Raul Mordenti


(2 Lezione: 19/2/2002) La preistoria della Semiotica prima parte: dalle origini ai Sofisti



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(2 Lezione: 19/2/2002) La preistoria della Semiotica prima parte: dalle origini ai Sofisti




  1. Il significato di "semiotica"

Come sappiamo Semiotica vuol dire "scienza o teoria dei segni", o "disciplina che si occupa dei segni"; ma poiché, come rileva Morris, qualsiasi cosa o evento può essere considerato un segno ("qualcosa è segno solo perché viene interpretato come segno di qualcosa da qualche interprete"8) si potrebbe dire che la semiotica non ha per campo di studio un tipo di oggetti particolari, quali sarebbero i "segni", bensì la "semiosi" stessa (cioè il processo per cui qualcosa funziona come segno: la semiosi è un "comportamento segnico").

La parola viene dal greco "segno", sh^ma-tos (sèma) o shmei^on-ou (semèion), latino signum ; shmei^on-ou (semèion) compare già in Omero (Iliade, VI, 168, Odissea, XXI, 231) e in Esiodo (Opere e i giorni, 448); si noti che in Omero la parola indica sia il segnale naturale (le nuvole che indicano la pioggia), sia il segnale divino (un prodigio segno del­la volontà divina), sia il segnale umano e convenzionale (il segno di rico­no­sci­men­to delle truppe). Peraltro la parola sh^ma-tos sembra derivare dal sanscrito "dhyama", dunque è assai probabile che la sua origine sia ancora più antica di Omero ed Esiodo.

shmiwtiko'n (semiotikòn) è già usato da Galeno, dove dunque "segno" sta per sintomo della malattia (in greco: tekmh'rion), ed e­si­ste infatti una Semiotica medica (o Semeiotica), cioè quella branca della medicina dia­gnostica che si occupa dei sintomi.

Semiotica o Semiologia sono sostanzialmente equivalenti ma (come vedremo) esiste con un'accentuazione leggermente diversa nell'uso delle due parole: il termine Semiotica viene usato in ambito anglo-americano (e russo) e corrisponde ad un ap­proc­cio più filosofico, il termine Semiologia è usato in ambito europeo e francese in par­ticolare e corrisponde ad un approccio più linguistico-letterario.

Sembrerebbe dunque che noi ci potessimo appoggiare con qualche sicurezza al concetto di "segno" per dipanare il nostro discorso; ma il fatto è che non esiste affatto accordo su che cosa sia il "segno".

Cerchiamo allora di vedere, sommariamente, che cosa ha significato "segno" nella storia, tracciando così molto rapidamente una sorta di "storia" o "preistoria" della Semiotica (o meglio della pre-Semiotica, cioè della Semiotica avant lettre, che esisteva molto prima che Locke alla fine del '600 o Saussure all'inizio del '900 ne fornissero la definizione).

  1. I pre-socratici e i Sofisti

Una riflessione specifica (sebbene indiretta) sul nostro tema si verifica però solo quando l'umanità, con la filosofia greca, si dedica a definire il linguaggio, la sua natura, le sue origini.

Naturalmente, come per ogni cosa, si manifesta anche a proposito della definizione di "segno" una contrapposizione fra Parmenide (e la filosofia eleatica) ed Eraclito, già all'origine del discorso filosofico occidentale; non esiste ancora alcuna differenziazione fra il concetto di segno e quello di nome, o di parola.

Per Parmenide l'Essere (uno, necessario, immobile) è del tutto inesprimibile, perché l'espressione è mobile, illusoria, riferita alle cose che sono a loro volta mobili e illusorie; dunque il linguaggio è, per dir così, illusorio due volte, perché attribuisce etichette arbitrarie e casuali a cose illusorie. Per questo il linguaggio è puramente "per convenzione" e non ha alcun rapporto con la vera essenza dell'Essere.

Al contrario per Eraclito il linguaggio esiste "per natura", e corrisponde alla realtà che è fatta di movimento e di molteplicità; il linguaggio riflette tale molteplicità come uno specchio, esso è "per natura", e ha dunque anche un qualche valore conoscitivo. Inoltre per Eraclito "Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice (lèghei) ma indica (semaìnei)" (cit. in Eco 1981, p.643). Dunque il segno, per di così, designa più potentemente del linguaggio stesso, perché i segni sono ancora più legati naturalmente alle cose.

