S giovanni bosco


XVI. I due Berengarii. - L’Italia sotto ai re di Germania



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XVI.
I due Berengarii. - L’Italia sotto ai re di Germania (95).

(Dall’anno 888 all’anno 961).

Dopo lo scioglimento dell’Impero d’Occidente nacquero vari regni, alcuni piccoli, altri più grandi. Mentre questi Stati si andavano formando cogli avanzi dell’Impero dei Franchi, ciascun regno dividevasi in piccoli Stati, col titolo di ducati o di contee, secondochè appartenevano a duchi o a conti. Da principio cotesti signori altro non erano che antichi capi guerrieri, cui gli imperatori od i re avevano affidato il governo delle provincie, di cui col loro consenso eransi resi possessori. Talora altresì erano vescovi od abati dei monasteri che a nome della Chiesa possedevano le terre e le case che i prìncipi e gli uomini potenti del secolo solevano donare in limosina alle chiese od alle abazie per lo più in espiazione dei loro peccati. Ma in breve tempo tutti i possessori di un piccolo castello, fabbricato sopra una collina, sormontato da torricelle e circondato da grosse muraglie o da un fosso profondo, divennero i padroni delle campagne, e si riguardarono come i veri sovrani dei paesi circostanti. Un’abitazione di questo genere bastava a rendere un signore formidabile per uno spazio di ben dieci leghe all’intorno; perché di là egli poteva a suo talento far devastare dai suoi soldati tutte le vicine terre. Quindi i contadini per farsi amico un sì terribile vicino, spesso andavano ad offerirgli umilmente una parte del loro podere, Affinché non fossero da lui molestati, ed impedisse che altri andasse a guastare loro le campagne od i raccolti, oppure abbruciare loro la casa.

Perciò i contadini ignoranti ed incapaci di farsi capi di squadra sottomettevansi facilmente sotto al dominio di questi conti o marchesi o duchi, i quali possedevano qualche città, oppure castello difeso da alcuni uomini armati. In simile guisa i più deboli rivolgendosi ai più forti, che in caso di bisogno loro potevano dare soccorso, veniva sempre più confermandosi quel titolo di sovranità, introdotto da Carlomagno, che fu chiamato feudalismo e vassallaggio.

Mentre i costumi feudali si radicavano avvenne un fatto assai calamitoso per l’Italia. Se vi ricordate ancora, Un popolo barbaro sotto il nome di Unni, condotto da Attila, aveva fatto grandi stragi nel Romano Impero. Ora nuove truppe di barbari della medesima origine, cui si dava allora il nome di Magiari o di Ungheresi, invasero la Germal1ia e l’Italia, ove fecero orribili guasti. Tutti gli sforzi per combatterli riuscirono vani; ed eransi già avanzati fino al Ticino, quando i. sovrani ed i vassalli per arrestarli dovettero offerir loro ricchezze d’ogni specie. Quei barbari le accettarono, ma non cessarono dalle devastazioni.

Oltre le scorrerie e le invasioni dei barbari erano in Italia gravi sconvolgimenti e guerre intestine. Mentre Carlomagno era ancora in vita aveva scelto alcuni generali, cui aveva affidata, come vi raccontai, la guardia degli Stati posti sulla frontiera di Germania e dell’Italia col titolo di marchese, giacché i paesi di frontiera si chiamavano Marche. Ora i signori d’Italia, cioè i conti, marchesi e baroni per avere un capo che li guidasse contro i barbari e sedasse le discordie, che ognor più crescevano, si radunarono a Pavia, e nell’anno 888 elessero un parente di Carlomagno, chiamato Berengario, duca del Friuli, il quale prese il titolo di re e d’imperatore d’Italia. Ma appena coronato a Monza colla Corona di ferro, fu gridato re un altro famoso guerriero di nome Guido, duca di Spoleto.

