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Liberalizzazione e concorrenza non sono negoziabili. Non vi è nessuna tendenziale corrispondenza tra capacità, impegno e reddito del professionista



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Liberalizzazione e concorrenza non sono negoziabili. Non vi è nessuna tendenziale corrispondenza tra capacità, impegno e reddito del professionista.

Perché Bersani ha ragione di Aldo Berlinguer - E’ in corso lo sciopero indetto dal CNF, le professioni sono in subbuglio, qualcosa finalmente si muove a seguito del decreto “Bersani”. Ma non si tratta della tanto attesa –e sempre rinviata- riforma delle libere professioni.

Si è invece messo in discussione, per la prima volta, il patto con cui lo Stato ha ceduto una parte di sovranità agli ordini professionali verso l’impegno, da parte loro, di vigilare sulla tutela degli utenti. Patto è rimasto, per certi versi inadempiuto, per altro esso ha dato adito alla nota moltiplicazione degli albi professionali: ciascuno con percorsi formativi stilizzati, esami di abilitazione presidiati da incumbents, aree di riserva legale. Siamo così giunti ad un grado di regolamentazione tra i più elevati di Europa con una proliferazione di ordini (da ultimo, da 6 a 10 nuovi ordini di professioni sanitarie) che si manifesta come l’ultimo sussulto di uno Stato morente, pronto a riconoscere pretese e tutela a chiunque si faccia avanti. Regulatory capture, ci accusano a Bruxelles: ”la regolamentazione è catturata da interessi particolari e muove in funzione di detti interessi”.

Da qui la risposta di Bersani: liberalizzazione e concorrenza non sono negoziabili. Il sistema va ridimensionato ed adattato alle regole della UE ed alle esigenze del mercato comune. E’ infatti impensabile che ogni Stato membro possa, in modo autonomo e diverso, segmentare il sapere tecnico ed il mercato destinandoli, pro quota, ad una miriade di figure professionali. Ne discenderebbero la costrizione di tali servizi in mercati geografici nazionali, una drastica riduzione della concorrenza e la moltiplicazione dei costi per gli scambi trasfrontalieri.

L’assunto non convince gli ordini professionali, in particolare gli avvocati, secondo i quali di concorrenza ve n’è sin troppa, attesi gli ormai 160.000 iscritti all’albo e i circa 15.000 praticanti che ogni anno superano l’esame di abilitazione. Continuando di questo passo, in dieci anni, gli avvocati raddoppieranno.

Il dato è senz’altro allarmante ma non indicativo. Per apprezzare il grado di concorrenza nel mercato non basta infatti valutare quanti sono gli operatori ma come sono distribuite le quote di mercato e se il singolo riesce, con gli strumenti che gli sono consentiti, a competere efficacemente.

Ebbene, a questo proposito, recenti dati della Cassa di previdenza forense rivelano che il 18% degli iscritti dichiarano redditi annui inferiori ad euro 6.960 ed il 31% meno di euro 11.600. Si tratta, nella gran parte dei casi, di giovani, ai quali risulta sempre più difficile trovare una propria collocazione professionale. Per contro, le stime ogni anno curate da Thomson Financial attribuiscono in Italia il primato, in termini di reddito, a pochissimi studi professionali americani e inglesi. Inoltre, l’esperienza empirica registra invariabilmente dinamiche di mercato guidate dai fattori più diversi (status, rapporti parentali, appartenenza ad associazioni più o meno segrete, affiliazioni politiche o sportive, partecipazione agli organi elettivi della professione, rapporti di vicinato, ecc.), meno che dalle capacità professionali dell’avvocato; fattori che incidono anche sui rapporti col ceto giudiziario e che rendono il mercato stesso per nulla trasparente. In altre parole -ma questo è un problema più ampio del sistema Italia - non vi è nessuna tendenziale corrispondenza tra capacità, impegno e reddito del professionista.

Ma veniamo agli aspetti operativi. Società interdisciplinari: il decreto 223/06 inciderà sulla disciplina delle società tra professionisti (STP), aprendole anche ad iscritti ad altri albi. Andremo quindi nella direzione già auspicata dalla Corte UE nel caso Wouters (C-309/99) atteso che la collaborazione integrata tra avvocati ed altri professionisti comporta una migliore articolazione dell’offerta con importanti economie di scala e di scopo e la conseguente, sensibile riduzione dei costi transattivi per gli utenti e del prezzo delle prestazioni, salvo il rispetto del segreto professionale degli avvocati.