Si determina così una polarizzazione, assai importante e duratura, fra chi sostiene l'origine naturale del linguaggio (physis = natura) e che sostiene invece il suo carattere convenzionale (nòmos = uso, consuetudine, convenzione).


Ai Sofisti (dunque siamo nel V secolo) si deve una prima riflessione sistematica sul linguaggio, e dunque sui segni. Essi sono (secondo Calabrese-Mucci 1975, p.213) i : " primi teorici ante litteram della comunicazione di massa e del linguaggio persuasivo, inventori della retorica".

Dunque interessa loro solo il valore pragmatico della parola, la sua capacità persuasiva, non quella conoscitiva. Fra le parole e le cose non c'è alcun rapporto, il linguaggio è puramente convenzionale e privo di qualsiasi valore conoscitivo. Per Gorgia:

"Il linguaggio non manifesta le cose esistenti proprio come una cosa esistente non manifesta la propria natura ad un'altra di esse"9

"Il mezzo con cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è l'oggetto, ciò che è realmente; non dunque la realtà esistente noi esprimiamo al nostro vicino,ma solo la parola che è altro dall'oggetto."10

Dunque con i Sofisti è posto con estrema nettezza il problema dell'arbitrarietà del segno, e si potrebbe anche sostenere che proprio tale arbitrarietà consente e favorisce la sua assoluta manipolabilità, libera (come abbiamo visto la volta scorsa) da vincoli di tipo religioso e morale. D'altra parte la manipolabilità del linguaggio è un gesto teorico fondamentale, che (possiamo ben dire) fonda la testualità come piacere, come gioco, come libertà, insomma fonda la letteratura, e non solo essa.

Ma proprio a tale arbitrarietà del linguaggio resta legato un problema teorico di prima grandezza (che sarà affrontato da Aristotele): se il linguaggio è del tutto arbitrario, come può funzionare da strumento di comunicazione fra gli uomini?


Dal nostro punto di vista (che come ricorderete è particolarmente interessato allo statuto del testo ed al rapporto fra tale statuto e le tecnologie) si pone a questo punto un'altra domanda fondamentale: esiste un rapporto fra il pensiero razionale astratto, della filosofia post-socratica, e tale manipolabilità? E, di converso, il pensiero mitico-poetico non è forse in rapporto con la corporalità della parola orale, detta da una bocca ad un orecchio, e ripetuta?

Insomma la scrittura (che, storicamente, si diffonde e si insedia proprio in quei secoli) non interviene forse in questi processi in modo assolutamente determinante? Una volta che il logos si oggettivizza nella scrittura, distanziandosi così dal corpo e dalla voce corporea che lo pronuncia (foné), ecco che allora (forse solo allora) esso può dare luogo a una successiva, continua rielaborazione, e dunque ad una sua compiuta astrazione razionale. Ma su questo ritorneremo.



3. Platone: Il Cratilo

Questo problema ci conduce direttamente a Platone, come al luogo liminare di questo passaggio capitale nella storia della cultura occidentale. Come sapete, una corrente importante della riflessione semiotica e filosofica contemporanea (penso a Jacques Derrida e alla de-costruzione) lavora proprio a partire da Platone, riconoscendo in lui l'origine di concezioni fondanti e durevolissime nell'episteme occidentale. Torneremo dunque a soffermarci su Platone, e in particolare sul Fedro, il dialogo platonico che contiene, fra l'altro, la celeberrima condanna della scrittura (che cercheremo di analizzare da vicino leggendolo insieme). Per ora consideriamo solo il Platone teorico del linguaggio, e quindi, indirettamente, della semiosi.

Platone affronta il problema del linguaggio in una serie di dialoghi (soprattutto nel Cratilo, ma anche nel Teeteto e nel Sofista). In particolare nel Cratilo sono riassunte le diverse posizioni del dibattito: il personaggio Cratilo (che fu un allievo di Eraclito) propende per la derivazione naturale dei nomi, cioè per la tesi (di origine eraclitea e cinica) secondo cui i nomi sono "per natura" connessi con la stessa esistenza delle cose:

"Il nostro Cratilo afferma (…) che ciascun essere ha per natura il nome che gli si addice correttamente e che questo nome con cui viene designato non è stato dato per convenzione da alcuni (…) ma vi è una certa correttezza per natura dei nomi, sia per i Greci sia per i barbari, identica per tutti"11.

