Raul Mordenti


(4 Lezione: 26/2/2002) la Semiotica del testo: da Locke a Saussure



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(4 Lezione: 26/2/2002) la Semiotica del testo: da Locke a Saussure.

Abbiamo visto la volta scorsa come con Guglielmo da Ockham il pensiero semiotico si sbarazzi (per così dire) degli universali, affermando il carattere puramente convenzionale (nominalistico) dei segni verbali che esprimono dei concetti, a loro volta derivati dalle cose per categorizzarle.

Alla fine del XVII secolo (dunque il salto questa volta è di quattro secoli rispetto a Ockham) incontriamo John Locke (1632-1704), un successore del nostro Guglielmo, non francescano come Ockham, certo, ma come Ockham inglese ed empirista, che soprattutto condivide con Ockham l'idea di un carattere convenzionale del segno linguistico.

Le parole sono solo un riflesso (arbitrario, non necessario) delle idee, e queste a loro volta sono un riflesso (arbitrario) delle cose, cioè dell'esperienza.

Così scrive il filosofo empirista:

"Benché l'uomo abbia una grande varietà di pensieri, e tali che da essi potrebbero trarne profitto e diletto altri come lui stesso, essi stanno tuttavia dentro il suo petto, invisibili e nascosti agli altri. (…) E poiché non si potrebbero avere i piaceri e i vantaggi della società senza comunicazione dei pensieri, fu necessario che l'uomo scoprisse qualche segno visibile esterno, mediante il quale quelle idee invisibili, di cui sono costruiti i suoi pensieri, potessero venir rese note agli altri (…) In tal modo possiamo concepire come le parole (…) venissero ad essere impiegate dagli uomini come segno delle loro idee; non per alcuna connessione naturale che vi sia tra particolari suoni articolati e certe idee, poiché in tal caso non ci sarebbe fra gli uomini che un solo linguaggio, ma per una imposizione volontaria, mediante la quale una data parola viene assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale idea." (Saggio sull'intelletto umano, 1697, III.II, 1).

E ancora:

"Sebbene le parole, quali sono usate dagli uomini, propriamente e immediatamente non possano significare altro dalle idee che sono nella mente di chi parla, questi tuttavia (…) suppone che le sue parole siano il segno di idee che si trovano nella mente di altri con i quali comunica: poiché altrimenti parlerebbe invano e non potrebbe esser capito." (Ibidem, III.II,4: sottolineature sempre nostre, NdR).

Così anche per Locke ci troviamo di fronte ad un triangolo, questa volta fra idea, segno (parola) e cosa, in cui dunque la parola è segno dell'idea, e non direttamente della cosa.

parola

idea cosa
(anche in questo caso, dunque, la linea che collega "cosa" a "segno" deve intendersi come virtuale e solo tratteggiata).

È superfluo dire che l'idea di Locke non è l'idea di Platone e dell'idealismo, è piuttosto l'idea come categorizzazione funzionale dell'esperienza, che comunque dall'esperienza proviene:

"un nome distinto per ogni cosa particolare non sarebbe di alcun uso notevole per il miglioramento della conoscenza: la quale, sebbene abbia fondamento nella cose particolari, si estende mediante le vedute generali; al che giovano propriamente le cose ridotte a categorie, sotto nomi generali." (Ibidem, III. III, 4).

(Richiamo la vostra attenzione sulla forte analogia di questa impostazione con quella, risalente ad Aristotele, che abbiamo già considerato.)

E nell'ultimo capitolo del Saggio, dove descrive una possibile articolazione delle scienze, Locke giunge a parlare di una shmeiwtikh' (semeiotiké) cioè di una "dottrina dei segni", che sarebbe prevalentemente occupata da una dottrina delle parole solo, perché i "suoni articolati" sono quelli "che gli uomini hanno trovato più convenienti (…) e di cui perciò fanno uso generalmente.." (Ibidem, IV, XXI, 4).


La semiotica e la comparsa della "massa" come problema nel Novecento

Ma chi pronuncia per primo la semiotica come scienza autonoma e descrive i suoi confini è, come sapete, il linguista svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913) nel suo Corso di linguistica generale del 1913, uscito postumo nel 1916; queste date ci suggeriscono l'ipotesi di una coincidenza significativa con l'americano Charles Sanders Peirce (1839-1914) che, del tutto indipendentemente da Saussure, affronta negli stessi anni il problema semiotico.

C'è qualcosa che, ai due capi del mondo occidentale del tempo, lega queste due ricerche del tutto autonome ma convergenti sullo stesso oggetto? Se la risposta è sì non può trattarsi che della fase storica attraversata dal mondo capitalistico intorno al tornante del primo decennio secolo (che si avvia alla guerra mondiale).

Il periodo è segnato dalla comparsa sulla scena di un soggetto del tutto nuovo, "le masse" (si parla perciò di "società di massa"), che è un concetto del tutto dverso rispetto a quello di "popolo" e anche rispoetto a quello di "classe"/i". Cosa sono "le masse"?