Tariffe professionali: il fatto che i minimi siano stati ritenuti legittimi dalla Corte UE in quanto espressione dell’autorità statale (caso Arduino, C–35/99) non ne giustifica la plausibilità intrinseca. Lo hanno messo in rilievo tutti: l’AGCM, la Commissione UE, ora l’Avvocato generale della Corte UE (casi Macrino, C-202/04 e Cipolla 94/04): i minimi tariffari non possono certo impedire ai professionisti di rendere servizi di qualità scadente qualora facciano difetto la loro competenza, diligenza o senso etico-professionale. Inoltre, i tariffari obbligatori, minimi o massimi, possono inibire la libera prestazione dei servizi (art.49 TCE) di altri avvocati europei. Per loro diviene difficile esercitare in Italia senza poter competere sul prezzo delle prestazioni o può diventare antieconomico sopportare costi maggiori di un avvocato italiano per un compenso predeterminato.

Anche l’invito ad aprire a compensi commisurati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti è condivisibile. Ovviamente tali forme di accordo dovranno essere meglio disciplinate, come avviene negli Stati uniti, ove i contingent fee agreements sono esclusi dal diritto penale o di famiglia, o come in Inghilterra, ove il conditional fee è consentito entro limiti prestabiliti.

Infine, il divieto di pubblicità professionale (art. 17 codice deontologico forense), così come strutturato, appare ormai anacronistico. Lo stesso CNF ne ha dato implicitamente atto rinunciando a qualsiasi controllo su internet. Inoltre, trattandosi di precetto deontologico, senza l’avallo sostanziale dello Stato, esso diviene una decisione di associazione di impresa potenzialmente contraria alle regole di concorrenza comunitarie (art.81 TCE).



Il divieto va modificato, inserito nel sistema normativo e reso effettivo: esso deve colpire il contenuto dei messaggi pubblicitari, ingannevoli e fuorvianti, con previsione di sanzioni anche molto gravi per i contravventori e non il mezzo attraverso il quale la pubblicità è svolta.




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La sacra prostituzione a Locri Epizefiri.

