Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana



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IGNAZIO MARINO
ETICA DELLA RICERCA BIOMEDICA: 
PER UNA VISIONE CRISTIANA


INTRODUZIONE

 

La ricerca è componente integrante dell’impegno professionale dei medici e, quindi, del progresso scientifico. I progressi in campo medico, soprattutto quelli raggiunti negli ultimi anni a seguito delle nuove scoperte nel campo dell’ingegneria genetica e della biotecnologia, aprono la strada a terapie e pratiche che spesso mettono in discussione principi fondamentali della medicina tradizionale e sollevano annose questioni etiche.



La valutazione della condotta umana in ambito medico e scientifico alla luce di valori e principi morali si è resa sempre più necessaria negli ultimi decenni, parallelamente all’avvento di scoperte e ricerche che hanno rivoluzionato la posizione stessa dell’uomo (medico e paziente) nei confronti della natura, della vita e della morte. Non a caso il termine “bioetica” viene coniato all’inizio degli anni ’70 negli Stati Uniti dall’oncologo Van Rensselaer Potter, quando l’esigenza di coniugare approccio umanistico e sapere scientifico diventa urgente in seguito ai prodigiosi progressi ottenuti, ad esempio, nel campo dello studio del DNA, della medicina dei trapianti d’organo e della terapia genetica. Potter sosteneva che la bioetica doveva essere una disciplina che combinasse la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani. Egli era preoccupato della divisione tra i due saperi, quello umanistico e quello scientifico; nella sua analisi tale separazione aveva le potenzialità di distruggere il nostro ecosistema. Vi era, quindi, l’esigenza di unire in una nuova disciplina, la bioetica, i valori etici con la biologia e tale scienza doveva estendersi a tutto ciò che riguardava la vita dell’uomo (“global bioethics”)[1]. L’iniziativa di istituzioni quali l’Hastings Center (sorto ad opera del filosofo cattolico Daniel Callahan e dello psichiatra Willard Gaylin nel 1969) e il Kennedy Institute of Ethics (fondato nel 1971 da André Hellegers, un famoso ostetrico di origine olandese) ha portato alla definizione di un ambito di indagine prima inesplorato o, forse, non consapevolmente sollecitato o talvolta solo spontaneamente inserito nella pratica scientifica. Nel 1978, con la pubblicazione della Encyclopedia of Bioethics, questa nuova disciplina viene introdotta nelle università. Oggi è impensabile ignorare gli innumerevoli quesiti morali emersi come conseguenza dell’inarrestabile progresso scientifico. La ricchezza e al tempo stesso complessità della riflessione bioetica nasce dalla sua stessa natura interdisciplinare. Come confermato dall’impegno della Pontificia Academia Pro Vita, un concreto contributo agli interrogativi morali posti dalla ricerca biomedica può derivare soltanto dal confronto continuo fra studiosi e operatori di diversa formazione e background: medici, biologi, teologi, giuristi, psicologi, sociologi, economisti. Questa caratteristica ribadisce e mina il ruolo (al tempo stesso centrale e marginale) della ragione nell’etica, un ambito in cui l’inconciliabilità di posizioni e scelte diventa non impasse argomentativo ma, piuttosto, il motivo stesso per dare avvio al dibattito pubblico. E per “pubblico” non dovremmo intendere semplicemente la cerchia multidisciplinare a cui si è accennato poco sopra ma il ben più ampio pubblico dei non-tecnici, dell’opinione pubblica. Nelle prossime pagine verrà sottolineato come tale allargamento del dibattito etico dovrebbe essere gestito con maggiore preparazione, onestà e senso di responsabilità di quanto fatto finora. Da un lato, infatti, i tecnici devono possedere un bagaglio formativo adeguato che non solo permetta loro di discutere del problema ma anche di porlo e presentarlo ai non addetti ai lavori in maniera adeguata. Dall’altro, dobbiamo auspicare che il dibattito su tali questioni diventi pratica comune fra l’opinione pubblica e adoperarci affinchè acquisisca strumenti e sensibilità adatte alla valutazione ragionata e non sensazionalistica. A monte, naturalmente, è imperativo l’impegno del ricercatore o del medico ed il suo “dovere di compiere scelte coraggiose”[2], il che comporta talvolta anche la difficile assunzione di responsabilità qualora una scoperta o una terapia non venga illustrata pubblicamente se ritenuta in coscienza di difficile interpretazione etica. Probabilmente, l’unica via percorribile è proprio quella della responsabilizzazione dell’uomo, dello scienziato come del paziente/cittadino che, di fronte a quesiti morali così profondi che influiscono o minacciano di influire sul futuro stesso dell’intera umanità, sappia fermarsi e decidere in coscienza.Questo (il concetto a-culturale e a-religioso di assunzione di responsabilità personale) potrebbe costituire anche un primo passo fondamentale per la difficile definizione delle caratteristiche di una bioetica universale e per la mitigazione delle differenze fra bioetica cattolica, bioetica protestante, ortodossa ecc. Tutto questo è oggi assolutamente necessario dal momento che la medicina non è più solo assistenza ma è anche un modo di intervenire sulla vita stessa: si può creare la vita in provetta o posporre la morte oltre i limiti naturali, utilizzando la straordinaria tecnologia raggiunta e disponibile nei reparti di rianimazione e terapia intensiva.

