Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana



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CONSIDERAZIONI FINALI

 

1. Correnti etiche e sperimentazione clinica

Al termine di questa esposizione, mi sembra importante svolgere qualche considerazione, richiamando anzitutto i termini con i quali viene “vissuta” l’attività di ricerca da parte dello sperimentatore, in rapportoalle correnti etiche alle quali prevalentemente egli si ispira.

Si conviene, largamente, che la sperimentazione clinica costituisca una tematica densa di implicazioni culturali, morali e giuridiche[38].

Essa mette alla prova sia la preparazione professionale che il senso di responsabilità etica del medico-sperimentatore, sia il sentimento di solidarietà sociale del partecipante alla ricerca.

Si conviene che ricerca e sperimentazione in medicina (biomedicina) siano fondate sull’uso della ragione e sull’uso dei sensi (vanno ricomprese nel concetto le tecnologie che implementano o sostituiscono l’uso dei sensi), così come in ogni ramo della scienza naturale applicata.

La descrizione e la misurazione adeguata dei fenomeni biologici che si osservano spontaneamente o di quelli che vengono indotti con varie tecniche, debbono necessariamente essere condotte secondo procedure ben definite e secondo regole che – nell’esperienza – guidano il ricercatore verso affermazioni giustificate dall’evidenza, ancorché in futuro “falsificabili” in rapporto a successive differenti evidenze.

Tali affermazioni costituiscono il concetto di “oggettività”, al quale si riferiscono anche le ricerche terapeutiche condotte con le metodologie che abbiamo ricordato[39].

La riflessione etica sul singolare “rapporto” che si instaura nella sperimentazione fra motivazioni, valori ed interessi diversi può essere svolta in chiave utilitaristica-consequenzialista, deontologica tuzioristica, autonomista e personalista.

L’utilitarismo apporta alla discussione il criterio del “vantaggio dei molti” (attuali o futuri) che beneficieranno del progresso diagnostico o terapeutico contro il rischio e la sofferenza dei pochi sui quali si sperimenta, privilegiando il conseguimento del risultato rispetto alle modalità di realizzazione.

In questa estrema, schematica forma l’utilitarismo ovviamente non è accettabile; il suo apporto positivo sta nel fatto che invita a riflettere sulla giustificazione morale del “progetto di ricerca”, sulla entità del beneficio che se ne può conseguire e sulle conseguenze dell’azione.

Il criterio deontologico, o etica dei doveri, è rivolto non tanto all’analisi dell’obiettivo, quanto all’apprezzamento della moralità dei metodi con i quali di esperimenta nell’ambito delle caratteristiche proprie dell’attività medica, che deve sempre privilegiare il migliore interesse dell’assistito. In caso di conflitto fra interessi della ricerca e tutela del paziente, è quest’ultimo obiettivo che deve prevalere .

Il deontologismo – che si ispira all’etica del “dover essere” di derivazione Kantiana – dà un apporto positivo alla valutazione del rischio nei confronti della duplice condizione in cui può presentarsi la ricerca: interesse diretto per la salute del paziente, nessun interesse immediato per lo stesso.

Come è noto, la valutazione del rischio rappresenta la formula “moderna” per affrontare il problema nell’evoluzione subita dal primo documento di Helsinki che vietava la ricerca non terapeutica allorché priva di consenso, includendo nel divieto coloro che non fossero in grado di consentire. L’evoluzione ha portato alle attuali formulazioni del “consenso delegato”, associato a particolari norme di tutela per i soggetti che non possono consentire.

In ogni caso, questo problema (che viene affrontato da altri Relatori in questo Congresso) costituisce uno degli argomenti più controversi della bioetica della sperimentazione (Della Torre, 1994 [40])

Lo “sdoppiamento” potenziale del ricercatore medico fra il suo ruolo di curante e quello di sperimentatoreobbliga in ogni caso ad un bilanciamento che faccia pendere l’ago dal lato dell’interesse del paziente, piuttosto che da quello della scienza e della società (World Medical Association, 1996; concetto accolto nella Convezione di Oviedo, 1997).

