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METODOLOGIE DELLA RICERCA BIOMEDICA



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METODOLOGIE DELLA RICERCA BIOMEDICA

 

Sono molteplici, ed loro uso preferenziale dovrebbe essere calibrato sull’obiettivo da raggiungere, attraverso il modo migliore per conferire validità scientifica al protocollo e valore scientifico al progetto di studio considerato. Ciò non rappresenta solo un requisito di “buona scienza”, ma anche requisito “etico”[13].



La scelta richiede “competenza” da parte del ricercatore ed un forte impegno etico (v. oltre).

Tre sono le principali modalità con le quali, in generale, si svolge la ricerca biomedica clinica,denominate:



  • i trials randomizzati controllati

  • la ricerca osservazionale

  • la ricerca cosiddetta “di qualità”

Tali modalità possono essere applicate in ambito prenatale, neonatale, pediatrico, adolescenziale, nella vita adulta, nell’anziano , ecc.. in rapporto ai particolari “obiettivi” che si intendono raggiungere: diagnostico, terapeutico, epidemiologico ecc…[14]

In generale si afferma:

I trials randomizzati controllati rappresentano i metodi più indicati per escludere dalla valutazione dei risultati le interferenze dovute a preferenze e ad errori.

La ricerca osservazionale è particolarmente indicata in campo epidemiologico, caratterizzandosi in senso narrativo(descrivendo i fenomeni senza individuarne le cause o gli effetti) o in senso analitico (ricercando le cause ed effetti dei fenomeni osservati e loro interconnessioni, mediante alcune varietà: gli studi di coorte, gli studi caso-controllo, ecc…)

Le ricerche di qualità cercano di interpretare il pensiero della gente, a proposito di determinati fenomeni o problemi, ed hanno una vasta articolazione: metodi puramente osservativi dei comportamenti da parte del ricercatore, interviste qualitative strutturate in questionari più o meno elaborati, riflessioni operative di esperti (“consensus methods”), gruppi di interazione su problemi particolari (“focus groups); esame di casistiche, ecc..

 

1. Revisioni sistematiche e ricerca



Ogni ricercatore si inserisce, in generale, in filoni di ricerca già coltivati e dei quali è necessario che il soggetto agente, prima di iniziare la stesura del protocollo e la precisazione dell’ipotesi di lavoro, ne conosca al massimo livello possibile i contenuti[15]. Sono disponibili in moltissimi settori della medicina riassunti ed analisi dei risultati di studi precedentemente pubblicati, e sempre di più si diffondono “revisioni sistematiche e linee guida pratiche”, che costituiscono la base della cosiddetta “medicina delle prove di efficacia” (Evidence based medecine). Questa deriverebbe da una vasta analisi critica, possibile quando i lavori esaminati sono fra loro confrontabili e rispondono a precise esigenze per la soluzione di espliciti problemi[16]. Le revisioni sistematiche, denominate anche “metanalisi”, hanno la finalità di costituire una base consistente di studi paragonabili, al fine di aumentare la precisione delle stime riguardanti ad es. l’effetto di un fattore etiologico, la predittività di un test, o l’efficacia di un trattamento ecc., di accrescere il numero dei pazienti considerati in sottogruppi clinicamente rilevanti, di favorire la soluzione di problemi relativi a risultati contrastanti ed anche di indicare l’opportunità di nuovi studi.

La metodologia per arrivare a tali revisioni sistematiche è piuttosto complessa (e si rinvia pertanto alle pubblicazioni specializzate); val la pena però di segnalare che l’intuizione di ARCHIE COCHRANE (1972)[17] sul valore euristico e pratico delle revisioni sistematiche e delle metanalisi è stata (e continua sempre di più ad essere) feconda di risultati ai fini della impostazione della ricerca clinica non meno che della prassi, cioè delle decisioni cliniche di ogni medico, caratterizzandosi – peraltro – in molti casi – come una vera e propria “ricerca autonoma”.

