S giovanni bosco


V. Regno di Romolo e di Tito Tazio



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V.
Regno di Romolo e di Tito Tazio.
Sebbene molti abitanti fossero corsi a popolare la nuova città, tuttavia per niun modo i paesi vicini volevano maritare le loro figliuole a quei malfattori. Perciò Romolo studiò di ottenere coll’inganno quello che non poteva per amicizia. Finse egli di voler celebrare in Roma una grande festa e la fece annunziare a suon di tromba, invitando i popoli vicini ad intervenirvi. Gli abitanti d’Alba e i Sabini accorsero in folla al promesso spettacolo; ma nei grandi spettacoli vi sono spesso grandi pericoli. Mentre stavano attenti a guardare i giuochi che si celebravano, i Romani ad un segno convenuto, tradita l’ospitalità, a mano armata piombarono addosso ai Sabini, e loro rapirono le fanciulle, malgrado la resistenza dei loro padri e dei loro fratelli. I Sabini erano a quei tempi i più forti e nel fatto dell’armi i più rinomati popoli d’Italia. Tito Tazio loro re era tenuto pel più valoroso guerriero del suo tempo. Questi altamente sdegnato per l’oltraggio fatto a’ suoi sudditi si pose alla testa di un formidabile esercito e mosse contro i Romani, i quali in breve furono costretti a rinchiudersi dentro le mura di Roma.

Ma difficilmente i nemici avrebbero potuto entrare in città se una donzella di nome Tarpea loro non ne avesse con perfidia aperta una porta. Quella donzella poi chiese ai Sabini, che in premio del suo tradimento le dessero ciò che ognuno di essi portava al braccio sinistro, volendo intendere un braccialetto d’oro o d’argento; ma fingendo queglino di non comprenderla, le gettarono tutti insieme addosso certi arnesi di ferro, grandi e rotondi che portavano eziandio al braccio sinistro, i quali si appellavano scudi. Tarpea morì in quel modo a piè di una rupe, che dal suo nome dicesi ancora oggidì Rupe Tarpea. Entrati così i Sabini in città, appiccaronvi tre sanguinose battaglie, ed i Romani sarebbero forse stati interamente distrutti, se le zitelle dei Sabini, divenute spose dei Romani, non si fossero colle loro preghiere interposte per far cessare le ostilità. Allora fu conchiusa la pace a queste condizioni: I Sabini lasciando la loro città detta Curi o Quiri verranno a porre le loro stanze in Roma; Tazio regnerà congiuntamente a Romolo sui due popoli uniti.

Infatto i Sabini vennero a stanziarsi sul colle Capitolino e sul Quirinale, e dal nome della loro antica città, Quiriti si chiamarono i due popoli in un solo allora costituiti.

Due re di eguale potere non possono alla lunga andare d’accordo; perciò trascorsi appena cinque anni, Tazio venne ucciso nell’occasione di una festa, non si sa da chi, ma probabilmente per una trama ordita da Romolo istesso.

Romolo rimasto solo divise tutto il popolo in tre tribù chiamate dei Ramnensi, Tiziensi e Luceri. Primeggiavano i Ramnensi perché compagni di Romolo e primi abitatori della città; essi dominarono soli sino alla fusione dei Romani coi Sabini, che formarono la seconda tribù, quella dei Tiziensi. La tribù dei Luceri, inferiore dapprima alle altre due, venne più tardi ad esse eguagliata in tutti i diritti. Ogni tribù comprendeva dieci Curie, ed ogni curia si suddivideva in dieci Decurie. Alla testa di ciascuna di queste divisioni Romolo aveva preposto capi, che perciò chiamavansi Tribuni, Curioni e Decurioni. Tutti questi capi formavano una nobiltà ereditaria, detta Patrizi, ossia Padri. Cento di questi patrizi furono scelti da Romolo per formare il Senato, ossia il Consiglio supremo dello Stato, a cui furono aggiunti cento Sabini, dopo che questi furono uniti coi Romani. Appellavansi senatori ossia vecchi, perché appunto vecchi per età, per esperienza e per senno. Eravi dunque un Senato, che proponeva le leggi e consigliava quanto fosse a farsi. Eravi l’assemblea composta dei soli patrizi, detta Curiata. Questa sanciva le leggi, decideva su tutte le proposte del Senato, e nominava i magistrati presi dal suo seno. Il restante popolo, cioè l’infima plebe, non aveva pressoché alcun diritto; era bensì convocato nel Foro, ma non dava quasi mai voto alcuno, solamente udiva ad esporre i partiti presi dai Patrizi, serviva alla milizia, esercitava le arti ed i mestieri. Romolo così ci insegnò, che ad occuparsi dello Stato sono inabili tutti coloro che o per età o per occupazione non hanno acquistata la scienza indispensabile nel governo dei popoli.

Siccome per professare con lode una scienza bisogna attendervi di proposito, così i patrizi dovevano occuparsi della sola scienza dello Stato ed erano proibiti di esercitare qualunque commercio od arte, ad eccezione dell’agricoltura.