L’etica dell’autonomia è basata sui “diritti della persona” (prima ancora che “del paziente”, come si suol dire in campo sanitario) e si presenta – nel caso della sperimentazione medica – come applicazione delle teorie “della scelta” e “dell’interesse”. La prima, al di là del richiamo al diritto fondamentale alla libertà, circoscrive i diritti della scelta a quelle condizioni in cui altri hanno doveri morali da rispettare. Waldron [41] applica questo criterio, ad es., alla delicata questione delle ricerche non terapeutiche, ove il bilanciamento è fra i doveri etici dello sperimentatore di non far correre rischi al soggetto, e la facoltà del soggetto consenziente di scegliere per il rischio.

La seconda, che risale J. Bentham, circoscrive la tutela degli interessi del soggetto alle condizioni in cui è possibile in anticipo definire in sede pubblica chi sia beneficiario del dovere altrui, e si applica – ad es. – ai cosiddetti diritti sociali della persona, fra cui (con le particolari modalità stabilite dello Stato) la “tutela della salute”.

Comunque si voglia argomentare, il risultato porta alla “autodeterminazione” di chi è chiamato a partecipare alla ricerca, autodeterminazione che – in letteratura – vieneinquadrata nel principio kantiano della libertà della ragione.

Se la questione è più semplice da derimere con il principio dell’interesse nel caso della ricerca terapeutica che abbia diretto potenziale vantaggio per il malato, la decisione è ovviamente più delicata, e richiede l’accoglimento del “principio della autodeterminazione”, nel caso della ricerca non terapeutica e priva di interesse diretto per la persona .

La autodeterminazione consapevole di correre un rischio, che si esprime nelle note procedure dell’informazione veritiera e nella volontarietà del consenso in persona competente, farebbe da contrappeso nella relazione duale alla supremazia di conoscenza che caratterizza lo sperimentatore rispetto al soggetto che accetta “fiduciosamente” (cioè credendo nell’informazione) di partecipare alla ricerca, giustificandola. Ciò non toglie che – giuridicamente – ove manchi l’interesse terapeutico diretto, la scelta del soggetto vada inquadrata nell’ambito delle attività rischiose.

Concludendo: appare evidente che – nel concreto -tutte le teorie etiche sin qui richiamate possono essere chiamate in causa, sebbene in diversa misura – nelle varie modalità della ricerca che abbiamo illustrato, non sottraendosi, soprattutto nel caso dell’utilitarismo, ad alcune assolute limitazioni.

Fermo restando che, sull’argomento, ha grande importanza quanto è stabilito dalla copiosa normazione che in sede nazionale ed internazionale è stata gradualmente elaborata per la protezione giuridica del soggetto partecipante alla sperimentazione, ora desideriamo offrire qualche esempio delle limitazioni indicate [42].

 

2. Alcune doverose limitazioni metodologiche nella sperimentazione clinica e l’apporto dell’etica personalista



Le questioni di maggiore impegno etico ruotano (limitandosi in questa sede alle sole considerazioni sulle metodologie) attorno ai criteri di randomizzazione (con la questione del cieco) ed all’uso del placebo negli studi clinici controllati.

Prescindendo da segnalazioni pioneristiche rimaste isolate (ad es. P. Martini “Methodulehereder Therapeutischen Untersuchung “verlag von J. Springer, Berlin, 1932) la tematica degli studi clinici controllati si è sviluppata fra gli ultimi anni ’70 e gli anni ’90 del XX secolo anche a riguardo degli aspetti etici con numerosi contributi, che è impossibile in questa sede esaminare analiticamente.

Si rinvia, pertanto, ai già citati studi di A.G. Spagnolo (1994), Folli (1994), L.Candia (1994), Foster (2001), B.Pitt et al (2000); A. Mc Kibbon et al. (2000) ecc..

Una linea estremamente rigorosa della sperimentazione clinica, come quella basata sull’ “etica del risultato” ampiamente sostenuta dall’utilitarismo ed espressa da alcuni AA., fra cuiRAPAPORT (2001), afferma l’esclusivo valore degli studi clinici randomizzati controllati con placebo nelle questioni terapeutiche più controverseperché unici in grado di eliminare gran parte deibias [43] .