 

2. Le metologie della ricerca nella diagnosi



Il tentativo di predisporre metodi sempre più affinati per scoprire, con facilità di procedure, rapidità, sicurezza di risultato, comodità di impiego e basso costo patologie, o condizioni predisponenti, nel soggetto umano è uno degli scopi perenni della ricerca biomedica e della relativa sperimentazione, oggi particolarmente sensibile alle esigenze della cosiddetta medicina basata su dati forniti – in alcune circostanze – dalla indagine genetica (divenuta per alcuni l’attuale “paradigma di sviluppo” della ricerca biomedica nel senso di Kuhn)[18]

Le procedure per valutare un nuovo test diagnostico o di screening[19] si basano fondamentalmente nel sottoporre un gruppo di persone – che si ritenga adeguato per caratteristiche – sia alla somministrazione di uno standard diagnostico già comprovato (il cosiddetto gold standard) che al nuovo test. L’interpretazione, o la lettura, del test standard dovrebbe essere fatta senza conoscere i risultati del nuovo test e viceversa. Si tratta di stabilire anzitutto la sensibilità e la specificità del nuovo test nei confronti anche del gold standard. Altre misure del “valore” di un test consistono nell’apprezzamento del potere predittivo positivo e del potere predittivo negativo.[20]

Si incontrano, nella ricerca sui nuovi test, varie questioni di carattere etico: oltre a quelle relative all’accertamento corretto delle proporzioni di falsi positivi e la proporzione di falsi negativi che il nuovo test può offrire in confronto con le procedure standard (valutazioni errate possono influenzare notevolmente la condotta dell’agente, e/o la decisione del paziente), si debbono considerare anche i rischi connessi alla “invasività” di alcune procedure diagnostiche invasive (sia quelle “gold standard”, sia quelle in sperimentazione).

Valgono, ovviamente, le norme di “buona pratica clinica” in questi casi e ad esse, per brevità, si rinvia.

 

3. Qualche indicazione sugli studi clinici controllati (controlled clinical trials; randomized controlled trials) e loro impiego soprattutto nella sperimentazione terapeutica



Gran parte della sperimentazione clinica si riferisce al settore farmaceutico, come è ben noto (studi clinici).

 

Definizione e fasi degli studi clinici farmacologici

 

Gli studi clinici vengono generalmente classificati in fasi I,II,III,IV.



E’ difficile tracciare confini precisi fra le singole fasi, in quanto esistono posizioni divergenti (talvolta non corrette e/o non eticamente accettabili).

La Fase I riguarda l’interazione farmaco-volontario sano e ha lo scopo di fornire un profilo della farmacocinetica (Assorbimento, Distribuzione, Metabolismo e Eliminazione: ADME) e di avere, se possibile trattandosi di soggetto sano, una conferma delle risposte verificate negli animali (attività farmacodinamica). Non rappresenta uno scopo di questa fase – in quanto eticamente inaccettabile – effettuare ricerche sulla tossicità/tollerabilità del farmaco; è possibile solo acquisire alcuni dati preliminari di tollerabilità osservando la comparsa o meno di sintomatologie soggettive (nausea, cefalea, ecc.) non verificabili nell’animale da laboratorio.

Gli studi sull’ADME servono per confrontare i dati relativi verificati nell’uomo con quelli accertati negli animali di laboratorio e potere così tracciare un primo profilo sulla sicurezza del farmaco: gli effetti tossici verificati in animali (non collegabili all’attività farmacodinamica del principio attivo) possono ritenersi possibili, quando le due ADME risultano identiche o molto vicine, anche nell’uomo, per determinati livelli di dose e/o in particolari condizioni (iperattività); al contrario possono ritenersi non possibili quando i dati dell’ADME risultano diversi. In questa fase, la sperimentazione non viene generalmente condotta in cieco, ma in “aperto” vale a dire che sia i ricercatori sia i soggetti conoscono che cosa viene loro somministrato.



La fase II riguarda l’interazione farmaco-paziente (effetti del farmaco sull’organismo: farmacodinamica) ha lo scopo di dimostrare l’attività di un principio attivo in pazienti affetti da una malattia o da una condizione clinica per la quale il principio attivo è proposto. In questa fase vengono anche asquisiti elementi per la sicurezza a breve termine. Gli studi vengono condotti su numero relativamente limitato di soggetti, spesso secondo uno schema comparativo (farmaco confronto, placebo). E’ possibile in questa fase riuscire a determinare un appropriato intervallo di dosi, la dose tollerabile (in base alla comparsa di effetti collaterali, legati cioè all’attività farmacodinamica) e di identificare un rapporto dose/risposta. La fase II può non avere lo scopo di accertare un’attività terapeutica, ma soltanto l’attività farmcodinamica.