Tuttavia Berengario venne a battaglia contro agli Ungheri sulle rive del fiume Brenta, e riportò una grande vittoria. Laonde gli Ungheri, passato il fiume Adige, chiesero di poter ritornare nel loro paese: ma i baroni italiani, divenuti orgogliosi per la ottenuta vittoria, non acconsentirono a Berengario che ciò permettesse. Gli Ungheri offerirono nuovamente di ritirarsi e di restituire tutta la preda e i prigionieri; ma non bastava. Allora eglino, preso consiglio dalla disperazione, si avventarono sopra gli Italiani, decisi di vincere o di rimanere trucidati in campo. Le truppe italiane colte all’impensata, mentre giacevano sepolte nel sonno e nella crapula, furono tagliate a pezzi. Da quel punto non fu più possibile tenere quei barbari lontani da questi paesi.

Gli Italiani avrebbero dovuto dimostrare la loro gratitudine verso di Berengario, che tanto erasi adoperato per liberarli dall’oppressione dei barbari; ma ne fu corrisposto nel modo più indegno. I signori si ribellarono contro di lui e lo costrinsero a fuggire presso il re d’Alemagna. Ma nuove sciagure fecero che Berengario fosse richiamato al trono.

Trattandosi del bene della sua patria, egli dimenticò gli oltraggi ricevuti, ritornò in Italia, e combatté vittoriosamente contro ad un re francese, di nome Lodovico. A questo fatto d’àrmi seguirono sedici anni di pace; di poi ebbe a fare con un altro re eziandio francese, di nome Rodolfo, con cui venne a battaglia; da questo fu vinto e costretto a chiudersi in Verona, unica città rimastagli fedele.

Berengario era valente ed accorto guerriero, di cuore molto generoso e assai propenso a perdonare qualsiasi ingiuria. In una battaglia contro Rodolfo un capo di quelli che avevano congiurato contro di lui, cadde nelle mani dei suoi soldati, i quali gliela condussero dinanzi seminudo e tutto intriso di sangue dei suoi compatriotti uccisi. Berengario gli perdonò, il fece rivestire e lasciollo in libertà, senza nemmeno esigere da lui alcun giuramento.

Ma sebbene la generosità di Berengario nel perdonare torni a somma lode di un principe cristiano, tuttavia egli fu corrisposto colla massima ingratitudine: anzi come or ora vedrete, ei perì vittima della sua generosità. Un signore della Lombardia, chiamato Flamberto, ricolmo di favori da Berengario di cui esso aveva tenuto un figliuolo al fonte battesimale, fu corrotto dai nemici di questo principe e per eccesso d’ingratitudine e di nefandità giunse a concepire il reo disegno di dargli la morte.

L’imperatore consapevole della trama ordita da quel ribaldo, avrebbe potuto con una parola farlo uccidere; ma credendo di potersi guadagnare il cuore di quel colpevole col perdono, lo chiamò in un gabinetto del suo palazzo di Verona, ove allora abitava, e dopo avergli rammentata l’antica loro amicizia e i molti favori che gli aveva compartito, gli fece inoltre vedere quanto fosse orrendo il misfatto macchinato; poi gli presentò una tazza d’oro, lo costrinse ad accettarla, dicendogli: «Questa tazza sia fra noi pegno di una riconciliazione sincera; ogni qual volta ne farete uso, vi rammenti l’affezione del vostro imperatore, ed il perdono che egli vi ha ora conceduto». Flamberto rimase confuso, ma era troppo scellerato, perché facesse la debita stima di tanta bontà. La sera medesima di quel giorno invece di ritirarsi secondo il solito nelle stanze del suo palazzo, dove per ordinario dormiva attorniato dalle sue guardie, l’imperatore volle andare a passar quella notte in un padiglione isolato in mezzo ai suoi giardini, da cui allontanò anche le solite guardie, per dimostrare a tutti che non serbava la minima diffidenza. Ma gli uomini scellerati, capaci di concepire un misfatto, sono altresì abbastanza audaci da mandarlo ad effetto, malgrado ogni perdono, ogni benefizio ricevuto. Sul fare del giorno, quando Berengario era per uscire dal suo padiglione per recarsi in chiesa, Flamberto si presentò a lui accompagnato da una frotta di armati, e nel momento in cui il principe si avanzava per abbracciarlo amorevolmente, il ribaldo lo trafisse con un pugnale e lo stese morto al suolo.