Ogni cittadino era soldato; ma fra i cittadini Romolo ne prese cento di ciascuna tribù, i quali servivano a cavallo, perciò denominati Cavalieri. Il loro numero da trecento crebbe presto a mille ed ottocento, e col tempo formarono i cavalieri un ordine intermedio tra i patrizi ed il popolo. Altri del popolo servivano in qualità di littori. Dodici di questi, armati di un fascio di verghe con entrovi una scure, accompagnavano il Re, ne eseguivano i comandi e punivano i malfattori.

Romolo oltre avere ordinato lo Stato lo ampliò portando le armi contro i Veienti, popoli dell’Etruria. Li sconfisse e fermò con essi la pace obbligandoli a cedere sette dei loro borghi.

Stava egli un giorno passando in rivista le schiere, quando levossi un fiero temporale accompagnato da tenebre. Cessato questo, Romolo più non si vide. Vogliono alcuni che i senatori, non potendo più sopportare i modi altieri di Romolo lo tagliassero a pezzi e lo dispergessero in quella oscurità del temporale.

Dopo la morte di Romolo un uomo di nome Proculo si presentò al popolo, indi al Senato, dicendo che aveva veduto Romolo salire al cielo, il quale gli aveva detto che voleva essere adorato dai Romani sotto il nome di dio Quirino. Si prestò fede al racconto e gli fu innalzato un tempio sul vicino monte, detto d’allora in poi monte Quirinale, dove presentemente (20) sorge il palazzo dei Pontefici romani col medesimo nome appellato. La vita di Romolo deve ammaestrarci a non essere superbi e crudeli verso dei nostri simili, perché avvi un Dio giusto che a tempo e luogo rende il meritato castigo.


VI.
Il filosofo Pitagora (21).

(Circa il 712 avanti Cristo).


Al vedere i primi Romani tanto rozzi e feroci non pensatevi che così fossero tutti gli altri italiani. Imperciocchè eziandio in quei remoti tempi non pochi davansi con tutta sollecitudine alla coltura della terra, altri attendevano a diversi mestieri, e sappiamo che fin d’allora le arti erano in grandissimo fiore (*). [(*) PLUT. in Numa, cap. 15. - LIVIO, lib. 1. - POLIBIO, lib. II (22) (a)]..

Presso gli Etruschi sono particolarmente menzionati gli amatori della musica, detti trombettieri, gli orefici, i fabbri, i tintori, i calzolai, i cuoiai, i metallieri e vasellai. La pittura e l’architettura degli antichi offrono ancora oggidì monumenti degni di alta ammirazione.

Il credereste, o giovani miei, che in mezzo a tanto commercio le scienze fossero col più vivo ardore coltivate? Ci assicura la storia che molte scuole erano stabilite per l’istruzione dell’alta ed anche della bassa classe del popolo, perché fu sempre conosciuto che senza la coltura delle arti belle il commercio illanguidisce e vien meno.

Fra le scuole rinomate nell’antichità fu quella di Pitagora di Crotone, città dell’Italia Meridionale. Egli è soprannominato il filosofo, perché quelli che davansi allo studio prima di lui dicevansi sofi o sofisti ovvero sapienti. Pitagora cangiò quel pomposo nome in altro più modesto facendosi chiamare filosofo, vale a dire amante della sapienza. Egli amava veramente la sapienza, e dopo essersi profondamente istruito in tutte le scienze degli Etruschi e degli altri popoli più eruditi d’Italia, spinto da desiderio di ulteriore sapere, viaggiò in Grecia, in Egitto, nella Palestina e da per tutto trattò coi più dotti personaggi di quei tempi. Fattosi un nobile corredo di cognizioni, egli ritornò in patria dove aprì una scuola detta Itala che fu modello di tutte le altre nei tempi posteriori stabilite. Così la scienza, da lui acquistata con grande fatica, tornava anche utile al suo simile. Era solito di non accettare alcun allievo in iscuola se prima in confidenza non gli faceva una dichiarazione, ossia una specie di confessione delle azioni di tutta la vita. Dipoi lo sottometteva alla prova del silenzio che durava tre, quattro o cinque anni secondo che lo scorgeva più o meno inclinato a cianciare. Maestro ed allievi mettevano i loro beni in comune, e dormivano tutti in un vasto edifizio. La frugalità de’ loro pasti non ammetteva né carne, né pesce, né vino. La rigida temperanza, lo scarso sonno, la seria e continua occupazione li faceva maravigliosamente progredire nelle scienze. Tale austerità di vita era per altro temperata dal passeggio, dal canto, dal suono, dalla ginnastica e dalla lettura dei poeti, ossia da una specie di piccolo teatro. Voleva che Dio fosse il fondamento d’ogni sapere. Dio è un solo, loro diceva, né egli abita fuori de’ confini del mondo, come credono tal uni, ma tutto intiero risedendo in se stesso contempla nell’orbita universale tutte le generazioni. Egli è il centro di tutti i secoli; l’artefice di tutte le podestà e di tutte le opere; il principio di tutte le cose; il padre di tutti; il motore di tutte le sfere. (V. S. GIUSTINO, fil. e m.).