La fase III riguarda l’interazione farmaco-paziente (effetti del farmaco sulla malattia: farmaco-terapia) e ha lo scopo di determinare, su un numero elevato di pazienti, arruolati in diversi centri, l’efficacia terapeutica e la sicurezza (limitatamente alla numerosità del campione) del medicamento in esame. Il disegno sperimentale è quasi sempre a doppio cieco, randomizzato, in confronto con un placebo o con un farmaco di efficacia accertata.

In questa fase si possono rilevare molti degli effetti avversi, in particolare gli effetti più manifesti che insorgono dopo un trattamento di tre/sei mesi dopo la somministrazione del farmaco, a patto che questi peò ricorrano con una frequenza maggiore di 1 volta ogni 100 somministrazioni.

Effetti tossici importanti sotto l’aspetto medico che si manifestano con un certo ritardo o ricorrono con una frequenza minore di una volta ogni mille somministrazioni possono quindi non venire rilevati prima dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC).

La fase IV della sperimentazione clinica prende l’avvio dopo che il farmaco ha ottenuto il permesso per la commercializzazione. Questa fase riguarda principalmente l’interazione medicamento-pazienti, effetti del farmaco nelle reali condizioni d’impiego, eventuale comparsa di effetti indesiderati (farmacovigilanza) e in linea secondaria l’osservazione di possibili effetti terapeutici non indicati all’atto della commercializzazione del prodotto. Studi clinici aventi lo scopo di confermare o accertare nuove indicazioni vanno considerati come studi su nuovi prodotti medicinali e quindi ricadere su studi di fase II/III. Occorre segnalare che sulla definizione di questa fase non vi è un completo accordo.

 

Le caratteristiche dei “controlled clinical trials”

 

Nel 1998, in occasione del 50° anniversario del primo studio clinico randomizzato controllato pubblicato in Gran Bretagna sull’impiego della streptomicina nella tubercolosi, è stata organizzata una grande conferenza internazionale dal titolo: "50 anni di trials clinici”, i temi della quale indicano molto significativamente il percorso svolto e la complessità che ha assunto tale tecnica sperimentale[21]:



Non è certamente negli scopi di questa trattazione offrire una esaustiva analisi di questa complessa materia; tuttavia, qualche sommario richiamo servirà a far intravedere soprattutto la responsabilità che caratterizza i promotori, i programmatori, e gli stessi esecutori di tali metodologie, le quali hanno l’obiettivo di valutare qualsiasi trattamento potenzialmente innovativo con criteri per quanto è possibile rigorosi [22] .

J.P. BOISSEL e A.LEIZOROVICZ (2000)[23] sottolineano la “natura” degli studi clinici controllati, considerati un progresso fondamentale nella storia dello sviluppo e delle terapie efficaci con le seguenti espressioni:

“Essi sono esperimenti scientifici e per questo motivo possono essere universalmente compresi e i loro risultati possono essere universalmente applicati, sempre che siano stati disegnati e condotti in accordo a principi oggi ben codificati….”.

“Il concetto di studio clinico controllato è essenzialmente lo stesso per ogni branca della medicina. Si applica sia alla valutazione dei farmaci che delle procedure chirurgiche, delle terapie fisiche e delle terapie psichiche. Può essere esteso alla valutazione dei test diagnostici. Infine, gli studi clinici controllati possono essere utilizzati (e lo saranno sempre di più) per valutare diverse strategie mediche. Una strategia è un insieme di interventi, possibilmente in combinazione con procedure diagnostiche differenti. Sono stati pubblicati diversi esempi di valutazione di differenti strategie in medicina: per esempio, un approccio di tipo invasivo rispetto ad un approccio conservativo, o un trattamento farmacologico pre-ospedaliero rispetto a quello ospedaliero” (pag.1).

E riprendono:

“Uno studio clinico controllato è un esperimento nel corso del quale vengono raccolti dei dati. La loro analisi, in accordo con il disegno dello studio, produce informazioni che sono di natura scientifica. Uno studio clinico deve pertanto soddisfare i requisiti fondamentali di un esperimento scientifico. La metodologia degli studi clinici è basata sui principi del metodo sperimentale, come già inizialmente identificato nel XIX secolo ed oggi codificato. Tali principi possono essere così riassunti:

L’ipotesi da valutare deve essere proposta per iscritto prima dell’inizio della raccolta dei dati; l’ipotesi viene verificata attraverso le modificazioni registrate nel sistema oggetto di indagine (per esempio il paziente, l’unità che fornisce la terapia, ecc..).