Un delitto sì atroce non rimase impunito, e l’omicida poco dopo perì miseramente. Ma non si tardò a comprendere quanto grande sventura fosse per gl’Italiani l’aver perduto Berengario.

In sua vece nel 926 fu eletto re d’Italia Ugo, marchese e duca di Provenza. Costui aveva promesso di ricondurre in Italia il secolo d’oro; ma la cosa andò diversamente. Le molte iniquità da lui commesse, il tirannico suo governo, l’avarizia che gli faceva aggravare di balzelli e di imposte i suoi popoli, il non fidarsi degli Italiani, ed il conferire le dignità agli stranieri gli concitarono contro gli animi. Calò dalla Trebbia in Italia un altro Berengario, marchese d’Ivrea, con poche genti che furono poi ingrossate da quelle degli altri Italiani che a lui si unirono. Ugo non potendo resistere a tanti nemici tornò in Provenza, dove morì nel 947. Poco stante cessò eziandio di vivere Lottario suo figliuolo; a lui con facilità poté succedere Berengario II, che già aveva nelle mani il dominio delle cose. Egli fu coronato nel 950 in Pavia, associando al regno suo figliuolo Adalberto. Per altro i suoi barbari trattamenti contro Adelaide, vedova di Lottario, cacciata nel fondo di una torre, mossero a pietà Ottone I, imperatore di Germania, desideroso anche di ricuperare l’Italia, che pretendeva e bramava di far sua. Calato pertanto in Italia. Ottone liberò Adelaide, la fece sua sposa, ed assunto il titolo di re d’Italia, ritornò in Germania. In questo intervallo Berengario II si era rifugiato nel marchesato d’Ivrea; ma poi determinato di riconciliarsi con Ottone, si recò anch’esso in Germania col figlio Adalberto, ed alla presenza dei signori di Germania e d’Italia entrambi inginocchiati davanti ad Ottone, lo riconobbero come vero e solo re d’Italia, gli prestarono il dovuto omaggio, ricèvendo da lui l’investitura di questo regno. Mediante tale atto l’Italia ritornò feudo, ovvero dipendente della corona germanica.

Berengario, tornato in Italia, si pentì di quanto aveva fatto, e, ribellatosi all’imperatore, aveva già preparato un esercito di 60 mila uomini; ma all’arrivo di Ottone tutti si sbandarono, ed Ottone si avanzò senza ostacolo. Giunto a Milano, quasi in compenso delle discordie che andava sedando, fu coronato re di Lombardia dal Papa di quel tempo Giovanni XII: dipoi insignito a Roma della dignità imperiale, che d’allora in poi non fu più disgiunta dalla corona di Germania.

In questo modo Ottone fu anche riconosciuto re d’Italia dagli Italiani; e l’Italia che dalla fine dei Carolingi nell’888 sino al 961 fu governata da re Italiani, cadde sotto l’impero.



XVII.
Crescenzio. - Ardoino. - La Cavalleria.

Venuta dei Normanni in Italia (96).

(Dall’anno 961 all’anno 1030).


In mezzo agli avvenimenti che vi ho poco fa raccontati, o , giovani cari, la città di Roma, che fu in ogni tempo il bersaglio delle vicende politiche, andò eziandio soggetta a gravi turbolenze. Da più di tre secoli i Papi ne erano legittimi padroni, ma spessissimo risorgevano rivoluzioni, per cui il Papa stesso era costretto a fuggire dalla sua capitale. Fra gli altri turbolenti fu Crescenzio, console di Roma e capo di quel Senato, che aveva in suo potere la fortezza di Castello Sant’Angelo.