Notate che in quel cenno ai barbari (cioè ai non parlanti la lingua greca) Cratilo compie, per così dire, un autogol, perché adduce proprio l'argomento fondamentale usato sempre (e con successo) contro l'interpretazione naturalistica (o sostanzialistica) del linguaggio, e tale argomento consiste appunto nella varietà delle lingue: se i nomi appartengono per natura alle cose (sostanzialisticamente), perché mai le stesse cose hanno nomi diversi presso popoli diversi?
(Fra parentesi: notate peraltro che una concezione sostanzialistica del rapporto fra le parole e le cose esisterà a lungo, è dura a morire, e sopravvive largamente nel senso comune: essa vive ad esempio in tutte le concezioni della "lingua divina" o "edenica" o "adamitica", della nominazione originaria affidata (secondo la Bibbia) ad Adamo, una nominazione che appartiene dunque alla creazione stessa (e che precede immediatamente la creazione di Eva, cioè il compimento della creazione e ne rappresenta, per così dire, il penultimo episodio):

"Ora, il Signore Iddio aveva già formato dalla terra tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo. Li condusse quindi da Adamo per vedere con qual nome li avrebbe chiamati; poiché il nome che egli avrebbe imposto ad ogni animale vivente, quello doveva essere il suo vero nome. Adamo dunque dette il nome ad ogni animale domestico, a tutti gli uccelli del cielo e ad ogni animale della campagna."(Genesi, 2, 19-20).

Notate anche che la pluralità delle lingue (un problema che fece scervellare anche il nostro Dante) è attribuita dalla Bibbia al peccato, come conferma il mito di Babele.

Direi che nelle (immaginarie) etimologie medievali (pensate a quelle, diffusissime, di Isidoro di Siviglia) continua a vivere questa stessa idea, cioè che i nomi si riferiscano alle cose necessariamente e naturalmente, cioè in virtù di caratteristiche delle cose stesse, e della corrispondenza profonda che tali caratteristiche intrattengono con le parole, e non invece in virtù di un puro arbitrio convenzionale degli uomini associati.)


Ma torniamo a Platone e al Cratilo. L'interlocutore di Cratilo nel dialogo (Ermogene, un allievo di Socrate fra quelli che furono presenti alla sua morte) propende per la tesi opposta, cioè per la tesi (di origine parmenidea e sofistica) che vuole i nomi legati alle cose in modo puramente convenzionale e strumentale:

"Ed io (…) non riesco a convincermi che vi sia altra correttezza dei nomi che l'accordo e la convenzione. Mi sembra, infatti, che il nome che viene assegnato ad un oggetto sia quello corretto; se poi viene sostituito da un altro, senza essere più chiamato con quello, l'ultimo non è meno corretto del precedente (…): infatti, nessun nome spetta per natura ad alcun oggetto bensì per legge e per abitudine di coloro per i quali è consuetudine chiamarlo così."12

Platone, che parla per bocca di Socrate nel dialogo, sembra tentare una terza strada, assai complessa, a cui si giunge peraltro attraverso una lunga argomentazione maieutica di tipo socratico: Socrate (cioè Platone) nega la completa arbitrarietà dei segni linguistici, giacché denominare è un'azione umana che si svolge quindi secondo natura; l'onomatopèa è la prova che nel segno stesso (in questo caso il segno linguistico, la parola) esiste un nesso con la cosa (Eco nota che non è un caso se il "tuono" è designato in molte lingue da parole che hanno un suono "cupo e tambureggiante" che evoca il rumore del tuono ("tuono", "tonnerre", "thunder" "donner"13); ritorneremo su questo problema sulla scorta della definizione di Peirce del concetto di "icona".

E tuttavia Platone nega la tesi di Cratilo di una naturalità del segno, cioè della necessaria corrispondenza fra le parole e le cose: a questo si oppone essenzialmente la gnoseologia platonica, perché se le cose e i nomi si corrispondessero conoscere i nomi equivarrebbe a conoscere le cose, ma non è affatto così:

"le cose debbono essere imparate e ricercate non a partire dai nomi, bensì a partire da se stesse…"14
Platone, lo sappiamo, ritiene che la realtà delle cose sia solo un'apparenza (un'ombra) del mondo delle idee, dunque il nome si riferisce alla cosa che a sua volta ha il suo referente metafisico e sostanziale nell'idea.