Il sistema oggetto di indagine è l’unità sperimentale.

Il disegno sperimentale deve essere tale per cui la verifica dell’ipotesi dipende dal confronto tra un gruppo di unità sperimentali modificate e un gruppo di unità di controllo non modificate; questo paragone è per il ricercatore la chiave di accesso ai risultati dell’esperimento.

Il numero di unità sperimentali deve essere sufficientemente grande da minimizzare il rischio che singole reazioni idiosincratiche delle unità sperimentali abbiano un peso eccessivo sui risultati.

Allo scopo di stabilire una relazione di causalità tra la modifica del sistema e il risultato, i due gruppi, fatta eccezione per l’intervento, devono essere gestiti in modo identico, prima, durante e dopo l’intervento che determina la modifica, fino al completamento della raccolta dei dati”.

Nei primi tempi di sviluppo del metodo sperimentale questi principi non potevano essere direttamente applicati al campo della ricerca con piena efficienza. Successivamente sono stati affinati con l’adozione del modello statistico e con il concetto dei “fattori di confondimento” .

Seguendo questi AA., la “costruzione” di uno studio clinico controllato, in estrema sintesi, deve prevedere:

l’ipotesi a priori che deve essere testata. Questa di solito è relativa all’efficacia di un certo intervento su un evento, un sintomo, o sulla qualità della vita di pazienti con una patologia specifica e un profilo peculiare di eleggibilità. Tale ipotesi rappresenta il prodotto di un processo lungo e complesso ed è costruita gradualmente intorno ad un ragionamento basato sulle conoscenze disponibili, su intuizioni, su relazioni funzionali osservate o presunte, e su un’accurata analisi del problema di salute al quale è interessato lo sperimentatore.

La stima dei cosiddetti “fattori di confondimento”, necessaria per il fatto che numerosi fattori possono interferire con l’evoluzione delle condizioni di un paziente dopo la somministrazione di una terapia. L’effetto dell’intervento terapeutico è solo uno dei fattori, e non può essere separato dagli altri solamente osservando il decorso del paziente. Altri fattori in gioco sono la cosidetta regressione verso la media, il miglioramento o il peggioramento spontaneo della malattia, gli effetti delle terapie concomitanti e l’effetto placebo. Gli effetti di tutti questi fattori sono correlati con il tempo[24].

Circa l’effetto placebo, è noto che tale fattore interferisce con l’evoluzionedella malattia di un paziente, nella maggior parte dei casi in modo positivo. E’ una componente inevitabile di tutte le terapie. Per quanto sia difficile precisare le modalità secondo le quali opera “l’effetto placebo”, nessuno negherebbe la sua esistenza [vedi anche G. Folli (1994); L.Candia (1994)].

La sua intensità e il peso delle sue componenti più verosimili (la fiducia del paziente nel medico o nel farmaco, le aspettative positive del malato e le proprie convinzioni rispetto al “miracolismo” della medicina, ecc..) non sono prevedibili. Si suppone che molti siano i farmaci che funzionano solo attraverso l’effetto placebo.

La randomizzazione, criterio con il quale i soggetti che accettano di partecipare all’esperimento sono collocati in ogni gruppo di studio utilizzando un metodo di assegnazione che non è soggetto a influenze esterne (e cioè non è permessa alcuna preferenza personale né da parte dei ricercatori, né dei pazienti). E’ provato che in generale l’assegnazione casuale (random) rappresenta il metodo migliore per raggiungere questo obiettivo, ma il criterio si presta a varie obiezioni etiche (che di seguito verranno precisate).

Il mascheramento dell’appartenenza ai diversi gruppi (blinding, o “cieco”). Così si esprimono ANN MC KIBBON, A. EADY e S.MARKS[25]: “Negli studi relativi a trattamenti, oltre all’assegnazione casuale, i pazienti, gli operatori sanitari ed il personale che partecipa allo studio non dovrebbero conoscere, per quanto possibile, il gruppo al quale il paziente è assegnato. Questo metodo è definito blinding o mascheramento o cieco, ed evita quello che comunemente viene definitomeasurement bias (errore di misurazione). Considerando la realtà della natura umana, le aspettative dei pazienti e degli operatori sanitari sono forti, e spesso inconsciamente possono influenzare la rappresentazione dei risultati. Fin troppo spesso, e con le migliori intenzioni, le persone considerano come veritiero ciò che pensano debba accadere o ciò che pensano che gli altri si aspettano debba accadere. Per ridurre al minimo queste percezioni errate, né gli operatori sanitari né i pazienti dovrebbero sapere quale trattamento i pazienti stanno ricevendo” (pag.46).