  

BIOETICA E DIBATTITO PUBBLICO

 

Come anticipato, l’apertura al pubblico del dibattito bioetico è un requisito fondamentale anche se necessita di modalità, tempi e strumenti appropriati. Ripercorrendo la storia del rapporto fra medico e paziente è interessante notare la lentezza con cui questo concetto ha preso piede e, di conseguenza, la permanenza, all’interno del rapporto stesso, di pregiudizi e sfiducia. Un esempio particolamente calzante riguarda il concetto di consenso informato. Questo argomento offre spunti interessanti per due motivi: innanzitutto, per sottolineare che l’ambito della bioetica è quello di maggiore interesse per il paziente e quello che oggi, più che mai, necessita il suo intervento diretto. In secondo luogo, la storia dello sviluppo del concetto di consenso informato ribadisce l’arida predominanza delle ragioni legali sopra quelle morali.



Un argomento spesso sfruttato per giustificare pratiche e prese di posizione più o meno “tradizionali” nel campo della professione medica è il giuramento di Ippocrate. Dal punto di vista storico è facile individuare un recupero del rapporto gerarchico medico-paziente riproposto in epoca medioevale con il giuramento di Ippocrate. Dopo l’isolato tentativo platonico di instaurare un dialogo più aperto fra medico e ammalato e la fase paleocristiana della medicina, in cui il medico è visto come guaritore dell’anima, non solo del corpo, il ruolo del paziente torna ad essere pressoché ininfluente di fronte al carisma indiscusso di un medico che è al tempo stesso tecnico e sacerdote. Ciò che manca del tutto è il rispetto dell’autonomia del paziente; in breve, il concetto di libera scelta, recentemente elaborato anche in termini giuridico-legali nell’idea di consenso informato. Il concetto di responsabilità inizia ad emergere durante il Rinascimento e si fa definitivamente spazio, in ambiti diversi, con l’Illuminismo e pensatori quali Locke, Kant, Stuart-Mill. La partecipazione all’informazione da parte del paziente va di pari passo ma è una lenta conquista, basti pensare che nel 1847 il primo codice di etica medica dell’American Medical Association (AMA)- la principale società medica statunitense - contempla ancora l’idea di inganno paternalistico a fin di bene. Nell’edizione del 1980 viene sottolineata la necessità di rispettare le richieste legali sul consenso informato. Importante e indicativo, quindi, il fatto che il concetto e la pratica del consenso informato prenda il sopravvento inizialmente non per ragioni etiche ma strettamente legali. Solo in tempi recenti il consenso informato è stato visto come diritto morale del paziente, permettendo all’ammalato di partecipare (o sottrarsi consapevolmente) al trattamento o al progetto di ricerca terapeutica proposta dal medico-professionista.

