: le «vitamine», così chiamate dal biochimico polacco Casimir Funk (1884 – 1967), che dedica loro nel 1914 un’opera di esauriente informazione[27],totalmente rielaborata nel ‘22, introducendo il concetto di «malattie da deficienza». Ma l’apporto chimico esogeno, pur avvalorato dai citati «catalizzatori organici» - la definizione è del Funk -, non arriva a pareggiare per varietà di produzione e significato l’apporto endogeno, proveniente dai processi chimici che si svolgono nei tessuti del corpo umano e animale. Agli enzimi si aggiungono gli «ormoni» - il termine è dovuto a William M. Bayliss (1860 – 1924) e Ernest H. Starling (1866 – 1927) – e i «mediatori chimici» tra nervo e muscolo, individuati da Otto Loewi (1873 – 1961) e Henry H. Dale (1875 – 1968). Sono sostanze che s’inseriscono in connessioni o nicchie funzionali, e sembrano attualizzare la metafora della macchina umana, evocata nel Settecento dal materialista Julien de la Mettrie (1709 – 1751), ma ancora idonea a recepire il problema delle simultaneità e sinergie di parti inserite in un tutto. La chimica endogena è peraltro rappresentata nell’importanza prioritaria che le compete da due fondamentali processi: il metabolismo e l’immunità.



Il metabolismo degli organismi viventi dev’essere considerato una delle massime conquiste conoscitive del ventesimo secolo. I biochimici preferiscono parlare di «metabolismo intermedio», riconducendovi tutte le fasi della trasformazione di proteine, zuccheri e grassi, fino al bivio tra utilizzo energetico e impiego nelle attività di sintesi. Con Hans A. Krebs (1900 – 1981), Albert Szent-Györgyi (1893 – 1986) e Fritz A. Lipmann (1899 – 1986) – nomi che richiamano l’esodo dall’Europa continentale di una larga parte della ricerca scientifica avanzata, negli anni Trenta – si definiscono i concetti di via metabolica, ciclo di reazione, veicolo molecolare, legame chimico ad elevata energia potenziale: nozioni che mettono ordine stretto, vincolante nei rapporti tra natura inorganica e natura vivente. Dentro la cosiddetta area centrale del metabolismo, il «ciclo di Krebs» unifica le vie metaboliche di protidi, glicidi e lipidi, con reazioni cataboliche e anaboliche, accompagnate rispettivamente da liberazione e assorbimento di energia. Le ricerche del Lipmann metteranno in particolare evidenza il ruolo di una sostanza, l’adenosintrifosfato (ATP), che contiene nella sua molecola due legami fosforici ad alto potenziale energetico, e pertanto può fungere da accumulatore ed erogatore di energia. In anni recenti Edwin G. Krebs e E. Fisher dimostreranno la presenza dell’ATP nella catena di conversione del glicogeno in glucosio, mediante fosforilazione dell’enzima glicogenofosforilasi, con un processo a sua volta catalizzato nei due sensi dal doppio fattore enzimatico chinasi – fosfatasi. Si avvicinano gli anni della «biologia molecolare», e la cellula dello Schwann e del Virchow, trasformatasi in laboratorio ipercomplesso, dopo aver infrasceso con i suoi costituenti macromolecolari l’osservabilità della microscopia ottica, si ricolloca al centro della biomedicina.