A giudizio di molti autori, da noi condiviso, le procedure di mascheramentosono complicate e presentano spesso gravi riserve etiche (in seguito richiamate), soprattutto nelle formule del “doppio” o “triplo cieco”, pur non mancando in linea di principio di una loro razionalità [26].

Il controllo in corso d’opera e a distanza (follow-up). E’ evidente l’importanza di questo fattore per la valutazione dei risultati degli studi randomizzati controllati, non solo durante e al termine degli studi (momento previsto correttamente nel protocollo originale; ma che per varie ragioni viene spesso modificato nel senso di anticipazione o ritardo nella chiusura della fase sperimentale) ma anche per quanto riguarda la valutazione degli effetti a distanza di tempo. Un tempo troppo breve di osservazione può mascherare effetti perversi emergenti a lungo termine. Si ritiene che almeno l’80% di tutti i partecipanti che sono stati arruolati e randomizzati all’inizio dello studio debbano essere analizzati alla fine di esso perché i risultati siano considerati validi o “veri”, al 90% di probabilità.Questo significa tener conto di tutti i partecipanti che interrompono il trattamento (i quali dovrebbero essere nel minor numero possibile) o che sono in qualche modo persi. Giustamente A. MC KIBBON et al. affermano che mantenere un buon follow-up può essere facile o difficile, a seconda dello studio[27] e S. Galbraith e I. Marshner (2002) – mettendo in evidenza anche l’aumento dei costi che si determina con la riduzione dei dati “in corso d’opera” hanno elaborato criteri statistici atti ad affrontare le varie situazioni [28] .

In ogni caso, è necessario (tecnicamente) e doveroso (giuridicamente e moralmente) seguire il trattamento e “monitorarlo” durante tutto lo stesso svolgimento, allo scopo di chiarire se il protocollo approvato deve essere mantenuto inalterato o modificato.

Ciò comporta l’adesione a regole di appropriata osservazione della casistica, basata sulla tempestività delle segnalazioni degli effetti avversi, la completezza delle stesse, la competenza e l’esperienza professionale di chi effettua il monitoraggio e la sua libertà di giudizio nei confronti di possibili indebite interferenze [29].

Il corretto impiego di metodologie statistiche. Secondo B.PITT e altri (2000), “l’utilizzo del modello statistico ha lo scopo di risolvere tre problemi correlati: la variabilità tra un osservatore e l’altro, o nello stesso paziente a tempi diversi (variabilità intrapaziente) o in pazienti diversi allo stesso tempo (variabilità tra pazienti); la variazione casuale nei risultati dello stesso esperimento ripetuto più volte; e la previsione di eventi successivi basata su una serie di dati osservati in precedenza. I due strumenti statistici che forniscono una soluzione a questi problemi sono il test di significatività e la stima puntuale con i suoi limiti fiduciari. Il test di significatività fornisce regole arbitrarie, ma ragionevoli, per decidere se il risultato di uno studio, ossia la differenza osservata tra il comportamento e cambiamenti nei due gruppi, è dovuto al caso o può essere accettato come frutto di una reale differenza[30]. Una volta che la differenza tra i cambiamenti nei pazienti trattati e quelli di controllo è stata calcolata e la significatività statistica è stata valutata, il punto successivo che il ricercatore deve prendere in considerazione è la dimensione dell’effetto del trattamento, specialmente se il valore di P è piccolo[31].

Come sottolineano Calamo-Specchia e coll (1994) [32] indagini compiute da Meinert e coll. (1984) hanno posto in evidenza che molti lavori pubblicati nella letteratura internazionale a quell’epoca non calcolavano previamente la grandezza del campione necessario, né pianificavano la valutazione dei risultati con criteri di significatività statistica: oggi, ovviamente, molto è cambiato a riguardo [33].