Questo è un esempio di come una pratica oggi accettata e rispettata universalmente come diritto morale si sia inizialmente affermata come puro requisito legale. La stessa vicenda, analizzando l’evolversi del rapporto medico-paziente (da “medico sacerdote”-“paziente ignorante” a “medico professionista”-“paziente informato”), prova quanto sia fondamentale il coinvolgimento diretto del singolo individuo. In altre parole, il dibattito bioetico deve coinvolgere ogni cittadino e non un ristretto gruppo di addetti ai lavori. Questo, per non ripetere e recuperare il pericoloso modello paternalistico degli esordi dell’arte medica.

  

UNA MORALE, TANTE BIO-ETICHE? UNA “MODEST PROPOSAL” PER IL SUPERAMENTO DEL PARTICOLARISMO ETICO

 

I più cogenti interrogativi morali vengono posti oggi dal fatto che la ricerca permette all’uomo non solo di intervenire in modo sempre più (onni)potente sulla cura e prevenzione di malattie ma sulla stessa vita, sulla sua origine e fine. Si va così ad intaccare il tabù, non solo cristiano, della tentazione di dominare la natura e la vita. Sempre più frequentemente i rischi conseguenti da tale atteggiamento vengono offuscati in nome del progresso scientifico e la cosiddetta neutralità morale della ricerca è diventata sempre più tristemente illusoria. E’ quindi necessario ribadire, oggi più che mai, che scienza e tecnica devono rispettare i criteri fondamentali dell’etica. Il vero dibattito si apre sulla individuazione e delimitazione universale (o internazionale, più semplicemente) di tali criteri. La difficoltà di definire un unico ed universale codice deontologico, considerata la delicatezza dei quesiti posti e le diverse personali e culturali interpretazioni di uno stesso problema etico, è il motivo stesso della nostra convocazione in seno alla Pontificia Academia Pro Vita. Da un lato avvertiamo la necessità di stabilire linee guida universalmente valide, dall’altro sembra che il campo stesso di indagine lo impedisca. La conseguenza diretta di questo impasse o, meglio, la sua soluzione abituale (purtroppo assai limitata) è molto spesso di tipo puramente legale-giuridico (vedi paragrafo su “Bioetica e dibattito pubblico”). Inutile dire quanto questa scelta sia spesso influenzata – se non guidata – da argomenti politici ed economici. Ci troviamo a confrontarci con quello che il Sommo Pontefice nel capitolo III della Enciclica Evangelium Vitae definisce “relativismo etico”, spesso sancito da una maggioranza parlamentare o sociale il cui carattere morale non è mai assolutamente automatico. Il compito della legge civile resta diverso e più limitato rispetto a quello della legge morale, tanto che in alcune circostanze possiamo addirittura parlare di abdicazione dell’etica. Lo stesso Mons. Sgreccia, nella più recente edizione della seconda parte del suo Manuale dedicata agli Aspetti medico-sociali[3], si dimostra consapevole della necessaria specificità dei valori etici. Non per niente parliamo di Bio-etica e non di Bio-morale. Le problematiche affrontate nel volume delineano un percorso eziologico carico di malessere per il disagio sociale e il vuoto dei valori che indeboliscono la capacità etica delle persone e delle stesse istituzioni. Per rompere questo cerchio si richiede una ripresa vigorosa della volontà di bene, di un anelito sincero verso la verità della persona e della società che è chiamata a costruire, mediante la ritessitura dell'ordine dei valori e un appello rivolto alla coscienza di tutti, anche dei legislatori, e proponendo il sostegno della medicina, soprattutto preventiva, e delle forze educative.