Prese questi a perseguitare papa Giovanni XV, così che esso dovette fuggire di Roma e ricoverarsi in Toscana; ma Crescenzio, temendo la venuta dell’imperatore, mandò a pregare il Papa che tornasse alla sua sedia, e col Senato gli domandò perdono. Reggeva allora l’impero di Germania Ottone III, che era figliuolo di Ottone II. Egli pertanto venne in Italia, ed avendo processato Crescenzio, lo condannò all’esilio; ma il Papa Gregorio V, successore di Giovanni, intercedette per lui, cosicché rimase in Roma. Aveva Ottone riconfermato al Papa il temporale suo dominio sugli Stati della Chiesa. Crescenzio di ciò irritato, avendo aspettato che Ottone fosse tornato in Germania, di nuovo prese a tribolare il Papa Gregorio; e nell’anno 997 lo costrinse a fuggire da Roma, investendo se stesso del dominio temporale. Sdegnato di ciò Ottone cala nuovamente in Italia e assedia nel castello S. Angelo, Crescenzio, che dopo ostinata resistenza si arrese sotto promessa che avesse salva la vita. Ma l’imperatore non mantenne la parola, fece tagliar la testa al misero Crescenzio e a dodici de’ suoi principali compagni.

Devo dirvi, miei cari, che l’azione di questo imperatore è altamente riprovevole, perché, sebbene Crescenzio si meritasse quel castigo, il re, data la parola, doveva mantenerla; ed egli stesso ne provò i più amari rimorsi, che cercò di acquietare con austere penitenze: si coperse di cilicio, andò a piè nudi da Roma fino al santuario di san Michele sul monte Gargano, dove passò quaranta giorni in rigoroso digiuno, dormendo sopra una stuoia. Ciò non ostante non poté acquietare le interne sue agitazioni, finché morì avvelenato dalla moglie di Crescenzio nel 998.

Morto Ottone senza successione, molti signori italiani si radunarono in Pavia, e nel 1002 elessero a re d’Italia un famoso guerriero di nome Ardoino, marchese d’Ivrea, che, come vi è noto, è una città considerabile alla sinistra della Dora Baltea, ventiquattro miglia distante da Torino.

Il novello re invece di occuparsi a migliorare la sorte dei suoi sudditi, mosse gravi persecuzioni contro ai vescovi, e specialmente contro a quello d’Ivrea e a quello di Vercelli. La condotta violenta e irreligiosa di Ardoino indusse l’imperatore di Germania a venire in Italia. Era questi Enrico II, successore di Ottone, e detto il Santo per la sua grande pietà e perché come tale è venerato dalla Chiesa.

Giunto Enrico in Italia, venne a battaglia con Ardoino, che, dai suoi medesimi seguaci abbandonato, dovette ritirarsi nel marchesato d’Ivrea. Ma, partito Enrico, egli uscì di nuovo dalle sue fortezze, e continuò a molestare i paesi vicini per dieci anni. Stanco infine dalle fatiche della guerra, e vedendo che le umane grandezze non potevangli procacciare la vera felicità, si ritirò nel Canavese nel monastero di san Benigno, persuaso di trovare colà quelle dolcezze che invano si cercano in mezzo agli affari del mondo. Entrato appena in detto monastero depose sull’altare le insegne regie, si fece radere la barba, si vestì da povero, e dopo un anno di rigida penitenza morì nel 1015.

Intorno a questi tempi cominciarono a salire in grande rinomanza i cavalieri. Essi erano uomini forti e valorosi, dati al mestier delle armi, i quali con giuramento si obbligavano di impiegare la loro vita a favore dei deboli e degli innocenti, e a difesa della religione.

Fra i cavalieri molto celebri nella storia sono quelli che vennero a stabilirsi in Italia sotto al nome di Normanni. Questa parola non vuol dire altro che uomini del Nord, ossia del Settentrione. Costoro dalla Germania andarono ad abitare un paese della Francia, cui diedero il nome di Normandia, cioè paese dei Normanni. Sebbene rozzi e feroci ricevettero volentieri il battesimo, e si davano grande premura per le pratiche religiose. Il loro capo era nominato barone, il che voleva dire uomo libero.