L’immunità decorre parallelamente al metabolismo. I suoi inizi datano dalle osservazioni e dagli esperimenti compiuti da Charles Richet (1850 – 1935), mediante successive inoculazioni di sostanze velenose estratte dalle anemoni di mare: invece di essere immunizzati, gli animali da esperimento morivano per dosi che avrebbero provocato limitati effetti incondizioni normali. Nel 1902 Richet conia il termine «anafilassi», superdifesa, e le dedica un’organica opera nell’11[28]. L’anafilassi diventerà uno dei capitoli dell’immunopatologia, mentre l’immunità viene meglio compresa in termini fisiologici avvicinandola, per i Vertebrati, a ciò che la fagocitosi rappresenta per gli Invertebrati: un processo che serve a difendere la specificità biochimica ed è attivato quando sostanze eterogenee abbiano oltrepassato la barriera della cute e delle mucose di un vertebrato, penetrando nei tessuti. All’ingresso dell’antigene o dell’aptene – proteine e carboidrati, ma anche lipidi, acidi e acidi nucleici -, segue negli organi linfatici la formazione di anticorpi, costituiti da immunoglobuline capaci di coniugarsi chimicamente con l’antigene e d’inattivarlo. In sinergia con i linfociti, elaboratori degli anticorpi, operano le cellule fagocitarie. Due teorie, quella istruttiva e quella selettiva, si sono proposte di spiegare la formazione delle sostanze anticorpali. Secondo la teoria istruttiva, prevalente negli anni Trenta, l’anticorpo si formerebbe sotto l’azione diretta dell’antigene, all’interno delle cellule produttrici. Secondo la più recente teoria selettiva, gli anticorpi sono invece formati partendo dalla matrice di un’informazione che preesiste nell’organismo interessato: l’antigene seleziona le cellule atte a riceverlo e indirettamente ne provoca la proliferazione. L’immunopatologo australiano Frank M. Burnet (1899-1985) ha aggiunto alla teoria prima citata l’ipotesi della selezione clonale, trasferendo l’indagine immunologica al livello molecolare delle immunoglobuline. Aderendo alla superficie della globulina, l’antigene selezionerebbe il relativo clone anticorpale negli organi linfatici, che a loro volta provvederebbero alla sua moltiplicazione selettiva. Lo stesso meccanismo è invocato per spiegare l’«autoimmunità»: parti del corpo divenute eterogenee rispetto all’organismo, diventano il bersaglio della reazione difensiva, alla quale l’immunità si riconduce. E’ del Burnet l’opera di riferimento su tale problema di frontiera: Autoimmunità e malattie autoimmuni[29]. Ma dagli anni Cinquanta si era aperto nella fisiopatologia, e in particolare nell’immunopatologia, il nuovo capitolo dei trapianti d’organo: prima il rene, trapiantato con successo nel ’55 fra gemelli monocoriali, poi il cuore ad opera del cardiochirurgo sudafricano Christian N. Barnard, e ancora il fegato, i polmoni, il pancreas, l’intestino. La risposta dell’ospite al trapianto, il rigetto dei tessuti trapiantati da parte dell’ospite – ma anche il caso inverso, nel trapianto di midollo osseo: il rigetto che le cellule trapiantate attuano verso i tessuti dell’ospite -, i trattamenti farmacologici capaci di sopprimere il rigetto provocando la cosiddetta «immunosoppressione», sono i problemi che l’immunopatologia individua e risolve, valendosi di competenze specialistiche, alle quali offre un terreno di convergenza e di unificazione. La farmacologia fornisce una nuova sostanza attiva, la ciclosporina: un polipeptide ciclico a 11 amminoacidi, capace di interferire con l’interleuchina, sostanza attivatrice dei linfociti produttori di anticorpi. Le conoscenze sull’immunità sono giunte a pareggiare, come già accennato, quelle sul metabolismo: e anch’esse devono essere annoverate tra i massimi avanzamenti della scienza, ottenuti nel Novecento.

 