Come accennato nelle note di introduzione la scienza deve necessariamente passare attraverso una “coscientizzazione” delle diverse discipline. Fermo restando che la valutazione razionale è prerequisito indispensabile a quella morale, dobbiamo riconoscere l’ingannevolezza di quella che Giovanni Berlinguer definisce “bioetica giustificativa”[4] ossia la falsa morale del dettame per il quale tutto ciò che è tecnicamente possibile diventa automaticamente ammissibile e praticabile. L’arbitrio del ricercatore deve essere disciplinato dal senso di responsabilità, sempre bilanciato dalla valutazione lungimirante non solo dei rischi ma anche delle conseguenze. Ciò è possibile su base razionale, tecnica e non solo sulla spinta di una coscienza morale particolarmente sviluppata, né della fede religiosa. Si tratta quindi di una concreta finalità che ogni uomo di scienza (credente o meno) può e deve rispettare. Anche in questo modo, anzi soprattutto esercitando questo tipo di auto-regolamentazione ragionata e responsabile, l’uomo di scienza dimostra di comprendere e di saper gestire l’enorme potere che le recenti innovazioni tecnologiche mettono a sua disposizione. E questo non per recuperare in chiave semplicistica la classica figura paternalistica del medico/sacerdote, ma piuttosto quella dell’individuo consapevole, capace, responsabile e padrone dei propri strumenti cognitivi. Questa può affermarsi come una nuova visione antropologica che esula da categorizzazioni religiose e culturali e che può davvero costituire la chiave di accesso alla soluzione del problema della specificità di etiche particolari: la forza ed il potere di fermarsi, di evitare, di non spingersi troppo oltre, di non valicare il punto di non ritorno. Ciò non deve essere frainteso con una volontà bigotta di arrestare il progresso scientifico, bensì con quella di preservare il bene più prezioso: la vita umana e l’amore verso di essa – valori che nessuna cultura potrà mai arrivare a negare.

Il ruolo dello scienziato ne esce perfino potenziato, investito di una responsabilità che si estende al di fuori del laboratorio o dell’ospedale, che non si limita più alla scoperta ma alla sua valutazione lungimirante, in maniera responsabile e sempre aperta al dibattito, non più sterilmente ristretto alla comunità di tecnici. Non si tratta più, in questo caso, di ciò che il Sommo Pontefice definisce “atteggiamento prometeico dell’uomo che ... si illude di potersi impadronire della vita e della morte perchè decide di esse”[5]. La scelta responsabile e lungimirante dello scienziato avrà pienezza morale indipendentemente dal fatto che essa scaturisca e sia alimentata dalla fede in Cristo. “Il dovere di compiere scelte coraggiose”[2] non può essere limitato ai responsabili della cosa pubblica ma deve essere avvertito fortemente anche da ogni singolo componente della comunità scientifica. E comunque, che il professionista assolva o meno al suo compito di monitorizzazione ragionata, il singolo cittadino dovrebbe poter valutare coscienziosamente, con gli strumenti, le nozioni e la pratica che la società e lo Stato gli avranno fornito. In quest’ottica assume importanza fondamentale l’inserimento ufficiale e riconosciuto della bioetica, da un lato nel curriculum formativo obbligatorio di professionisti in campo medico, dall’altro nel ventaglio di argomenti con cui il grande pubblico si confronta regolarmente. Questa operazione aumenterebbe la consapevolezza delle problematiche morali connesse alla ricerca biomedica, rendendo il dibattito più consapevole e fruttuoso non solo fra gli addetti ai lavori ma anche fra quanti sono solitamente esclusi dalla fase decisionale sebbene direttamente coinvolti nelle sue conseguenze pratiche.

  

PER UNA BIOETICA CRISTIANA

 

Un problema potenzialmente tipico per la definizione di una bio-etica cristiana appare quello di doversi confrontare con discipline e tecnici storicamente laici, da un lato, e con bio-etiche ispirate da diversi credo, dall’altro (bioetica protestante, bioetica ortodossa, ecc.). L’approccio cristiano parte dall’assunto fondamentale che la vera natura della persona umana è al tempo stesso corporale e spirituale e che tale persona fa riferimento ad una legge morale naturale. La prima conseguenza è che qualsiasi intervento sulla persona coinvolge sia corpo, sia spirito. Da qui, un aumento di responsabilità morale da parte del medico o ricercatore. Tale responsabilità aumenta anche considerando la persona come creazione e incarnazione divina. L’uomo è “corpore et anima unus”[6]: questa è la cosiddetta visione antropologica a cui fare riferimento quando cerchiamo risposte ai quesiti posti dalle nuove scoperte biomediche. Questo può aiutare la cristianità a prendere decisioni etiche anche in presenza di valori e significati di ordine personale che spesso determinano il senso (o l’assenza di senso) morale degli interventi biomedici sull’uomo. Il ruolo della Chiesa può e deve essere riconosciuto non solo dai fedeli ma da quanti vedono in essa un magistero comunque posto al servizio del bene ultimo, la vita. E’ la missione evangelica della Chiesa ed il suo dovere apostolico che la autorizzano a giocare un ruolo fondamentale nella ricerca e valutazione di risposte etiche di fronte ai quesiti posti dalla ricerca biomedica.