Il nome-segno se si riferisce alle cose come propria referenza si riferisce ad un'"ombra" della realtà, non alla realtà, questa è invece costituita dall'idea della cosa (se vogliamo dire così: dal referente metafisico della cosa) la quale non è espressa, né resa conoscibile, dai nomi delle cose. Anzi Platone dimostra sospetto e disprezzo per questa come per ogni altra via di conoscenza induttiva e materialistica. Non a caso, nello stesso Cratilo, Platone (sempre per bocca di Socrate) gioca con le parole sh^ma (che vuol dire "segno", ma anche "stele", "tomba") e sw^ma (che vuol dire "corpo"):

"E, infatti, alcuni lo chiamano (il corpo, NdR) sema (= tomba) dell'anima, come se essa vi si trovasse sepolta nella vita presente. E poiché d'altro canto, attraverso questo l'anima significa (=semaìnei) ciò che intende esprimere (=semaìne), anche per questo viene denominata correttamente sema (=segno)."15

4. Aristotele

È Aristotele che reimposta la questione del linguaggio dedicando fra l'altro ad essa un'intera opera il Peri'Hrmhnei^as (De interpretatione) e utilizzando per la prima volta il concetto di "segno" (come distinto da "nome"): il segno è "qualcosa che rinvia a qualcosa d'altro", o naturalmente o convenzionalmente: aliquid stat pro aliquo.

È in quest'opera (16a e sgg.) che Aristotele dice che le lettere dell'alfabeto sono "segni" (o simboli: Aristotele sembra qui non distinguere fra questi due termini) dei suoni verbali, e questi, a loro volta, sono segni delle "affezioni dell'anima" (dei paqh'mata); si noti intanto che in tal modo si viene a stabilire una gerarchia fra parole e scrittura, le parole dette vengono prima di quelle scritte, le prime esprimono le affezioni dell'anima direttamente (per così dire: al primo grado), le seconde indirettamente (o al secondo grado). Si ribadisce così un primato della parola detta sulla scrittura su cui attirerà l'attenzione ancora Derrida..

Ma il punto decisivo del ragionamento aristotelico è un altro: nel rapporto "a due" pa­role-cose Aristotele introduce un terzo elemento, assolutamente fon­da­men­ta­le, che possiamo chiamare il concetto, ed è per questa via che egli può risolvere il pro­blema della possibilità di comunicare fra gli uomini attraverso il linguaggio nonostante la sua arbitrarietà. Leggiamo questo passo, importantissimo, del Peri' Hrmhnei^as (De in­ter­pretatione):


"… i suoni della (nella) voce, sono simboli delle affezioni dell'anima, e le let­tere scritte (grafo'mena) sono simboli dei suoni della voce; allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i medesimi; ma suoni e lettere risultano segni (shmei^a) anzitutto delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti già identici (immagini similari) per tutti (omoiw'mata pra'gmata h'dh tauta')."
(Vi faccio notare, fra parentesi, che qui le traduzioni che ho consultato divergono alquanto, perché quell' omoiw'mata è tradotto diversamente, "immagini similari", oppure "identici", ed effettivamente l'aggettivo o'moios secondo il mio vecchio Rocci significa effettivamente tanto "simile, somigliante" quanto "identico, medesimo", così come il sostantivo omoiw'maton significa "immagine, simulacro, ritratto, copia". Ma questo lo lasciamo ad altri più esperti di noi, e mi pare aperto il problema se per Aristotele si tratti di identità o solo di somiglianza.)
Possiamo anche cercare di schematizzare graficamente questo ragionamento di Aristotele:

lettere <----- ----- voci<----------- "affezioni dell'anima" <-------- immagini di oggetti

Soggetto A

(diverse) (diverse) (uguali per tutti) (uguali per tutti)

↑ ↑ |

| |


| |

↓ ↓


lettere ----- ---- >voci------- "affezioni dell'anima" <-------- immagini di oggetti

Soggetto B

(diverse) (diverse) (uguali per tutti) (uguali per tutti)

Naturalmente lo schema di ragionamento aristotelico è assai criticabile (ed è stato criticato) ma l'importante è che esso garantisce: a) la comunicabilità del linguaggio fra gli uomini; b) la funzione conoscitiva del linguaggio (contro lo scetticismo assoluto dei Sofisti).