Concludendo: le indicazioni (ovviamente non completamente esaustive) fornite in questo paragrafo dimostrano la complessità, metodologica e interpretativa, dei trials clinici: questa complessità mette alla prova non solo sperimentatore , lo sponsor ed in generale i “tecnici” della ricerca clinica, ma anche i divulgatori (la stampa) e la comprensione esatta dei risultati da parte dell’opinione pubblica (R. Morton, 2001).[34]

 

4. Ricerca sull’eziologia, sulle cause e sul danno



Sono ricerche molto importanti di carattere sanitario, oltreché di carattere clinico (in quest’ultimo caso, è frequente l’impiego del concetto di “danno”, anche in senso iatrogeno).

Questi studi, che hanno per obiettivo anche quello di valutare il rischio prodotto per un determinato soggetto, o per una popolazione determinata, dall’esposizione a cause singole (o associate) di cui si conosce (o si suppone) l’effetto patogeno, sono molto complicati ed hanno una diversa capacità di raggiungere un obiettivo di verosimiglianza secondo l’ordine decrescente di efficacia: studi controllati randomizzati; studi coorte; studi caso-controllo; studi trasversali con gruppi aggiustati statisticamente.

Non è possibile, in questa sede, approfondire ulteriormente gli aspetti “tecnici”: basterà dire che vengono attualmente ritenuti “validi” gli studi di coorte (cohort study), sebbene non siano quelli più specifici nei risultati (ma anche per alcuni aspetti eticamente discutibili) come lo sono i “prospettici” studi clinici randomizzati. Peraltro, anche gli studi di coorte sono difficili da eseguire e richiedono tempi lunghi e costi relativamente elevati, caratteristiche molto pronunciate negli studi prospettici randomizzati.

Gli studi di caso-controllo sono considerati “deboli” dal punto di vista metodologico, ma in clinica vengono spesso usati per studiare ad es. effetti collaterali rari dei trattamenti perché hanno il pregio di poter essere realizzati con relativa rapidità e minori costi. Gli studi caso-controllo si basano sull’anamnesi circa l’esposizione degli individui oggetto di valutazione rispetto all’agente causale (noto o previsto) per la malattia.

Gli studi trasversali con gruppi aggiustati statisticamente sono rapidi e facili da completare come “indicazione” di una causa eziologica, ma vengono ritenuti “non validi” per costituire una base attendibile per le decisioni cliniche.

 

5. La ricerca riguardante la “storia naturale” e l’individuazione della prognosi



Come abbiamo già accennato costituisce un capitolo particolare, anche sotto l’aspetto etico, l’osservazione della “storia naturale” intesa come progressione della malattia non trattata. Se questa è invece sottoposta a cure si parla di prognosi, in generale a partire dal momento dell’avvenuta diagnosi.

Giustamente, si fa rilevare che “i clinici hanno bisogno di avere un rapido accesso alle informazioni riguardanti la storia naturale e la prognosi per rispondere alle domande dei propri pazienti. Una delle prime domande poste dai pazienti quando vengono messi al corrente di una nuova diagnosi è “Cosa mi succederà adesso?”. Essi vogliono conoscere le implicazioni della malattia o condizione appena diagnosticata in termini di sopravvivenza, progressione della patologia e stile di vita, ancor prima di cominciare a valutare le opzioni ed i problemi di un trattamento o di una terapia palliativa” (ANN MC KIBBON et al. (2000); pag.131)[35].

Seguire la malattia astenendosi da un trattamento che si conosca come valido, per osservare cosa avviene nel tempo (come è avvenuto ad es. nel notissimo caso del Tuskegee Study of Untreated Syphilis in the Negro Male (Studio Tuskegee sulla sifilide non trattata nel maschio afro-americano (BRAWLEY, 1998)[36], è palesemente immorale se ciò avviene all’insaputa del paziente perché tradisce la fiducia di questiriposta nel medico (dal quale si attende una cura).

Valutare la “prognosi” nell’ambito di una ricerca è concetto del tutto diverso;ciò può essere fatto raggruppando pazienti di una determinata malattia in un campione per quanto è possibile omogeneo per caratteristiche di inserimento e ad uno stadio precoce di malattia (cosiddetta coorte incipiente inception cohort), seguendo poi nel tempo e nel decorso in presenza di determinati trattamenti almeno l’80% dei pazienti inizialmente arruolati [37].

 

 


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