Il superamento del pericoloso particolarismo etico all’interno di una visione morale universalmente accettabile diventa allora compito della Chiesa che può vivere tale missione non come annullamento della fertile pluralità di spunti e opinioni, bensì come occasione di nuova “evangelizzazione”. Il ruolo chiave di sensibilizzazione alla “cultura della vita” si concretizza proprio nell’importante chiarimento della complessità dell’equilibrio tra responsabilità sociale ed autonomia individuale. Questo avviene ribadendo il valore di una coscienza intatta e proiettata verso quella che il Sommo Pontefice contrappone alla “cultura di morte”[7] imperante e anzi promossa da alcune pratiche mediche recenti (vedi oltre: “Dalla compravendita degli organi alle cliniche per il suicidio”); ma questi valori non possono essere estranei ai non fedeli, facendo comunque appello al concetto di responsabilità ragionata e lungimirante, del tecnico così come del singolo cittadino – entrambi resi consapevoli della possibilità di un coraggioso atto di rinuncia in nome dell’amore per la vita.

Lo svolgimento pratico di tale rinnovata missione da parte della Chiesa richiede certamente la collaborazione e l’appoggio di quanti, singoli uomini e istituzioni pubbliche, non possono che condividerne la finalità universale: la loro stessa preziosa sopravvivenza e la possibilità di giocare un ruolo chiave nella sua difesa.



  

IL CASO DELLE GEMELLINE SIAMESI E LA DONAZIONE D’ORGANO DA VIVENTE

 

Dibattito pubblico, relativismo e particolarismo etico, bioetica giustificativa e bioetica cristiana, sono tutti argomenti che possono essere chiaramente discussi alla luce di un fatto realmente accaduto e delle sue implicazioni generali. L’esempio è fornito dalla drammatica vicenda che nel maggio 2000 in Italia ha coinvolto due gemelline siamesi neonate, entrambe vigili e cerebralmente intatte, per una delle quali si è ipotizzata la possibilità di sopravvivenza attraverso il “prelievo” di tessuto cardiaco dell’altra. Una sorta di “donazione da vivente” che implicava il “sacrificio” della vita di una delle due bambine, quest’ultima scelta sulla base della sua più debole fisiologia. Il ripercorrere analiticamente tale vicenda non solo ci consente di ragionare su quali pratiche oggi “tecnicamente” possibili siano anche “eticamente” lecite, ma ci permette anche di considerare il valore del dibattito pubblico ed il peso in esso della bioetica giustificativa. L’episodio ed il dibattito si incentrarono sulla liceità di “sopprimere” in sala operatoria una delle due bambine, separarne il corpo dalla sorella ed utilizzare parte del suo cuore per “donarlo”, come in un trapianto, all’altra bambina che avrebbe così potuto sopravvivere.Un cardiochirurgo si rese disponibile ad eseguire l’intervento e, personalmente, si cercò invano di coinvolgermi come potenziale chirurgo specialista nella chirurgia del fegato e dei trapianti. Infatti, si ipotizzava la necessità di dover dividere anche il fegato delle due sfortunate gemelline. L’intervento, al di là degli aspetti tecnici, poneva un unico importante quesito di bioetica. E’ lecito condurre in sala operatoria due individui con attività cerebrale integra avendo scelto che uno di essi dovrà essere ucciso per prelevare organi e/o tessuti necessari alla sopravvivenza dell’altro? E’ lecito sacrificare una vita umana per salvarne un’altra, entrare in sala operatoria con due infermi avendo già deciso di uscirne con un potenziale convalescente ed un cadavere? Oltre agli aspetti tecnici e all’eventuale fede religiosa credo che la risposta non possa che essere un fermo “no”. Se la risposta fosse “si” come si potrebbe dire “no” ad uno scenario (questa volta immaginario) del seguente tipo. Due fratelli gemelli monocoriali di 45 anni, uno malato gravemente di cuore al punto di richiedere con urgenza un trapianto cardiaco senza il quale morirà con certezza, l’altro con un apparato cardiovascolare sanissimo ma affetto da un tumore cerebrale che oltre a provocargli molto dolore non gli concederà più di 60 giorni di vita. Perché non utilizzare il paziente con il tumore cerebrale, che non preclude la donazione degli organi, come donatore “vivente” per suo fratello? Perché non portarli entrambi in sala operatoria, prelevare il cuore del paziente neoplastico, sopprimendolo – mettendo così fine alle sofferenze legate al tumore cerebrale - e, al tempo stesso, restituire la vita al gemello cardiopatico con il trapianto di cuore? Dal punto di vista del trapianto non solo ciò è tecnicamente possibile ma, essendo gemelli monocoriali, non sarà neanche necessaria la terapia immunosoppressiva, non essendoci rischio di rigetto e, quindi, alcun ostacolo per assicurare un’ottima qualità di vita al trapiantato. Il fratello terminerà la sua vita solo 60 giorni prima, mettendo fine alla propria sofferenza fisica e felice di regalare la vita a chi ama. Perché quindi non farlo?