E’ negli ultimi decenni che il ricco materiale archeologico, rinvenuto e studiato, è venuto ad illuminare e talora a rimettere in discussione le notizie sui culti delle polis di Magna Grecia.
Nello specifico qui si tratterà il particolare caso della colonia di Locri Epizefiri e del culto della sacra prostituzione ivi attestato da fonti antiche e da ritrovamenti archeologici che testimoniano in maniera sicura questa singolare pratica religiosa. Una pratica questa che affonda le radici nell’antica Mesopotamia, in onore della dea Isthar divinità nel contempo che presiede la sfera dell’amore fisico e della guerra: poi a seguito di contatti economico- culturali, il culto venne trapiantato nella Grecia continentale ed infine per una serie di vicissitudini approdato in seno alla colonia di Locri, da sempre impregnata di umore ctonio.
La singolare vita della colonia in questione è lo specchio di una religiosità estremamente forte nella quale si leggono in maniera prepotente aspetti autoctoni, come il leggendario matriarcato tanto discusso da personaggi del calibro di Paolo Orsi od anche di un Ciacieri, mescolati alla grecità della madre patria: è la donna che impera nel pantheon locrese e ad essa ogni culto forte è dedicato.
Nel caso specifico della sacra prostituzione è l’Afrodite Ctonia locrese ad essere al centro di una manifestazione invasiva e unica nella realtà magnogreca.
Dal punto di vista archeologico diverse sono le testimonianze che possono essere ricondotte a questo culto: a partire dalla straordinaria realtà del particolare edificio della Stoà ad U, al meraviglioso complesso templare in contrada Marasà, alle testimonianze che numerosissime ci sono pervenute dai botroi, rinvenuti nel cortile centrale della Stòà, in contrada Centocamere. Ma è lecito ora chiedersi: cos’è la sacra prostituzione, e con che modalità si svolge?
E’ un rito che viene perpetrato in onore di Afrodite nella contingenza greca, per il cui culto le fanciulle scelte sacrificavano tutta la loro vita alla divinità, diventando sacerdotesse della stessa. Ma le mansioni di queste ultime si districavano nella sfera sessuale: le sacerdotesse erano considerate come dei tramiti con la dea, grazie alla quale chi vi si rivolgeva poteva ottenere fertilità, benevolenza, positività, buona sorte, etc..
E ’questo un procedimento tipico del fedele, cioè di colui il quale, nei contesti mitico- sacrali, si rivolge ad una divinità che non è percepibile dai sensi umani, che non abita il mondo terreno, che non è immaginabile “iconograficamente”, che è dotata di una potenza risolutrice non umana, per superare momenti difficili della vita ( in quanto con le proprie forze sarebbe impossibile, secondo la condizione del pessimismo cosmico, della disperazione fossile ), per ottenere un buon raccolto, per superare una malattia o per tantissime altre ragioni e, per ottenerne la benevolenza, sacrifica, in un’ottica semplicistica ma efficace , quella procedura cioè che regola i rapporti sociali fra gli uomini: il cd. “do ut des”. È chiaro che, nella nostra concezione cristiana secolarizzata, il do ut des viene a cadere nell’ universo religioso in quanto il dio non è più, come invece per le società mitico- sacrali, una potenza all’inizio negativa che deve essere trasformata in potenza positiva con azioni sacrificali atte a captare la sua benevolenza. Quindi il processo di umanizzazione della divinità, fortemente presente nel mondo sacro greco qui si esplica chiaramente. E ancor più chiaramente l’umanizzazione della dea si concretizza nella sua immissione durante il sacrificio incarnandosi nella sacerdotessa. Ma il sacrificio che la tradizione vuole che si perpetri in favore di Afrodite è un sacrificio che prevede il coinvolgimento in prima persona del fedele e scavalca singolarmente le prassi più diffuse: qui non si scanna un vitello e si bruciano le carni per far si che il fumo senza ostacoli arrivi al dio che si nutre di esso, né si offrono oggetti votivi ( o meglio non nella fase centrale del rito). È l’atto sessuale consumato dal fedele insieme con le sacerdotesse di Afrodite che hanno consacrato la loro vita alla prostituzione ad essere il sacrificio vero e proprio, e grazie a questo la dea, emblema ancestrale dell’amore fisico predisposto al piacere e alla perpetuazione della fertilità ferina, ottempera al bisogno dell’uomo: sarà così soddisfatta a sua volta l’esigenza della dea, che si “nutre” di amore. È certamente un momento invasivo del rito e la divinità in questo caso prende le sembianze della sacerdotessa. Si incarna in maniera tangibile in essa, secondo ovviamente la mentalità del sacrificio mitico- sacrale, ed il fedele o la fedele si uniscono in questo modo sessualmente alla potenza divina, cratofanica, che benevolmente elargisce il suo influsso sì ma anche fortuna e buona sorte perché la vita, il matrimonio, la sfera sentimentale possano avere buon esito.