I due soggetti umani A e B possono comunicare tra loro tramite segni (verbali orali o verbali grafici) perché questi segni risvegliano in loro delle identiche "affezioni dell'anima", o concetti che dir si voglia; ed essi hanno in comune anche una porzione di esperienza (immagine) di tali oggetti.

In questo senso si potrebbe dire che i segni sono sì arbitrari ma non sono affatto ambigui nel loro riferirsi a concetti che sono uguali per tutti e, attraverso loro, a degli oggetti che sono uguali per tutti. Dunque sono diverse le parole, e i segni grafici che le rappresentano, ma sono uguali per tutti (cioè universali) le affezioni dell'anima che tali parole esprimono; e sono altresì uguali gli oggetti del mondo che hanno determinato tali affezioni dell'anima (o concetti).

In realtà Aristotele ha postulato una coincidenza fra la Logica e la Linguistica, cioè ha fatto della seconda la manifestazione diretta della prima:

Come Aristotele stesso chiarirà nella Metafisica (IV,4, 1005 b):

"è anzitutto evidentemente vero che il vocabolo designa l'essere o il non essere di una data cosa, sicché non ogni cosa può essere in questo modo. (…)e quando le parole non hanno senso, è tolta la possibilità di discorrere con altri, anzi, propriamente, anche con se stessi (cioè di pensare! NdR): poiché non può nemmeno pensare chi non pensa una cosa determinata; e se egli è in grado di pensare, dovrà anche dare un nome unico alla cosa cui pensa. Stabiliamo quindi, come si è detto prima, che una parola che significhi qualche cosa significa anche una cosa sola." (Cit. in Calabrese-Mucci, 1975, p.217).
A ben vedere, si rifaranno a questa posizione di Aristotele quanti vorranno, nei secoli, fondare (con approcci filosofici anche molto diversi) una grammatica universale, capace di ritrovare nella lingua delle leggi valide per tutti (e faranno questo tentativo non solo i Modistae nel Medioevo (XIII-XIV secolo) o i filosofi di Port Royal (XVII secolo) ma anche, ai tempi nostri, Noam Chomsky). In queste filosofie si ipotizza dunque una corrispondenza fra semiotica, linguistica e logica, cioè fra i modi del significare, il linguaggio e il pensiero.

Scrive Ruggero Bacone ( ):

"La grammatica è sostanzialmente la stessa in tutte le lingue, anche se può variare accidentalmente.16"

E, molti secoli più tardi, Noam Chomsky:

"I processi linguistici e quelli spirituali sono virtualmente identici (…) La struttura profonda, che esprime il signifcato, è comune a tutte le lingue (…) in quanto è un semplice riflesso delle forme di pensiero. Le regole trasformative, che convertono le strutture profonde in strutture superficiali, possono differire da una lingua all'altra."17

Eco ricorda che si può rovesciare l'argomentazione, e cioè "se non siano proprio le leggi di una determinata lingua storica a imporre un certo modo di pensare e se, anziché ipostatizzare come leggi logiche delle regole estrapolate dalle leggi linguistiche, non convenga criticare le leggi linguistiche per mettere in discussione il nostro modo di pensare".18

Parlando di "una determinata lingua storica" ci si può riferire a tutte le lingue della tradizione filosofica occidentale, dal greco al latino fino alle lingue occidentali contemporanee, che hanno in comune proprio il fatto di basarsi sullo schema soggetto-copula-predicato, e che conoscono la possibilità dell'astrazione linguistica connessa all'uso del verbo essere(lingue che dunque possono dire/pensare: "A è B"); ma non tutte le lingue (e dunque per ipotesi non tutti i modi di pensare) presentano queste caratteristiche. Come scrive Peirce:

"Che l'analisi della proposizione in soggetto e predicato rappresenti in modo tollerabile la maniera in cui noi, Ariani, pensiamo, è sicuro; ma nego che questa sia l'unica maniera di pensare. Non è neppure la più chiara né la più efficace."