Era credenza generalmente diffusa nel cristianesimo, che col finire del secolo decimo dovesse avvenire la fine del mondo, ed ognuno pensavasi di far cosa a Dio sommamente gradita, andando a visitare la Palestina ed i luoghi santi ove Gesù Cristo era morto sulla croce per espiare i peccati degli uomini. Ciò era più che bastante per destare nei Normanni il genio delle avventure e dei viaggi lontani; sì che in breve si videro drappelli di uomini di quella nazione con indosso un abito lungo, in mano un bastone, lasciare le loro belle campagne per incamminarsi verso Gerusalemme. La foggia, con cui quei viaggiatori vestivano, dicevasi abito di pellegrino, onde i loro viaggi furono appellati pellegrinaggi. Ma per fare fronte ai pericoli, che i pellegrini incontravano traversando le contrade dell’Europa e dell’Asia, la maggior parte devastata allora dagli Ungheri, dai Saraceni e dai Turchi, solevano i Normanni portare sotto alloro abito una forte spada. Di queste armi avevano occasione di valersi contro ai Musulmani, da essi riguardati come i più odiosi nemici, come quelli che si erano impadroniti della Palestina e del sepolcro di Gesù Cristo.

In quel tempo avvenne che quaranta Normanni ritornando dalla Terra Santa approdarono in un porto vicino a Salerno, per recarsi nella Puglia sul monte Gargano a venerare l’Arcangelo S. Michele, verso cui i Normanni nutrivano particolare divozione. Ivi strinsero amicizia con un certo Melo, potente e savio cittadino della città di Bari nel Napolitano. Innamoratisi quei Normanni dell’aria dolce, dell’amenità e delle ricchezze del suolo, dimandarono a Melo, che loro permettesse di stabilire la loro dimora colà vicino; la dimanda fu appagata.

In quel medesimo tempo avvenne eziandio che un gran numero di navi cariche di Saraceni venuti dall’Africa minacciavano di assalire la città di Salerno, metterla a sacco e condurre gli abitanti in ischiavitù, secondo l’uso di quei barbari. Grande fu la costernazione dei Salernitani all’udire quella notizia; e già parecchi parlavano di andar ad offrire grosse somme di danaro agli assalitori, purché si ritirassero. I quaranta Normanni accolsero quella notizia come favorevole occasione per fare prova del loro valore. Pertanto si presentarono intrepidi al principe della città, chiedendogli solo armi e cavalli. Con facilità ogni cosa fu concessa, ed essi non badando alloro piccolo numero piombano nottetempo sugli assalitori e ne fanno sì grande carneficina, che tutti quelli i quali riuscirono a salvarsi, si diedero a precipitosa fuga per ricoverarsi nelle barche. Pareva incredibile che quaranta soli guerrieri avessero riportato tale vittoria. I Salernitani pieni di gratitudine pei Normanni li proclamarono loro liberatori (1016).

Il principe di Salerno (che era Guaimaro III) si avvide tosto che, qualora possedesse uomini di quella fatta, non avrebbe più avuto nulla a temere dai suoi nemici, perciò offerse loro generose ricompense, purché rimanessero al suo servizio. I quaranta pellegrini non accettarono queste offerte, ma ritornati nel proprio paese raccontarono le loro prodezze, parlando con enfasi delle ricchezze dell’Italia e posero sott’occhio dei loro concittadini limoni, datteri, aranci ed altri frutti squisiti portati seco, e che non si raccolgono se non nei climi caldi del mezzodì dell’Italia.

A quelle notizie parecchie truppe di avventurieri si recarono presso i principi di Salerno e di Capua, ed il loro numero si accrebbe talmente nella Puglia, nella Calabria e nel ducato di Benevento, che in breve poterono impadronirsi di una piccola fortezza detta Aversa, situata a poca distanza dal Mediterraneo.

Il maneggio delle armi, l’obbedienza ai loro capi e la vita austera avevano reso i Normanni forti e valorosi in guerra; la qual cosa loro giovò per procacciarsi molti amici.



XVIII.
Papa Leone in mezzo ai Normanni (97).

(Dall’anno 1030 all’anno 1073).