Del resto la scelta di una forma rituale così particolare si giustifica chiaramente anche grazie ad una semplice ragione: le origini dell’Afrodite locrese. L’Afrodite in questione abbiamo anche ampiamente chiarito in precedenza è qui venerata come Urania: nata dunque dai genitali del padre, è per questo la divinità che più di tutti è l’emblema ancestrale della fertilità e della potenza fecondatrice del sesso. In maniera simbiotica è dunque tutto collegato con quest’aspetto della natura della dea: nata dai genitali di un uomo, a lei si perpetra questo rito che per eccellenza è il simbolo dell’unione sessuale si ma anche la ricerca della fertilità ( apertamente simboleggiata dal fallo divino), propiziata in maniera quasi “preistorica”e ferina dal sacrificio e suggellata dalla grecità del banchetto.
Un congiungimento questo che è il puro richiamo alla natura antichissima ed orientale del rito, dove la sacerdotessa della dea dunque abbiamo detto che nell’atto materiale si trasforma, o meglio viene ad essere metamorficamente il tramite umano e concreto con il divino, che ingerisce nella dimensione mondana : importante dunque, anzi indispensabile è la sua presenza durante la sequenza degli atti, sempre gli stessi, perché le condizioni del “sacrificio- guadagno” si verifichino. Questa intromissione unica del divino irrompe dunque durante l’atto sessuale, ma per cercare di creare la connessione con il mondo divino si dovevano compiere anche degli atti che preparavano alla purificazione e alla predisposizione del fedele all’atto sessuale: questi atti dai resti archeologici che si sono ritrovati nel sito locrese denominato della Stoà ad U, ci inducono a pensare ad atti sacrificali consueti, mediante l’uccisione di animali sacri alla sfera della dea e la consumazione di un pasto sacro propiziatorio.
Non è chiara ovviamente la conseguenza temporale di questi momenti nello scandire di atti uguali e secolari che danno vita al culto, ma si può cercare di interpretarne l’ordine. Evidentemente in questo contesto sacrale il significato del sacrificio di animali pertinenti alla sfera di Afrodite assume dei tratti molto marcati: sembra quasi si possa interpretare come l’invito all’intervento nel contesto mondano alla dea. Il sacrificio in se stesso nella ritualità cultuale di contesti mitico sacrali è un momento centrale se non addirittura cardine della procedura rituale, nella quale appunto è il do ut des che si esplica in maniera forte ed anche sicuramente nella sua forma più semplice, ma anche la più efficace. Qui dunque il sacrificio di cui “i botroi, con le loro offerte di trittoiai (pecora,maiale e bove) e di cani sono il documento di purificazione e di espiazione precedente al rito vero e proprio” . Si può immaginare come nella prima fase del rito sia la sacerdotessa che il fedele si recassero all’altare del piccolo tempio- sacello che si trova oggi stratigraficamente sotto la c.d. “casa dei leoni” ma che in antico era un luogo di grande suggestione nei pressi del mare ( elemento fetale della dea) e luogo adatto in ogni senso al sacrificio, che ora entra in gioco nel momento in cui la Dea era richiamata alla dimensione spaziale mondana.
E sempre nei botroi il ritrovamento di statue maschili di recumbenti , costituisce la simbolizzazione della pratica, che nelle stanze della Stoà ad U si configura inevitabilmente in forme simposiache, lo stesso momento sociale nel resto del mondo greco, in cui si colloca la figura dell’etera professionista.
Quindi prima il rito di purificazione attraverso il sacrificio animale, poi l’acme della ritualità sacrale che si esplica nell’atto sessuale vissuto in simbiosi al costume tipico greco: il simposio. Un momento topico della socializzazione greca è il banchetto sacrale, dell’unione di spiritualità e forza di pensiero, visto forse spesso in maniera fuorviante, ovvero in maniera troppo superficiale, associato goliardicamente al vino ed al sesso.
La socializzazione e la comunicazione che avviene nel banchetto simposiaco qui si sublima dunque quando è lo stesso banchetto a diventare “straordinario” “terrifico”: ovvero quando durante lo stesso interviene la divinità, incarnata in questo caso nella sacerdotessa, cosi come durante i riti dedicati ad Afrodite.
Gli attori protagonisti di questo momento sono dunque il fedele e l’etera: ma questa donna che dedica tutto alla religione, chi è?
Bisogna immaginare la vita della sacerdotessa – prostituta come quella di una donna completamente compenetrata nella sua missione cultuale, alla quale è legata imprescindibilmente.
Ma a che ceto questa sacerdotessa poteva appartenere, quale poteva essere la sua estrazione culturale? Questa è una domanda alla quale non possiamo dare una risposta certa, ma dalle fonti riguardanti il culto svolto a Locri ed in specifico secondo il passo di Giustino , queste giovani donne, che passavano la loro vita nel nome di Afrodite, non dovevano appartenere a famiglie ricche, al famoso mondo ristretto cioè dell’aristocrazia locrese, e la fonte è qui abbastanza esplicita: si asserisce che per le giovani donne dell’aristocrazia locrese impensabile era la condizione imposta dalla situazione storica di esporsi in un lupanare per assolvere al compito di prostituirsi. Ciò ci induce a pensare che le sacerdotesse della dea non dovevano essere delle fanciulle di “buona famiglia” e che forse per la maggior parte dei casi appartenevano alla schiera di schiavi che facevano da corollario alla società locrese. Schiave dunque per condizione sociale ed anche schiave del volere divino!