Ritornando all’esempio reale delle gemelline siamesi, dibattito pubblico, una sorta di bioetica giustificativa sollevata dai media e, infine, l’approvazione del Comitato Etico dell’Ospedale Civico di Palermo portarono ad eseguire l’intervento che si concluse con la morte di entrambe le piccole pazienti. Tuttavia questo tragico risultato è irrilevante nella valutazione bioetica necessaria qui e nella scelta di coscienza che motivò la mia personale decisione di non partecipare né alla preparazione, né all’intervento stesso. Dal punto di vista pratico si tratta di un atto tecnicamente possibile e, quindi, ripetibile con successo in futuro. Ma è accettabile sacrificare una vita, uccidere per salvarne un’altra?

Se sappiamo interpretare l’Enciclica Evangelium Vitae ci sembra che la risposta sia chiara. “La vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza”. Questa sacralità della vita non è un concetto riconducibile all’esclusiva visione cristiana, ma è certamente condivisibile e condivisa anche da una bioetica a-religiosa, che si riconduce al valore della vita senza attribuzioni di sacralità e/o sopprannaturalità. Ed ecco quindi l’importanza della bioetica come materia non di esclusivo possesso di scienziati o dotti che ne discutano in convegni specializzati. Ecco il valore del coinvolgimento diretto dei singoli individui, dei cittadini non addetti ai lavori. Al tempo stesso questo coinvolgimento richiede uno straordinario impegno da parte degli addetti ai lavori che devono spiegare il significato e le implicazioni di un gesto chirurgico o di un farmaco in modo che tutti possano comprenderli e pervenire ad un’opinione “informata”.

Nella società attuale, largamente influenzata dai media, questo si realizza molto raramente a causa di un giornalismo divulgativo-scientifico spesso gestito da professionisti privi della necessaria preparazione e che in simili circostanze favorisce una “bioetica giustificativa”, quasi di consumo. La responsabilità sia degli scienziati che dei professionisti della comunicazione è altissima: una condotta superficiale da parte di entrambi può determinare aspettative irreali nella popolazione in generale e nei singoli pazienti. Gli uomini di scienza hanno il compito di spiegare: questa attività oggi non può essere più considerata semplicemente secondaria o complementare.

D’altra parte chi si occupa di comunicazione dovrebbe avere il rigore di comprendere e verificare il senso dell’informazione che fornisce. Probabilmente entrambe le categorie (scienziati e giornalisti) dovrebbero partecipare a corsi di bioetica che li rendano responsabilmente consapevoli del valore dell’informazione nel contribuire alla costruzione di una società pluralista preparata a decidere come utilizzare le innovazioni tecniche.