Ottenuta l’evidenza, si potranno derivare “linee guida” che opportunamente diffuse fra i medici, porteranno a migliori risultati (soprattutto nei tassi di sopravvivenza) sia per il singolo paziente, che per la salute pubblica. Cosa pensare di questa strategia?

Che si debba fare ogni sforzo per eliminare quei fattori che distorcono la valutazione dell’efficacia clinica di un trattamento è intuitivo. Che “linee-guida” basate su questo sforzo possano assumere un ruolo di riferimento per la medicina corrente, ed anche per futuri ulteriori studi è verosimile, e tutto ciò rappresenterebbe un’acquisizione favorevole nell’evolversi del sapere medico.

E’ un dato di fatto, però, che la randomizzazione e l’uso del placebo con doppio o triplo cieco incontrano molte difficoltà ad essere poste in atto, e crescente contrarietà nei medici e nei pazienti [44].

Peraltro, non v’è dubbio che il “paradigma” oggi dominante del consenso pienamente informato è difficilmente compatibile con i criteri di “mascheramento” sin qui adottati.

Rimane – con la sua forza etica non contestabile – la necessità di valutare caso per caso il “potenziale contrasto” che gli studi clinici randomizzati potrebbero assumere con gli interessi di quel determinato paziente.

Questo contrasto potrebbe derivare sostanzialmente da due motivi:

che il rischio a cui viene sottoposto il paziente sia per lo stesso troppo elevato rispetto al rischio generico medio previsto per la categoria di randomizzazione in cui il paziente risulterebbe inserito.

che il paziente sia privato di terapie efficaci – di cui abbia reale bisogno - se, nella randomizzazione, cade ciecamente nel gruppo del “placebo” puro (senza alcun trattamento).

Entrambe le evenienze, da considerarsi negative, comportano un’attenta riflessione da parte dello sperimentatore ed una consapevole maturità professionale e morale dello stesso. In merito alla prima (omissione della valutazione personalizzata del rischio), si può osservare che affidarsi al caso, o a sistemi automatizzati e centralizzati di assegnazione del singolo paziente all’uno o all’altro gruppo di randomizzazione può confliggere in modo palese e psicologicamente intollerabile con quel “migliore interesse” che – si afferma – la medicina dovrebbe offrire nella tutela della salute e che il paziente, che al medico si affida con fiducia, si aspetta di ricevere[45].

Affidarsi a forme di“consenso parzialmente informato” – e senza un’esauriente discussione orale - per dirimere la questione sul piano “formale” non offre la garanzia che il singolo paziente comprenda veramente la natura delle informazioni contenute nel modulo che lo impegna ed i rischi associati alla partecipazione allo studio. Al paziente, comunque, dovrebbe essere lasciato il tempo per riflettere sui rischi ed i benefici connessi alla partecipazione allo studio randomizzato prima di decidere, ed il Comitato etico dovrebbe attentamente vigilare sulla comprensibilità delle informazioni da fornire e della esaustività delle stesse.

Il secondo motivo sopra accennato è altrettanto importante, e spiega la crescente disaffezione dimostrata dai clinici verso l’uso del “placebo” in senso puro quando esiste una terapia standard già efficace con la quale trattare i pazienti che non rientrano nel gruppo sperimentale (TAUBES, 1995[46]; LILFORD e JACKSON, 1995[47]; ROTHMAN e MICHELS, 1993[48]; ecc.).

Sebbene si sostenga che senza l’aiuto di studi clinici randomizzati controllati con il placebo e condotti su un numero elevato di pazienti sia difficile – se non impossibile – determinare i rischi reali ed i benefici di una determinata strategia terapeutica, si riconosce da parte di numerosi autori che tale criterio può potenzialmente sacrificare il bene del singolo soggetto.