È bene, miei cari amici, che vi faccia notare che mentre gl’imperatori di Germania si adoperavano per sedare le discordie dell’Italia Settentrionale, gl’imperatori di Costantinopoli non avevano rinunziato alle pretensioni sopra una parte della nostra Penisola. In forza di tali pretese continuavano ad esigere obbedienza e tributi dalle città dell’Italia Meridionale, in cui perciò mantenevano piccoli presidii o guarnigioni di soldati. Ma quei lontani padroni avari e deboli quali erano, unicamente miravano a smugnere gli Italiani d’ogni bene, senza darsi cura alcuna d’impedire che i Saraceni, gli Ungheri, i Normanni ed altri popoli feroci scorressero l’Italia e ne saccheggiassero i campi e le città. Per questo i Normanni non trovarono gravi ostacoli a fondare una novella monarchia nel modo che io sono per raccontarvi. ­

Fra i Normanni che vennero in Italia furonvi dieci fratelli, figliuoli di un certo Tancredi, barone d’Altavilla, che abitava in Francia in un piccolo castello di questo nome. I più celebri di quelli erano Guglielmo, soprannominato Braccio di ferro, a cagione della sua forza prodigiosa nei combattimenti, e Roberto, cognominato Guiscardo, ossia Intrepido. Questi valorosi avventurieri entrarono al servizio del principe di Salerno, che allora chiamavasi Guaimaro il Giovane, e s’impegnarono a secondarlo in tutte le imprese che volesse tentare contro ai suoi vicini.

A poca distanza da Salerno e sulle sponde del Mediterraneo era una città, detta Amalfi, i cui abitanti erano allora assai noti pel genio che avevano al commercio ed all’industria. Mentre l’Europa era quasi interamente occupata a respingere le invasioni dei barbari, gli Amalfitani avevano approfittato della situazione del loro porto per allestire vascelli, coi quali andavano a Costantinopoli, in Palestina e in Egitto a cangiare le biade, i vini, le tele d’Italia, coi preziosi tessuti dell’Asia, colle gemme della Persia e cogli aromi dell’Arabia. Quindi Amalfi conteneva a quel tempo una grande quantità d’oro, d’argento e di ricchezze d’ogni genere; le quali cose allettavano il principe di Salerno a tentare d’impadronirsene; i Normanni non aspettavano altro.

Quella impresa, miei cari giovani, era ingiustissima, perciocché l’assalire gente che vive in pace è un’azione da ladro e da assassino. Tuttavia quei cittadini acconsentirono di cedere una parte di ciò che possedevano all’avido Guaimaro, ed a conferirgli il titolo di duca d’Amalfi. Ma l’iniqua azione di quel principe non gli lasciò godere a lungo di quella fortuna che aveva tanto desiderata; poiché in capo a pochi mesi morì trafitto di pugnale in un agguato tesogli sulla riva di un fiume, che separa il territorio d’Amalfi da quello di Salerno.

La morte di Guaimaro lasciò i Normanni in libertà di adoperare a proprio talento la formidabile loro spada; e Guglielmo Braccio di ferro coi suoi fratelli e con altri in numero di trecento assalirono Manface (*) [(*) Leggi: Maniace], generale greco, che comandava nell’Italia Meridionale a nome del suo imperatore. Ad essi unironsi altri della medesima fatta, cioè vagabondi ed avventurieri, e scacciando Manface posero in fuga i Saraceni e si resero padroni della Puglia, ove posero soggiorno dodici capi normanni col titolo di conti, vale a dire compagni nel governo (Anno 1042).

Quell’accasamento dei Normanni nella Puglia è un fatto notabilissimo; perciocché allora appunto si tolse per sempre agl’imperatori d’Oriente quanto possedevano in Italia. I Normanni per altro, sebbene accusati presso ai loro conti, non potevano rinunziare alla passione di fare qua e là scorrerie, saccheggiare borghi, villaggi, chiese, monasteri e uccidere chiunque facesse loro resistenza.

In poco tempo le loro rapine divennero così spaventose, che papa Leone IX li fece avvisare di allontanarsi, sotto pena della scomunica. Sebbene quei barbari temessero assai la minaccia del Sommo Pontefice e gli effetti che ne sarebbero seguiti, tuttavia non vollero ubbidire; perciò il Papa supplicò l’imperatore Enrico III, che allora regnava in Germania, di spedirgli soldati della sua nazione, i quali godevano fama di forti guerrieri. Un grandissimo numero d’Italiani contadini ed artieri si unì a 500 tedeschi inviati dall’imperatore, ed in breve i Normanni si videro circondati da formidabile esercito.