Ma da altre fonti, quali anche quelle iconografiche, ed in specifico la raffigurazione lapidea del Trono Ludovisi, ci fanno intuire che queste donne non erano solo delle schiave: accanto alla nascita della dea vi era la donna concepita come matrona della casa, e quindi sposa (colei la quale cioè vive nella consuetudine della società) e la figura di una raffinata flautista. Di conseguenza non è perciò detto assolutamente così come asserisce Giustino, che le etere che vivevano in nome di Afrodite dovessero essere necessariamente ignoranti e per giunta costrette a questa vita religiosa.
L’etera- sacerdotessa può per questo essere vista come l’emblema di una donna colta, progredita, artefice dell’amore e ad esso votata, in piena armonia con la sua figura “altra” rispetto a quella della donna morigerata, ammantata, spargitrice di profumi.
Il passo di Giustino dunque è sicuramente attendibile e interpreta la realtà ivi vigente, ma è necessario che si dica che in esso si coglie inevitabilmente un tono di censura e di critica verso la figura di una donna comunque ormai lontana dal mondo religioso romano come quella della sacerdotessa- etera.
Un culto come quello della sacra prostituzione ha avuto dei substrati di attecchimento molto particolari. La predisposizione per l’accettazione di questa ritualità che sicuramente ritroviamo in contesti molto rari nel mondo antico necessita di disparate condizioni religiose, ma soprattutto sociali.
Come può un istituto del genere aver messo radici e soprattutto come può essere rimasto in vita tanto tempo (ricordiamo che testimonianze di fruizione dell’edificio sacrale a Locri predisposto per tale rito ricoprono un lasso temporale notevolmente esteso, dalla prima metà del VII sec. fino agli albori del III sec. a.C.) in un contesto particolare come la colonia greca di Locri?
Il discorso a questo punto non può che dipartire dall’analisi del substrato sociale nel quale il culto nacque ed attecchì. Locri non è una colonia nella quale le condizioni possono dirsi socialmente simili a quelle delle altre colonie e sub-colonie protagoniste della storia magnogreca.
Vivono e sopravvivono in essa della condizioni sociali come l’assenza di una coniazione propria di monete , una convivenza di culti singolari e rari, una struttura sociale aristocratica anche in momenti nei quali tutto ci si aspetterebbe tranne che questi caratteri sociali, mentre invece in piani comunque paralleli le altre polis “si evolvevano”.
Già le condizioni di fondazione avvolte nella leggenda sembrano predisporre il destino singolare della polis: le matrone che scappano con i loro schiavi dalla loro terra e con i quali avevano mancato il loro giuramento di fedeltà verso i mariti occupati in guerra e approdano sulle coste ioniche della Calabria dove trovano i Siculi, il popolo che di diritto aveva occupato prima di loro la zona e che era organizzato in maniera estremamente sviluppata con le sue realtà di Janchina, Canale, la capitale, Patariti, stanziati sulle colline a ridosso del mare. Si sviluppa così la colonia depredando il territorio ad un popolo già preesistente e sembra che questo popolo, dopo un periodo di emarginazione perpetrato dai greci a loro discapito, evidentemente dal punto di vista sociale per evitare la perdita di coscienza e di identità, sia stato apportatore di momenti religiosi particolari, intrisi di umore fortemente ctonio.
La religione ctonia che fa da padrona nel mondo locrese, dove la divinità “è donna”, è humus fertile se non fertilissimo per permettere ad un culto come quello della sacra prostituzione di sviluppare e prosperare. Le condizioni per cui delle donne decidono di donare la propria femminilità al mondo religioso stanno proprio nel concepire la religione in maniera “antica”: cioè di avere una visione del divino invasiva e sicuramente non secolarizzata, proprio come quella di popoli, nei quali il pensiero filosofico greco non ha modificato il modo di vedere e concepire l’universo religioso, proprio come i Siculi.
Con questo si intende ipotizzare che fu proprio il contatto con gli indigeni a favorire questo culto, come del resto anche il particolare culto di Persefone alla Mannella . Non è un caso che come a Locri anche ad Erice in Sicilia il culto della sacra prostituzione fosse praticato in onore di Afrodite e dalle fonti e dai resti del tempio dedicato ad Afrodite Ericina sembra che questo culto avesse una rilevanza ed un clamore anche superiore che non nella Locride stessa. Ed anche ad Erice come a Siracusa il popolo che precedeva la venuta dei Greci era appunto il popolo dei Siculi. L’ipotesi che così potrebbe essere formulata è che nel periodo della frequentazione in particolare samia, troiana e ionica il substrato indigeno abbia incamerato tradizioni e ritualità culturali dei visitatori con i quali entrarono in contatto per ragioni di tipo economico, e che solo in seguito le abbiano tramandate ai coloni veri e propri. E questa ricezione positiva al culto sarebbe poi stata innestata dal substrato indigeno che impostava la sua linea di conduzione sociale sul matriarcato.