Ciò che, a nostro parere, è inaccettabile sotto il profilo dell’etica personalista. La priorità da assegnare all’interesse del singolo, in termini di salute, rispetto ad ogni altro interesse della scienza è riconosciuto – del resto – come “valore” da preservare anche dai recenti documenti internazionali sulla sperimentazione in medicina (v. ad es. CONVENZIONE sui diritti dell’uomo e la biomedicina: OVIEDO, 1997; Dichiarazione sui diritti dell’uomo ed il genoma umano dell’UNESCO, New York, 1996) [49] e per questo motivo appare “ragionevole” non privare il gruppo di controllo di una forma di terapia tradizionale scelta fra quelle comunemente usate per la specifica forma morbosa (Candia, 1994) [50].

Nel caso della ricerca terapeutica, in definitiva, una strategia ottimale è quella di impostare il protocollo in modo da ottenere le informazioni circa l’efficacia del trattamento così da promuovere le migliori decisioni per i pazienti futuri, ma nello stesso tempo massimizzando le opportunità di cura attuali dei pazienti in esame. Questa strategia è – di per sé – portata più alla versione “adaptive clinical trials (ACTs)” che non alla classica versione “randomized clinical trials” (RCTs)[51]

 

3- Vi sono altri aspetti di carattere etico generale che meritano attenzione e richiamo in questa breve analisi conclusiva.



Rinviando alla relazione generale sulla eticità della ricerca biomedica che verrà svolta in questa sede da S.E. Rev.ma Mons. E. SGRECCIA[52], vorrei considerare solo alcuni punti più strettamente correlati al tema a me affidato. Considero, con brevità, solo i seguenti:

 

Obiettivi della ricerca

Uno degli aspetti critici si riferisce alla oculata scelta dell’argomento di ricerca sperimentale: soprattutto per chi segue un’etica di impostazione personalista d’ispirazione cattolica sono da considerare non solamente la qualità scientifica del protocollo e le metodologie atte a ridurre al minimo il rischio del soggetto, ma anche“l’obiettivo” al quale la ricerca è rivolta. Comprendiamo che questo è argomento scabroso, che non si limita al caso degli abortivi precoci od a metodi di sterilizzazione od all’uso di cellule staminali embrionali umane, ecc.. (per fare alcuni esempi di viva attualità), ma potrebbe estendersi (sebbene con altri profili) anche a sperimentazioni ove intervengano pesantemente il profitto e gli investimenti per farmaci a larga diffusione commerciale, ma che verrebbero ad aggiungersi ad un arsenale già largamente disponibile di opzioni a discapito di sperimentazioni per settori “orfani”, che sarebbero più urgenti [53], o per sperimentazioni condotte in paesi in via di sviluppo o ad altissimo tasso di povertà, ove né l’informazione, né il consenso della persona arruolata corrisponde ai principi validi nei paesi sanitariamente ed economicamente sviluppati e la volontà dei singoli può essere facilmente manipolata da mediatori interessati [54].

In questo contesto si inquadra anche la necessità che la sperimentazione clinica – sia essa nell’interesse terapeutico diretto che priva di tale interesse sia sempre “caritatevole” (cioè dotata di sentimenti di empatia umana) verso il soggetto, soprattutto se malato e particolarmente nelle condizioni cliniche di emergenza o nelle fasi terminali [55].

Per superare i ricorrenti contrasti di opinione su tali argomenti, che hanno contenuti etici indubbi, è stato da taluno proposto anche una partecipazione più ampia della società alle strategie dell’innovazione terapeutica, ben oltre il ruolo già attualmente esercitato dai Comitati Etici ospedalieri. Ciò che appare di difficile realizzazione ma non impossibile per definiti progetti di ricerca[56].

 

Gli effetti salutogenici e la “compliance” del soggetto partecipante alla sperimentazione

Rappresentano, questi, aspetti ulteriormente da chiarire nell’ambito della sperimentazione (in particolare farmaco-terapeutica), allorché si tratta di giudicare sull’effetto “reale” di un determinato trattamento.

La funzione esercitata dal binomio cervello-mente nel mantenimento della salute è, oggi, sempre di più oggetto della ricerca delle neuroscienze, anche sulla base del concetto proposto da Antonovsky nel 1979 [57] di “salutogenesi”, che sottolinea le diversità di reazione delle diverse persone verso i medesimi traumi dell’esistenza: alcuni dimostrando una coerenza interna globale di comportamenti orientati alla salute ed all’ottimismo, altri alla depressione e alla malattia.