La biologia molecolare

Il cellularismo aveva aggiunto alla dimensione macroscopica della vita l’osservabilità microscopica, permettendo una definizione non meramente intuitiva dell’entità vivente. Chimica fisiologica e biochimica avevano ottenuto un risultato di non minore importanza: il collegamento di natura vivente e natura inorganica, con un rapporto di dipendenza della prima dalla seconda, almeno implicitamente suggerito. E’ questo rapporto che s’inverte con il passaggio dalla biochimica alla biologia molecolare, dopo aver accantonato il paradigma infecondo, fisicochimico, della «biocolloidologia» (M. Florkin), sostituendolo con la strutturistica: quest’ultima ancorata alla Natura del legamechimico di Linus Pauling (1901-1994)[30], cardine di una nuova correlazione assiomatica di tutte le scienze della natura. Le molecole della vita hanno struttura di alta complessità; sono qualitativamente diverse; si mostrano collegate da sinergie o finalità, attuali o virtuali; molte di esse possono ottenersi allo stato cristallino, a differenza dei colloidi. La complessità è il termine che emerge su tutti gli altri: una complessità organizzata e codificata. Chi per primo oppone l’ordine trasmissibile di un «codice», «code-script», alla media statistica, e considera quest’ultima insufficiente a spiegare la trasmissione ereditaria dei caratteri negli organismi viventi, è il fisico Erwin Schrödinger (1887 – 1962), creatore della meccanica ondulatoria. In Che cos’è la vita?[31], nato dalle lezioni tenute nel ’43 al Trinity College di Dublino e pubblicate l’anno successivo, si dà corso a una rettifica sostanziale della filosofia meccanica della natura. A riprendere il giudizio di Bergson sul Bernard, si potrebbe dire che il saggio dello Schrödinger è un discorso sul metodo per la scienza del ventesimo secolo. Discorso, ma anche profezia: tra il ’44 e il ’53 gli acidi nucleici conferiscono un’identità precisa al codice prima citato. La breve memoria di James D. Watson e Francis H. Crick, intitolata Struttura molecolare degli acidi nucleici[32], esce sul periodico Nature nell’aprile 1953: ma è preceduta da un decennio di elaborazione concettuale. Di primaria importanza era stato il contributo dell’immunopatologia al nuovo ordine d’idee. Ma, come osserva il biochimico Erwin Chargaff, era necessario che chimici e biologi fossero pronti ad accettare l’esistenza in natura di molecole gigantesche: il lungimirante Schrödingeraveva parlato del gene come di una macromolecola che consuma entropia negativa.

Si apre un intero orizzonte di nuove conoscenze, parte delle quali vanno a integrare la biochimica del metabolismo, parte invece coinvolgono la regolazione funzionale dell’intero organismo, compresa la trasmissione dei caratteri ereditari. L’unità strutturale dei due acidi nucleici – ribonucleico (RNA) e desossiribonucleico (DNA) – è il «nucleotide», che allinea un idrato di carbonio e una base azotata, purinica o pirimidinica: adenina, citosina, guanina, timida, uracile. Nel DNA del nucleo cellulare umano, i nucleotidi ammontano a tre miliardi e agiscono in triplette, i «codoni». Sebbene una larga parte sia presente nei cromosomi ma estranea all’attività dei geni, dunque non organizzata in triplette, la possibilità dell’accennato controllo sulle funzioni organiche è oltremodo vasta e articolata. Invece diventa problematica l’unità – della cellula, dell’organo, dell’organismo – nel mare della molteplicità che la biomedicina si trova a solcare. Le cellule dell’organismo umano sono stimate nell’ordine di dieci alla diciassette, la sola corteccia cerebrale ne avrebbe cento miliardi, ciascuna cellula capace di cento miliardi di collegamenti sinaptici. L’ottenimento dell’unità richiederebbe un salto analogo a quello dalla quantità inerziale della materia alla qualità non inerziale dell’«informazione», che la cibernetica non ha esitato a compiere. Ma il passo dai molti all’uno non viene compiuto, e si delinea una complessità non unificata, paradossale, stupefacente, che rimane tale ancor oggi.

Il nuovo ordine d’idee, riprendiamo una precedente espressione, non implica forse la messa in liquidazione dell’originaria fisiopatologia di matrice cellulare? No, anzi ce n’è una conferma dopo la trasformazione della cellula in un laboratorio, che contiene il «codice genetico» al centrodelle proprie sinergie funzionali. Peraltro il riduzionismo non è disposto a dare partita vinta allo strutturalismo, solo perché dal du Bois-Reymond allo Schrödinger si sia dimostrata insostenibile l’autosufficienza della meccanica: eppure la struttura avrebbe un numero crescente di fatti da addurre a proprio favore, rispetto al corpo materiale mobile e alla «teoria dell’urto», che dovrebbe valorizzarlo. Le nuove parole d’ordine sono macromolecole, doppia elica – quella degli acidi nucleici, nucleotidi, triplette, ribosomi, amminoacidi, mitocondri – citati questi ultimi sempre meno spesso, perché disturbano lo schematismo riduzionistico che si è costituito. Invece s’insinua nel discorso scientifico un termine ambiguo di antica origine, il caso. Il biochimico cellulare Jacques Monod in un volume del 1970 che non mantiene la promessa contenuta nel titolo: Il caso e la necessità: saggio sulla filosofia naturale dellabiologia moderna[33], presume di spiegare l’ordine della vita, e dunque l’intera anatomia comparata, con mutazioni casuali della sequenza nucleotidica, che vengono accettate e incorporate stabilmente nel genoma attraverso la selezione evolutiva. Non lo segue il genetista François Jacob, che insieme al Monod aveva individuato l’azione dell’acido ribonucleico (RNA) nella sintesi delle proteine, in La logica del vivente[34]: un organismo risulta da una serie di piani organizzativi, incastrati l’uno nell’altro. Con diversa responsabilità intellettuale un altro biologo molecolare, Renato Dulbecco, ha rappresentato il Progetto della vita[35], collocandovi la «macchina cellulare» accanto al DNA. Nel Sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza[36], il genetista Richard Lewontin dell’università di Harward, spinge oltre la critica con sottile ironia: «Il DNA è una molecola morta, una delle molecole meno attive e chimicamente più inerti del mondo vivente… Il DNA non ha il potere di riprodurre sé stesso…Nessuna molecola vivente si autoriproduce. Solo le cellule intere possono contenere tutto il meccanismo necessario per la auto-riproduzione e anch’esse, nel corso dello sviluppo, perdono tale capacità…La sequenza lineare di nucleotidi nel DNA è usata dal meccanismo della cellula per determinare quale sequenza di aminoacidi dev’essere inscritta in una proteina, e per determinare quando e dove la proteina dev’essere prodotta.» (pp.112 s.)