Forse per provare questa tesi bisogna affrontare la presenza di Kubala a Locri già dal VII secolo. È stata abbastanza sconcertante la scoperta del ritrovamento di questa famosa epigrafe in località Centocamere a Locri, in quanto non si credeva fino ad allora alla presenza della dea orientale in Magna Grecia sin dai primi del VII sec. a.C. “In Anatolia la dea doveva assumere innanzitutto i tratti di Madre divina. E non si può non ricordare che nel pantheon miceneo è incontestabilmente documentata la presenza di una ma-te-re te-i-ja” . Si potrebbe dunque azzardare il fatto che la frequentazione micenea che già contemplava la figura di una Mater nel suo pantheon sia stata la prima a far conoscere ai Siculi una divinità che poi sarà Afrodite per i Greci.
Il contatto con gli ionici di Siris permise in maniera più semplice l’attecchimento del culto, in quanto si trattava di un terreno già conosciuto.
Di natura economica o umana sono le ragioni d’essere di questo culto orientale, “barbaro” , e, grazie a questi contatti, i greci sono venuti a conoscenza di realtà estremamente diverse dalla loro: le tradizioni cultuali sono spesso e volentieri alla base della presenza di alcuni riti che poi divennero greci.
È questa la chiave interpretativa per capire anche la genesi dell’intrecciata mitologia greca, dalla nebulosità delle origini iniziarono a delinearsi miti e leggende che avevano dei caratteri molto simili ad altri: a miti e leggende mesopotamiche.
Lasciando ora da parte discorsi di natura generale potremo cercare di individuare il momento del passaggio, inteso nel senso vero e proprio di trapasso da una realtà all’altra, della sacra prostituzione.
Il momento di maggior contatto con il mondo orientale i Greci lo ebbero quando le loro colonie d’Asia Minore vennero ad essere vessate dal potere dell’impero Lidio prima e di quello Persiano poi.
Le colonie greche d’Asia Minore vennero oppresse dalla potenza cimmeria e dalla conquista di Gige, intorno alla metà del VII sec. e agli inizi del VI sec., ma recenti studi porterebbero a contatti con l’Asia Minore per i Greci già dalla media età del Bronzo, con una frequentazione delle coste per la ricerca di terreno “fertile” per il commercio prima, per la ricerca di territori “fertili” per l’erezione di nuove realtà coloniali poi.
La naturalizzazione in queste realtà portò inevitabilmente a dinamiche di assimilazione di una cultura ben forte e ben più vetusta rispetto a quella greca: il substrato religioso e cultuale quindi si infiltrò nel tessuto greco fino a che questo non si trasformò in consuetudine.
Uno di questi esempi è dunque quello della prostituzione sacra: dalla Mesopotamia, e attraversa secoli e condizioni fra le più disparate e prende piede nella locride calabra. Ciò è comprovato in primis dalla caratterizzazione dell’Afrodite esiodea venerata in questo culto, che più volte abbiamo stabilito essere Urania, cioè nata da Urano. Concepita dallo sperma dei genitali evirati del padre, precipitati in mare è divinità ancestrale, ma questa versione del mito afrodisiaco ha delle radici evidenti nel mito Mesopotamico di Kumarbi e Anu. Secondo la mitologia ittita, Kumarbi (Crono) stacca con un morso i genitali del dio del cielo Anu (Urano), inghiotte parte dello sperma e sputa il resto sul monte Kansura dove lo sperma genera una dea; e il dio dell’Amore, concepito da Anu in questo modo, viene staccato dal suo fianco dal fratello di Anu, Ea. Codeste due nascite sono state fuse dai Greci nella leggenda di Afrodite che sorse dal mare fecondato dai genitali di Urano .
Questa continuazione mitologica con l’universo mesopotamico è una esemplificativa spia del filo che unisce la prostituzione operata in favore di Ishtar, divinità dell’amore libero, della fertilità al rito che si perpetrava ad Afrodite, divinità dell’amore per i greci.
Inoltre Erodoto nelle sue “Historie” ci dice che in Lidia, confinante con il regno dei Medi, nel retroterra della Ionia esattamente a Sardi, Cibele era ritenuta la patrona della dinastia dei Mermnadi , e che presso la tomba di Aliatte, padre di Creso era praticata la prostituzione . Ravvisiamo anche nei suoi resoconti che era consueto costume presso i Lidi permettere che le loro figlie per costruirsi la dote si prostituissero con uomini anche stranieri. Questo passo di Erodoto ci fa pensare così anche al fatto che tale uso fosse collegato con il culto di Afrodite a Locri, come ci precisa il passo di Clearco che appunto sembra mettere sullo stesso piano Lidia, Cipro e Locri, evidenziando la figura delle etere, la cui attività era connessa ai templi, spiegandone poi moralisticamente l’origine quale “punizione” di un’antica hybris, con tutta evidenza hybris di donne contro dei, eroi e mortali. Vittoria Minniti.









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