L’esempio delle gemelline siamesi può essere integrato da una realtà che pone problemi di bioetica gravi e spesso ignorati: la compravendita degli organi nella “donazione” da vivente. Premesso che il prelievo di un organo da un donatore vivente, che faccia liberamente questa generosissima scelta, è oggi un intervento molto sicuro nel trapianto di rene e relativamente sicuro nel trapianto di fegato, è necessario che questa tipologia di intervento e la metodologia con la quale viene praticato siano costantemente valutati dal punto di vista bioetico[8] affinché il semplice fatto della eseguibilità dell’intervento non divenga la motivazione ad eseguirlo. Si tratta, infatti, di una prestazione chirurgica che prevede, in modo unico, l’esecuzione di un intervento, con rischi di morbilità e mortalità, su un soggetto, il donatore, che proprio in quanto tale è assolutamente sano e non necessita di alcun intervento chirurgico. Per questo il meccanismo di consenso informato e la procedura di selezione della coppia donatore-ricevente devono essere particolarmente rigidi e controllati. In questo modo si può con un atto di amore e generosità consentire ad un altro essere umano di recuperare la pienezza della sua vita.

Con preoccupazione si assiste, però, alla diffusione di questa pratica non solo come atto d’amore ma come opportunità di organizzare un vero traffico d’organi come di recente documentato in un articolo scientifico che ha valutato l’impatto economico e sanitario della compravendita degli organi in India[9]. Su un totale di 305 cittadini di Chennai (una città di 6 milioni di abitanti, precedentemente nota con il nome di Madras) intervistati dopo aver venduto un rene, ben il 96% ha riconosciuto di aver accettato per pagare i debiti dai quali era onerato. Dopo la vendita le condizioni economiche del “donatore” sono peggiorate e così anche le sue condizioni di salute. In particolare, il reddito annuo familiare dell’individuo che ha venduto un proprio rene è passato da 660 dollari a 420 dollari, rendendone ancora più grave l’indigenza.

Negli ultimi anni si è assistito ad un fiorire di proposte ed articoli su riviste scientifiche occidentali che tendono a giustificare la compravendita degli organi, seppure in maniera regolamentata, e ne teorizzano l’applicabilità anche in paesi come l’Inghilterra[10]. Inoltre, l’American Medical Association ha proposto di avviare una ricerca su campioni di cittadini americani con lo scopo di testare in quale misura l’introduzione di incentivi economici potrebbe influire sulla decisione di diventare donatore di organi. La comunità scientifica si chiede dunque se sia eticamente ammissibile il pagamento degli organi destinati al trapianto. Il quesito è rapidamente rimbalzato dai comitati etici alle prime pagine di quotidiani come TheWall Street Journal innescando un dibattito che deve suscitare un’analisi bioetica. Infatti, il passo compiuto dall’American Medical Association, seppur con grande e dichiarata cautela, conferma il generale rafforzarsi del rapporto fra sanità ed economia, salute e denaro, bene fisico e (im)mobile, bioetica e benessere fisico. Ritornando alla questione iniziale, sull’ammissibilità dal punto di vista etico del pagamento degli organi destinati al trapianto, il quesito nasce da un’esigenza concreta, quella di sperimentare nuove strade per incrementare la donazione degli organi e salvare la vita di molti ammalati che ogni giorno muoiono in attesa di un trapianto. Di fronte a dati sconfortanti (15 pazienti in attesa di un organo muoiono ogni giorno negli Stati Uniti ed almeno 3 in Italia) i comitati etici dell’American Medical Association e, più di recente, quello dell’American Society of Transplant Surgeons hanno voluto affrontare l’enorme discrepanza tra la “domanda” (pazienti in lista di attesa) e l’“offerta” (numero di donatori) ipotizzando anche di ricorrere al pagamento degli organi. Tutto questo offre l’opportunità di valutare la medicina dei trapianti come paradigma del rapporto sempre più complesso fra sanità, bioetica, politica, economia e religione. Del resto la medicina, pur nella sua complessità, si presta a rappresentare lo specchio di un’epoca dal momento che in nessun altro ambito il singolo cittadino è il vero protagonista.