Si può obiettare al Lewontin che il DNA rimane la macromolecola biologica con la massima quantità d’informazione per unità di volume o, detto altrimenti, con la densità massima di contenuto informativo. Ma sarebbe un’argomentazione non sostanziale: anche un vocabolario contiene la più elevata quantità d’informazione linguistica, e tuttavia la finalità sta altrove, nel linguaggio con la sua universalità espressiva e il suo uso colloquiale. Analogamente, gli acidi nucleici appartengono al ciclo di produzione delle proteine, ne rappresentano il momento codificato dell’invarianza strutturale: il recente riaffacciarsi di una «proteomica» nella biomedicina potrebb’essere il segnale di un’inversione di tendenza nel percorso teorico e sperimentale della biologia molecolare. Intanto il Progetto Genoma, un’impresa internazionale per il sequenziamento degli accennati tre miliardi circa di nucleotidi presenti nei ventitre cromosomi delle cellule umane, si sarebbe conclusa in maniera spettacolare, a fine secolo e millennio: il 26 giugno 2000 lo hanno annunciato il Presidente degli Stati Uniti e il Premier britannico, dando l’impressione di voler suggellare politicamente il secolo e il millennio in via di conclusione, con un annuncio peraltro prematuro. Spazi vuoti, come dicono i genetisti, sequenze imprecisate sull’uno o sull’altro cromosoma sono state chiarite in seguito: è dei giorni scorsi l’annuncio, sulla rivista Nature, di un’analisi sequenziale approfondita del cromosoma 11, che ospita uno dei «loci» dell’Alzheimer e nel 5 percento dei casi si aggiunge nella sindrome Down alla trisomia del cromosoma 21 – l’anomalia genetica scoperta nel mongolismo da Jérôme Lejeune (1926-1994), nel 1958. Il rapporto tra «loci» genici e funzioni non è quello tra tasto e lettera della macchina per scrivere, se non in casi eccezionali: alla singola funzione corrisponde una struttura di più località geniche e spesso cromosomiche. La vita è struttura a tutti i livelli. Come accennato, solo il tre-cinque percento della sequenza nucleotidica costituisce i «geni», il resto ha provenienza e funzione sconosciute. L’accennato rapporto costituisce un dato sorprendente. Si è ipotizzatoche il cosiddetto «DNA spazzatura», quello non genico, derivi da virus insinuatisi nelle cellule umane durante la lunga storia della vita. Se l’ipotesi verrà provata, potrà derivarne la conferma dell’esistenza di correlazioni strutturali forti, all’interno delle classi in cui sono ripartiti gli organismi viventi: tipi, classi, ordini, generi, specie, fino alla classe che ha un solo membro, quella dell’individuo. Basandosi sulle accennate correlazioni, una minoranza molecolare potrebbe coesistere con una maggioranza soverchiante e esercitare il proprio controllo sullo sviluppo: in modo analogo, il lungo nastro del DNA viene «impacchettato» nella cromatina, obbedendo una singola invarianza topologica.

 

 


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