Canetti: Masse e potere

Le Bon: La folla (tradotto da Mussolini!)

Hannah Arendt (000-000, Le origini del totalitarismo) così definisce le "masse": le masse sono coloro che "per l'entità numerica o per l'indifferenza verso gli affari pubblici o per entrambe le ragioni, non possono inserirsi in un'organizzazione basata sulla comunanza di interessi."

Dunque "masse" significa essenzialmente un'entità che sfugge alla mediazione politica tradizionale (quella fondata, secondo le parole della Arendt, sulla "comunanza di interessi", e dunque ad ogni controllo, e tuttavia con le masse occorre fare i conti, non fosse altro che per il suffragio universale (che si va estendendo nella seconda metà dell'Ottocento) e, soprattutto, delle organizzazioni sindacali e dei partiti (la nascita del Partito Socialista in Italia è del 1892).

Questa "entità" sconosciuta e minacciosa rende cruciale, già all'inizio del Novecento, il problema della comunicazione.

L'Estetica di Benedetto Croce

(NB: questa parte è stata largamente "saltata" a lezione per mancanza di tempo: coincidenza con l'incontro dei Corsisti con il presidente Sabatini)


La grande Estetica crociana (1902, ma già uscito in rivista nel 1900) è un testo capitale della cultura italiana del Novecento, non solo di quella letteraria.

Croce aveva 34 anni quando pubblicò il suo gran libro, che conobbe ben nove riedizioni fino al 1950, prima da Sandron, poi (dal 1908) da Laterza.

L'Estetica (il cui titolo completo è Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale) è infatti non solo l'inizio ma anche il fondamento e, per dir così, l'embrione di tutta la "Filosofia dello Spirito", la quale si svolge, come forse sapete, in quattro momenti, due teoretici (Estetica e Logica) e due pratici (economia ed etica), a cui corrispondono in quattro volumi crociani dell'Estetica, della Logica (1909) della Filosofia della pratica (19XXX) e della Teoria e storia della storiografia (19XXX). Di questo compatto sistema filosofico l'Estetica è il "motore immobile" che avvia e sostiene l'intero processo, ed è anche il vero fondamento perché fondando l'autonomia assoluta dell'arte Croce fonda anche l'autonomia della cultura, ma dunque dei suoi addetti, gli intellettuali e, attraverso essi, della loro classe (che è la classe di Benedetto Croce), la borghesia.

Arcangelo Leone de Castris (sulle orme di Gramsci) ha studiato il carattere politico dell'operazione culturale crociana e, in particolare, l'ha messa in rapporto diretto con la grande crisi italiana (ed europea) di fine secolo, dalla Comune di Parigi (del 1870) fino ai moti italiani del 1898 (Bava Beccaris); una crisi che è in buona sostanza l'avvento della "società di massa" (o se si vuole dell'avvento del proletariato moderno come nuovo protagonista della storia), e che sembrava profilare una crescente ondata destinata a travolgere l'ordine borghese e alla quale Croce oppose, con assoluta lucidità, un vero e proprio sistema difensivo di carattere ideologico, un sistema destinato a funzionare, in modo duraturo, come garanzia dell'autonomia della cultura, e per questa via del primato indiscutibile della borghesia e del suo ordine.

Inoltre le posizioni sistematizzate in modo teorico nell'Estetica vennero poi fatte vivere molecolarmente da Benedetto Croce nella società italiana grazie al suo diuturno e ultracinquantennale lavoro di straordinario organizzatore e diffusore di cultura, attraverso le sue opere, anzitutto, ma anche attraverso una serie ininterrotta di note, recensioni, interventi minuti e puntuali (scritte sempre con linguaggio comprensibile, elegantissimo e piano, ma mai casuali) ospitate nella sua rivista "La Critica", nonché attraverso le scelte editoriali della casa editrice Laterza (si pensi all'importanza della collana, da lui stesso diretta, degli "Scrittori d'Italia") e l'influenza diretta e indiretta da lui esercitata sugli allievi diretti e, a volte tramite questi, su intere generazioni di professori di liceo, e, insomma, sul complesso della cultura italiana.

Questa egemonia crociana (Gramsci si pone l'interrogativo se sia più importante il "papa laico" Benedetto Croce o il vero papa di Roma!) non è certo circoscrivibile in poche frasi: basterà dire che è assai rilevante il fenomeno (su cui richiama l'attenzione ancora Gramsci) dei "crociani senza saperlo", segno rilevantissimo quest'ultimo di un'egemonia, perché testimonia della capacità di una determinata posizione di diventare "senso comune"; e con il "senso comune" (non per caso) Croce si misura anche nei punti più rilevati e importanti della sua filosofia.