Comunque il parallelismo così costruito fra linguaggio e concetti rende dunque il linguaggio anche un possibile strumento di conoscenza

La comunicazione inter-umana è pienamente possibile, perché il riconoscimento dell'arbitrarietà dei segni trova un limite (per così dire) nell'universalità dei concetti (che pure questi segni arbitrari esprimono). La semiosi aristotelica descrive dunque un processo al tempo stesso, arbitrario e universale, e potremmo forse dire, un po' rozzamente, che Aristotele costruisce una macchina di significazione in cui si immette il diverso (dei segni arbitrari) e ne esce l'uguale (cioè la comprensione di concetti universali). D'altra parte, come sappiamo, per il realismo di Aristotele è universale e oggettivo, cioè valido per tutti gli uomini, anche il rapporto fra il mondo degli oggetti e il soggetto sentiente.

E infatti questo schema può funzionare anche invertendo le direzioni delle frecce; in tal caso si descrive non più la modalità della comunicazione, ma la modalità aristotelica della conoscenza sensibile (la sua gnoseologia). È dal mondo degli oggetti sensibili, che sono uguali per tutti, che il soggetto riceve delle "affezioni dell'anima", cioè dei concetti, i quali hanno un carattere universale; queste affezioni possono essere comunicate attraverso parole diverse e queste ancora attraverso simboli grafici (o lettere) diversi, ma l'universalità dell'atto conoscitivo è garantito, così come è garantita la possibilità della comunicazione, giacché parole e segni diversi fanno riferimento a affezioni dell'anima (e ad esperienze del reale) che sono comunque uguali fra tutti gli uomini.
Aristotele torna a parlare dei segni nella Retorica, e qui viene distinto rigo­ro­sa­men­te il concetto di shmei^on-ou (semèion) da quello di tekmh'rion (tec­né­rion) che, come ricorderete, significa "sintomo", "prova" etc. L'argomento è pro­prio l'entimema, di cui ci è capitato già di parlare: l'entimema si trae non dagli uni­ver­sa­li e necessari ma dai "verosimili" eiko'ta e, appunto, dai "segni" shmei^a; ta­li segni possono essere di due tipi: o "prove", "sintomi", "se­gni necessari" (così tra­du­ce Eco i tecnèria) oppure quelli che lo stesso Eco definisce "se­­gni deboli" (per cui Ari­stotele non adotta un termine specifico).

Il "segno necessario", naturalmente, è quello che consente il sillogismo, perché va dall'universale al particolare: "Tutti gli uomini che hanno la febbre sono malati", ergo "Chi ha la febbre è malato"; la febbre è tecnèrion (segno necessario) della malattia (si noti, en passant, che nel sillogismo citato non è vero il contrario, cioè, non tutti quelli che sono malati hanno la febbre).

Il "segno debole" (che noi possiamo chiamare senz'altro "segno", o shmei^on) sarebbe, per stare al nostro esempio medico, l'avere la respirazione affannata: essa può essere "segno" di febbre, ma sono solo alcuni (non necessariamente tutti!) quelli che hanno la respirazione affannata e hanno la febbre; fra le due cose (avere il respiro affannato e avere la febbre) non c'è un rapporto di conseguenza necessaria ma solo una congiunzione, una (diciamo così) co-occorrenza, e tuttavia (come abbiamo visto) questi segni possono essere utilizzati in retorica per costruire entimemi (non sillogismi): la respirazione affannata è segno (debole) della febbre, ma è verosimile (e, per giunta, condiviso dal pubblico!) il fatto che chi respira affannosamente sia anche febbricitante, e questo, come sappiamo, al retore può bastare per persuadere.

5. Gli Stoici


Sui filosofi Stoici ( secolo) si sofferma a lungo Umberto Eco, rilevando in loro una straordinaria finezza analitica che forse deriva (ricorda Eco) dal loro essere non greci, ma di origine fenicia, che dunque probabilmente pensano in una lingua diversa dal greco, il che li porta finalmente fuori da quell'etnocentrismo così caratteristico della filosofia greca che conduceva Aristotele, e non solo lui, a identificare le categorie logiche universali con quelle della lingua greca. Essi distinguono, nel linguaggio verbale, tra shmai^non ("espressione", o "segnale" cioè il segno in quanto entità fisica), shmaaino'menon ("contenuto", ciò che è detto dal segno, e, potremmo dire, il suo significato) e tugca'non o pragma ("referente", l'accaduto, l'oggetto a cui il segno si riferisce);


shmaaino'menon ("contenuto")


shmai^non ("segnale") pragma ("referente")

(Ma si noti che la linea che collega il "referente" al "segnale" dovrebbe essere tratteggiata, giacché il segno non è collegato direttamente al referente pragmatico, bensì al suo "contenuto", o "significato").