Varie ricerche hanno dimostrato l’effetto “coping” – e cioè che la capacità delle varie persone di superare condizioni potenzialmente stressanti si correla con la visione che tali persone hanno delle situazioni stesse; le capacità salutogeniche del supporto sociale ed infine – ciò che è di notevole interesse in questa sede – l’effetto salutogenico della fede religiosa [ Strang S. e Strang P. (2001)[58]; Murphy et al. (2000)[59]; Cinà (1998)[60], A. Bompiani (2000)[61], D. Smith (2002)[62]].

Che tali reazioni abbiano una base neurobiologica appare sempre più evidente da alcune ricerche sulla localizzazione nelle aree cerebrali delle funzioni di regolazione delle emozioni in soggetti normali e patologici; tuttavia rimane da chiarire quale effetto queste differenze individuali nei meccanismi di “salutogenesi” abbiano nelle ricerche farmacologiche e nei “trials” clinici.

Un altro aspetto degno di considerazione nell’ambito delle metodologie di sperimentazione clinica è quello tecnicamente indicato come “compliance” del paziente, e cioè la “qualità” della partecipazione del paziente al suo trattamento, valutata come misura del comportamento della persona interessata nei confronti degli orientamenti medico-sanitari ritenuti dal professionista sanitario utili per la di lui salute (M. La Rosa, 1995)[63].

Molti sono i fattori che intervengono in questo fenomeno (che riguarda da vicino anche la “relazionalità” che si è creata fra paziente e curante) e che si riflettono nella (eventuale) sperimentazione terapeutica. Infatti, il protocollo di studio presuppone una perfetta compliance del paziente (assunzione del trattamento alle dosi e per la durata prevista), mentre una cattiva compliance passata inavvertita aumenta la variabilità dei dati e porta ad un errato apprezzamento dell’entità del risultato (soprattutto nei trials clinici di limitate estensioni (P.E. Lucchelli, 1995)[64].

Vari metodi sono stati individuati per misurare la “compliance” (v. ad es. R. Novellini, 1995 [65]. Dal punto di vista etico, la questione si riconnette al “senso di responsabilità” che il paziente dimostra nell’aderire, con convinzione, alla sperimentazione che gli viene proposta.

Ma più ancora si deve sottolineare il valore morale di una partecipazione volontaria ad una sperimentazione priva di interesse terapeutico per chi vi si sottopone, nel significato di una consapevole oblazione della propria corporeità ai pur limitati (ma entro certi limiti imprevedibili) margini di rischio, ove questa partecipazione è decisa nell’interesse del “prossimo”. Si tratta di una forma di “carità” che identifica una originalità della morale cristiana rispetto alle morali puramente razionali, nel senso sviluppato ad es. da F.BOCKLE [66].

 

L’integrità del ricercatore

Un ultimo aspetto da considerare riguarda quel complesso di comportamenti che nel gergo è indicato come “integrità”dello sperimentatore. Una prima questione inerisce al possibile conflitto di interessi economici[67], una seconda si riferisce al suo grado di rispetto del “protocollo” concordato e approvato dal Comitato etico, una terza alla falsificazione dei dati.

Già la mancanza di un coscienzioso attenersi – salvo i casi di palesi eventi avversi e condizioni di urgenza insorti nel corso del trials clinico – a quanto richiede il protocollo può comportare distorsioni più o meno apprezzabili dei risultati [68]; ma ben più gravi sono i casi di falsificazione dei dati, che compromettono – allorché vengono riconosciuti – la fiducia dell’opinione pubblica e influiscono negativamente sulla disposizione dei pazienti a partecipare a studi clinici.