Basterà qui dire che l'egemonia crociana, mentre traccia, e per molti aspetti costruisce, una precisa tradizione filosofico-letteraria italiana, una linea già segnata da tratti idealistici e destinata a compiersi in Croce stesso (una linea, come è stato detto Vico-De Sanctis-Croce), pronuncia, di converso, alcuni interdetti destinati anch'essi a influenzare in modo duraturo la cultura, e la società, italiane. Sulla base della costante (e durissima) polemica antipositivistica, Croce bandisce per decenni dall'Italia la sociologia, la psicoanalisi, la pedagogia, perfino la linguistica e la stessa filologia, come, in generale, tutta la riflessione scientifico-epistemologica novecentesca.

Sul piano propriamente letterario Croce rifiutò sostanzialmente tutta la grande cultura europea moderna segnata dalla crisi, cioè non solo rifiuta Marinetti e D'Annunzio ma anche Baudealaire e Rimbaud, anche Joyce e Proust,e tutte le avanguardie novecentesche; non a caso egli rifiutò (e non capì) anche Leopardi, riducendolo a "vita strozzata" e a poeta lirico e "dell'idillio", perché nel suo sistema (filosofico-ideologico, e poi anche di gusto) non c'era spazio per la rottura, per il dubbio, per la crisi appunto, ma solo per momenti olimpicamente "classici" e ricompositivi.

Inoltre Croce aveva la straordinaria capacità, per così dire, di chiudere le porte in cui lui stesso sera però passato; filologo finissimo condannò la filologia contemporanea come "critica degli scartafacci"; erudito raffinato (sono forse queste le sue scritture più durature) rivestì l'erudizione altrui di pessima critica e la rese impossibile; conoscitore profondo del Seicento e del Barocco, si deve tuttavia a lui la condanna più duratura di quel secolo, e così via.
Il fondamento teorico di questo sistema è comunque (come si diceva) l' Estetica del 1902, che ora proveremo a leggere sommariamente:
opera divisa in due parti: SPIEGARE
Inizio p.3 A

(vedi insistenza su : "nella vita ordinaria") Croce e il "senso comune": Eco 1997, p. 379


Ora questa conoscenza intuitiva appare mescolata a concetti, dice il senso comune,
p.4, B
ma Croce ribadisce l'assoluta autonomia della intuitiva B' e C1 a p.4:
Insomma: "Il tutto determina la qualità delle parti" (p.5)
Chiarita così l'autonomia dell'intuizione dal concetto occorre chiarire il rapporto fra intuizione e percezione, dato che l'intuizione non avviene (spiega Croce) nello spazio e nel tempo:

"Ciò che s'intuisce in un'opera d'arte, non è spazio o tempo ma carattere o fisionomia individuale". (p.79).


L'intuizione è invece espressione: p.11 D
Tuttavia questa espressione artistica non ha nulla a che fare con la capacità, con la tecnica diremmo dell'artista, bensì solo e soltanto con l'intuizione stessa e con la sua qualità e intensità:

p.12-13 E


Dunque si può affermare la perfetta identità fra intuizione ed espressione:

p.14
Ora proprio una tale identità di intuizione ed espressione è l'arte, che non ha differenze né gradi al suo interno. (cap. II)

Inoltre (cap. III) l'arte è una forma di conoscenza intuitiva, e cioè è fondamento della vera filosofia, giacché mentre la conoscenza estetica (o intuitiva) può fare a meno della intellettiva non è vera "la reciproca", cioè la conoscenza intellettiva dipende dalla estetica (p.26).

E vedi anche a p. 30 G: "Vi è poesia senza prosa, ma non prosa senza poesia".

Il pensiero non può stare senza il parlare (cioè senza l'espressione, che come si è visto coincide con l'intuizione!) Questo spiega l'inesattezza dell'affermazione: "lo so, ma mi mancano le parole per dirlo": p.28-29 F
Eco sulla tautologia che regge l'Estetica: cfr. Eco 1997, p.377-378
Croce contro la scienza:

Nell'ultimo paragrafo del capitolo III parla di "Le cosiddette scienze naturali e i loro limiti", dopo aver scritto nel paragrafo precedente "La filosofia come scienza perfetta": p.34-35 H


un altro paragrafo dello stesso capitolo II è intitolato "Inesistenza di altre forme conoscitive" (p.31)

Il giudizio sull'arte e sugli artisti, cfr. capitolo IV.


Vedere il cap. XI leggendo i titoli dei paragrafi (è la pars destruens):
Che cosa è il "giudizio estetico"? è la "riproduzione dell'arte", in sé stessi (cap. XVI, p.130, I )
Deriva da qui l'identità di gusto e genio: p.132 L
Conseguenze (del tutto coerenti):

impossibilità della storia della letteratura (e dell'arte) p.141 e sgg, p.149

impossibilità delle traduzioni (p.76)

proibizione dei generi letterari (e delle "letterature comparate")

polemica contro le precettistiche (cfr. ora contro le "didattiche") e le retoriche (p.81)

I fondamenti della semiotica del Novecento: de Saussure

Entità a due facce, significante e significato

(v. appunti mss.)

Riferimenti bibliografici della lezione:


  • B. Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Bari, laterza, 1950 (5a);

  • U. Eco, Croce, l'intuizione e il guazzabuglio, in Kant e l'ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997, pp.375-387;




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