Compare così una figura a triangolo, forse in parte già deducibile anche da Platone e Aristotele, che sarà fortunatissima nella storia della semiotica e che ritroveremo in Peirce e nel Novecento, ad esempio nel famoso triangolo semiotico di Ogden e Richards (1923). Cfr. anche Eco 1978, p.26.

referenza

simbolo referente


interpretante designatum

veicolo segnico denotatum representamen oggetto

(Morris) (Peirce)

Si noti ancora che il shmaaino'menon ciò che abbiamo definito "contenuto", non è un'"affezione dell'anima" (che sarebbe ancora, pr il materialismo stoico, una cosa materiale), e non è neppure un'idea (platonica) ma è appunto un contenuto incorporale, è ciò che è detto dal segno, e, potremmo dire, il suo significato. In questo senso il shmaaino'menon è simile (e per alcuni studiosi identico) ad un'altra categoria semiotica introdotta dagli Stoici, il lekto'n (che si potrebbe tradurre con "esprimibile", "dicibile") e che, secondo Eco, è in realtà una proposizione linguistica (o, se volete, un'argomentazione logica); tanto è vero che gli Stoici parlano di lekta' "completi" e di altri "incompleti"; sono incompleti ad esempio il soggetto e il predicato, mentre è completo un assioma , o un giudizio. Dice Sesto Empirico che in caso di giudizio (dunque un lekto'n completo) il segno può essere definito come "una proposizione costituita da una connessione valida e rivelatrice del conseguente"19. Come si vede si parla qui di categorie grammaticali e astratte, dunque logiche, che fanno astrazione dalla concretezza psicologica della comunicazione ma ne descrivono invece la struttura formale.

È qui, a ben vedere, in questa capacità di astrazione analitica, la grande modernità della semiotica stoica, che la fa tanto apprezzare da Umberto Eco; e naturalmente qui anche la sua difficoltà: chi volesse leggere i testi di Eco citati in Bibliografia (specie Eco 1981) potrà verificare che la sua semiotica è strettamente intrecciata alla logica, ed alle sue procedure.

La caratteristica essenziale del segno (non solo di quello linguistico) consiste dunque in una sorta di rinvio, il segno è per gli Stoici "ciò che è indicativo di una cosa oscura" (cioè non percepibile o non manifesta).

Su questa base gli Stoici producono una prima tipologia dei segni, distinguendo ad esempio fra segni "rammemorativi" o "commemorativi" (che si riferiscono a un rinvio fra le cose, già note per esperienza, ma nell'occasione oscure o assenti. Come ad es. il fumo è "segno" del fuoco, giacché per esperienza noi già sappiamo che dove c'è fumo c'è anche fuoco), e segni "indicativi" (che sono quei segni che non si trovano mai insieme alla cosa indicata, o che si riferiscono ad oggetti sempre assenti dalla percezione o oscuri per natura. Come ad es. i moti del corpo sono segni degli stati dell'anima; è questo di solito anche il caso delle parole).

. E ciò conferma la struttura essenzialmente logica della loro analisi del segno, che dunque non è più un oggetto isolabile ma, per dire così, una funzione linguistica, intendendo la lingua come "sistema modellizzante primario" (Lotman, cfr. Eco 1981, p.647).


Riferimenti bibliografici della lezione:


  • F. Casetti, Semiotica. Saggio critico, testimonianze, documenti, Milano, Accademia, 1977;

  • O. Calabrese- E. Mucci, Guida a la semiotica. Con un saggio di Luis J. Prieto, Firenze, Sansoni, 1975;

  • U. Eco, Il segno, Milano, ISEDI, 1978;

  • U. Eco, Segno, in * Enciclopedia, vol, 12, Torino, Einaudi, 1981, pp.628-668;

  • Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Milano, Rusconi;




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