Nel rinviare l’ulteriore trattazione di questo argomento agli ottimi contributi di F. DI TROCCHIO (1993)[69], di PORTIGLIATTI-BARBOS e coll. (1993)[70], di J. RANSTAM et al. (2000)[71] segnaliamo anche – in taluni ambienti ad alta “competitività” scientifica – la caduta di quel fondamentale comportamento collaborativo tradizionale del ricercatore, basato sullo scambio di informazioni e di materiale fra pari [72].



Vogliamo chiudere queste brevi note sottolineando l’attuale, notevole carenza di processi “specifici” di formazione dei ricercatori in medicina e – per converso – il grande significato morale che rivestono i rari esempi in cui questa formazione viene affrontata con serietà e metodo.

[1] C. FOSTER, The ethics of medical research on humans, Cambridge University Press 2001, p.1.

[2] Uso l’espressione “paziente” nel senso indicato dal documento “Diritti del paziente” dell’O.M.S.-Regione Europea (Copenhagen , 1994), nel quale è paziente qualunque persona che ha diritto ad un’assistenza sanitaria e viene a contatto con una struttura sanitaria. Per maggiori informazioni sull’argomento, si rinvia a A. BOMPIANI, L’Italia e la Dichiarazione di Amsterdam sui diritti del paziente, Medicina e Morale 1998/1, 47-90.

[3] E’ opportuno avvertire che questo contributo non si occupa delle questioni relative alla ricerca embrionale, che è trattata da altra relazione (v.Roberto Colombo).

[4] SGRECCIA E. [ in SGRECCIA E., Autonomia e responsabilità della scienzain SPAGNOLO A., SGRECCIA E., (a cura di ), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero, Milano, 1994, p.39] scrive:” la scienza dovrà riferirsi all’uomo singolo e alla società, perché è l’uomo che pone in essere la ricerca, perché il bene dell’uomo è il fine della ricerca scientifica e sperimentale sia pura che applicata e perché il campo stesso esplorato dalle scienza sperimentali rappresenta una dimensione vera ma settoriale della realtà” (p.46)

[5] Vorrei sottolineare quanto a me sembra opportuno accogliere anche nel campo biomedico dei significati attribuiti a questi principi:

  • Individualismo, inteso come sottolineatura delle capacità e delle volontà del ricercatore a svolgere una funzione di promozione personale con l’esercizio della ricerca e della scienza che – lo si ricordi – spesso le Costituzioni accomunano nelle libertà di scelte e d’esercizio assieme all’arte ed in stretta correlazione con la libertà di pensiero e di pratica religiosa.

Non v’è dubbio che – sotto questo profilo – l’esercizio della scienza diviene esperienza di una “ricerca di senso” della propria vita, fatta ovviamente in quell’ambito che è storicamente determinato dal contesto esistenziale di ciascuno; ma in questo percorso personale si incontra inevitabilmente “il volto dell’altro” e la dimensione sociale dell’esistere, realtà verso le quali si hanno diritti ma soprattutto doveri, affinché si possa accordare l’individualismo con il rispetto degli altri, la collaborazione ed il “bene comune”.

  • Pluralismo, inteso come ammissione di concezioni diverse nel percorrere le vie della ricerca, essendo ognuno consapevole del dovere di documentare con sinceritàla propria attività e la scelta del proprio percorso, esercitando il rispetto che è dovuto ad ogni altro serio ricercatore.

  • Universalismo, inteso come proiezione della propria esperienza di senso – nell’esercizio della ricerca – nel contesto della comunità internazionale dei ricercatori e non come orgogliosa ed utilitaristica appartenenza ad una “lobby” circoscritta di potere.

[6] LABRIOLA richiama, con riferimento alla Costituzione italiana, questa tematica che si complementa nella lettura coordinata dell’art.33, comma 1 Cost. “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” con l’art.9, comma 1 Cost. “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”, abbracciando in tal modo la nozione di “attività scientifica” (v.pag.8 di LABRIOLA S., Libertà di scienza e promozione della ricerca, Cedam Ed., Padova, 1979). Una trattazione più recente e maggiormente finalizzata alle applicazioni biomediche dei principi costituzionali italiani può leggersi in L. CHIEFFI, Ricerca scientifica e tutela della persona, Ed. Sci.Ital., Napoli, 1993.

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