Il Papa desideroso di allontanare quei masnadieri dall’Italia, volle in persona seguire l’esercito nel campo. I due eserciti non tardarono ad affrontarsi, e il 14 giugno 1053 si azzuffarono presso la città di Civitella, nella provincia di Capitanata. Ivi seguì una terribile battaglia, nella quale i Normanni sotto la condotta di Umfredo e Roberto Guiscardo d’Altavilla riuscirono vincitori; l’esercito del Papa fu sbaragliato, e lo stesso Pontefice fatto prigioniero.

Ma ammirate, vi prego, la riverenza che quegli uomini feroci e tremendi nella pugna avevano pel Capo del cristianesimo. Appena i capi ed i soldati si trovarono al cospetto del santo Padre, di cui poco prima avevano ucciso i difensori, pieni di venerazione corsero a baciargli i piedi, a chiedergli perdono e l’assoluzione della scomunica e degli altri peccati, pregandolo altresì di volerli accettare per suoi servitori.

Il Pontefice fu commosso da quei segni di rispetto e di pentimento, e perdonando di buon cuore tutto il male che avevano fatto, permise loro di stabilire dimora nella Puglia, a condizione che cessassero dai ladronecci e promettessero di essere per l’avvenire i difensori della Chiesa. A quella convenzione fra il Papa ed i Conti normanni si diede nome d’investitura, ossia dotazione, in forza di cui i prìncipi temporali riconoscevano i loro dominii come dati dal Papa.

Fra quelli che si erano segnalati in quella gran giornata fu Roberto Guiscardo, ossia l’Intrepido. Costui, oltre la bellezza del volto, la maestà dello sguardo ed una forza prodigiosa, aveva una voce così sonora, che nel più forte d’una battaglia, superato il fragor delle armi e le grida dei combattenti, facevasi udire da una parte all’altra dell’esercito. Dopo quella giornata i Normanni lo elessero a loro capo, ed i mercanti di Amalfi per cattivarsi l’amicizia di un vicino sì formidabile gli conferirono il titolo di duca della loro città a patto che il suo esercito non avesse a penetrare mai nelle mura di essa. Coll’aiuto dei loro vascelli Roberto s’impossessò di Salerno, poi del ducato di Benevento. Codesta conquista pose fine a quel principato che era stato fondato (dai Longobardi) cinquecento anni prima.

Intanto Guiscardo vedendo che i Saraceni, nemici dei cristiani, continuavano ad infestare i paesi occupati dai Normanni, volse le sue armi contro di loro, ne uccise molti e scacciò gli altri dalle coste della Puglia e della Sicilia. Per questo motivo il Papa Nicolò II, successore di Leone, estese maggiormente il dominio dei Normanni, dando loro anche l’isola di Sicilia.

Guiscardo ebbe un figliuolo, che fece educare negli studi, negli esercizi militari e in ogni virtù cristiana con grandissima cura. Queste virtù crebbero nel suo cuore col crescer dell’età, ed il giovane principe riuscì a guadagnarsi tanto bene l’affetto e la stima dei Normanni, che lo riconobbero per loro capo sotto al nome di Ruggero I. Egli governò il popolo saviamente in pace in modo così stabile che si può considerare come fondatore del regno delle Due Sicilie, quale si è per più secoli conservato, e che comprendeva quasi tutta l’Italia meridionale e l’isola di Sicilia.

Nell’armeria di Napoli si conserva ancora l’armatura di ferro di Guiscardo e del suo cavallo. Sembra impossibile che un corpo umano fosse capace di portare indosso tanto peso! I giovani di quei tempi avvezzandosi da fanciulli alla fatica crescevano uomini robusti, vestivano corazza, gambiere, elmi di acciaio e tuttavia facevano prodigi di destrezza in guerra e negli esercizi ginnastici e militari, che avevano luogo in tempo di pace.




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