Inserito nel panorama moderno di una sanità inevitabilmente legata all’economia e al profitto, il trapianto si presta bene a definire l’individuo in termini di “commodity”, di materia (prima e/o derivata). La disponibilità di chirurghi senza scrupoli in alcuni paesi del mondo (come Turchia, India, Perù, ecc.) ha consentito il nascere di un traffico illecito di organi, probabilmente limitato ai reni, che infanga sia la professione medica sia i paesi che lo tollerano. Questo traffico di reni sfrutta individui indigenti e disperati ridotti a cedere a costi irrisori (mille dollari a Bombay, due mila a Manila, tre mila in Moldavia, dieci mila in America Latina) un proprio organo che viene rivenduto insieme all’intervento chirurgico, eseguito clandestinamente, a cifre che oscillano fra cento e duecento mila dollari. Questo fenomeno dovrebbe essere considerato come un vero e proprio crimine verso l’umanità e come tale punibile e perseguibile in ogni paese del mondo. Chiunque decida, anche se sofferente, di sfruttare la povertà altrui acquistando un organo a proprio beneficio, si rende colpevole di un gravissimo reato. Bioetica e legislazioni non possono rimanere estranee a questi problemi solo perché avvengono in “altrove”.Viaggi di questo tipo, documentati recentemente da una popolare trasmissione televisiva americana (CBS “48 Hours”, 11 febbraio 2002), non possono essere confinati nell’area delle leggende metropolitane ma devono essere fermati. La legislazione federale americana (National Organ Transplant Act) afferma con chiarezza che“nulla di valore può essere scambiato per un organo (…)”, escludendo qualunque forma di compenso diretta o indiretta, comprese quindi le ipotesi appena citate. Tuttavia, va osservato che questa norma federale, se analizzata dal punto di vista strettamente etico, viene già infranta nei casi di vendita di cellule o tessuti. Il caso più chiaro è forse quello degli ovociti umani, venduti regolarmente a scopo riproduttivo negli Stati Uniti, dove raggiungono un valore di mercato di circa settanta mila dollari. Un altro esempio è rappresentato dalla Pennsylvania dove è stata approvata una legge che prevede un contributo per le spese del funerale di una persona deceduta nel caso in cui la famiglia acconsenta alla donazione degli organi. Da qui il passo è breve verso meccanismi che inducano alla riduzione delle tasse della famiglia, al pagamento della retta scolastica di un bambino, oppure a staccare direttamente un assegno permettendo che i parenti del donatore utilizzino il denaro nel modo che ritengono più opportuno. E se si accetta il concetto di “denaro contro organi”, che differenza fa che provengano da una persona deceduta oppure da un essere umano vivo e in piena salute? Potrebbe anzi essere ancora più giusto ricompensare una persona in vita che, vendendo una parte di sè, rende possibile la guarigione di un suo simile. Oppure indicare come “miglioramento della qualità di vita” delle aberrazioni come i recenti trapianti di ovaio (Arabia Saudita) ed utero (Cina) a scopo riproduttivo, con organi prelevati da donatori viventi, che non sono stati eseguiti clandestinamente ma hanno addirittura ricevuto spazio su prestigiose riviste scientifiche ed il plauso di alcuni ricercatori. Insomma, l’apoteosi dell’egoismo individuale che infrange ogni regola etica. Il ragionamento porta lontano e alimenta un dibattito che va ben oltre la problematica del trapianto dove, da una parte si sostiene che non sia moralmente accettabile lasciare che i pazienti muoiano in lista di attesa, per cui se gli incentivi economici possono contribuire a far aumentare le donazioni ben vengano; dall’altra, invece, si pensa che esistano dei limiti invalicabili e che il corpo umano non possa essere considerato come una merce, con un prezzo fissato per la vendita. Potremmo allora considerare etico e moralmente accettabile un sistema in cui le donazioni aumentano ma dove, a conti fatti, sono i poveri a “donare” mentre i più ricchi si possono accontentare di ricevere? La verità è che qualunque strada che preveda una forma di compenso economico deve essere evitata perché porta ad una allocazione iniqua degli organi, basata sulla possibilità di pagare e non sulla reale urgenza medica o priorità in lista di attesa. Idee di questo tipo mettono in discussione la dignità di ognuno di noi e rischiano di affrancare una pericolosa sovrapposizione tra sanità e mercato[11-13]. Evitiamo tuttavia inutili ingenuità, è indubbio che il legame tra sanità e regole di mercato esiste e non si può negare che le leggi dell’economia debbano integrare la gestione sanitaria ma questo deve avvenire senza sorvolare sui confini di bioetica che la sanità deve rispettare.

  


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