Voleva che tutti avessero la religione per guida. Chi avesse detto o fatto oltraggio a Dio od alla religione era immantinente cacciato dalla sua scuola. In questa maniera egli divenne capo di numerosissima scolaresca e poté introdurre certi metodi di disciplina nei maestri, di tanta moralità, puntualità e docilità negli alunni, che potrebbero in più cose proporsi per esemplari ai collegi dei nostri giorni.

Ma lo studio torna inutile ove si perda in minute sottigliezze, e non vada unito all’operosità. Pitagora mentre occupavasi a promuovere le scienze filosofiche e letterarie amministrava alte cariche a pubblico vantaggio. Egli si rese assai benemerito in una guerra mossa a’ suoi concittadini. Mercé l’opera e le sollecitudini di Pitagora fu impedito il saccheggio della città, e risparmiato molto sangue. Così il grande Pitagora nel mezzo dell’idolatria ravvisava quel divino ammaestramento per cui gli uomini devono amare la scienza e la virtù procurando nel tempo stesso di adoperarsi in quelle cose che possono tornare di giovamento al nostro simile.

Pitagora ebbe molti allievi degni di tanto maestro. Fra gli altri è celebre Archita tarantino o di Taranto. Questi erasi dato allo studio della geometria e riuscì un famoso matematico. Egli tenne per molti anni il supremo potere in sua patria e più volte guidò la milizia con gran successo in tempo di guerra. Seguendo i ricordi del suo maestro, raccomandava a tutti, ma specialmente a’ suoi allievi, la purezza dei costumi. Nulla avvi nell’uomo, loro diceva, più pernicioso e più micidiale che la disonestà. Da essa i giovani sono tratti alla rovina; da essa i tradimenti della patria, i sovvertimenti degli Stati, le pratiche segrete coi nemici; né havvi delitto cui non sia tratto chi è affetto da questo vizio. Quando l’uomo vi è immerso diviene incapace di far uso della ragione; e giunge a spegnere perfino il lume della mente. (V. CIC., De senect., 12).

Da tutte le parti si correva in folla al gran Pitagora, ed i più nobili personaggi ambivano divenire suoi discepoli.

Malgrado tante belle doti questo filosofo cadde nell’invidia di alcuni malevoli, i quali mossero contro di lui una persecuzione tale, che un giorno fra gli urli, gli schiamazzi ed i tumulti fu ucciso. Fatto abbominevole che ci dimostra come anche gli uomini più pii e benemeriti possono cadere vittima dei malvagi.
VII.
Numa Pompilio legislatore, secondo re di Roma (23).

(Dall’anno 712 all’anno 670 avanti Cristo).


Dopo la morte di Romolo i Sabini ed i Romani disputarono due anni per sapere chi avrebbero scelto per loro Re. Da ultimo prevalse il partito dei Sabini e fu eletto un uomo di loro nazione, conosciuto per la sua bontà e giustizia, chiamato Numa Pompilio. Egli frequentò la scuola di Pitagora e studiò a fondo la dottrina degli Etruschi, e da questa aveva imparato ad essere benefico e giusto verso di tutti; veniva perciò da tutti amato.

Era nel quarantesimo anno dell’età quando si presentarono due messaggeri ad offrirgli la dignità reale a nome del popolo e del Senato di Roma. Egli amava più di vivere col vecchio suo genitore, che addossarsi un carico tanto pericoloso; laonde rispose agli ambasciatori: «perché volete che io lasci mio padre e la mia casa per accettare una dignità che offre tanti pericoli? A me non piace la guerra poiché essa non reca agli uomini se non danno; io amo e rispetto gli Dei, che i Romani non conoscono e che dovrebbero temere ed onorare. Lasciatemi adunque vivere tranquillo nella mia dimora e tornatevene senza di me». Gli ambasciatori rinnovarono le istanze; e Numa accondiscese soltanto quando gli fu comandato da suo padre, cui egli prontamente obbediva. Fu grandissima la gioia in Roma allora che si seppe che Numa era re dei Romani (*).[(*) V. PLUTARCO, Vita di Numa].

Invece di tenere i Romani continuamente occupati in giuochi ed in esercizi militari, come aveva fatto Romolo, egli a tutti i suoi sudditi distribuì campi da coltivare, strumenti per lavorare la terra, perché l’agricoltura, ossia la coltivazione delle campagne deve essere riputata la prima di tutte le arti, come quella che procaccia il nutrimento agli uomini e contribuisce assai a renderli robusti ed onesti.

Numa a fine di governar bene il popolo fece molte leggi utilissime per l’amministrazione della giustizia e favorevoli alla religione. Qual degno allievo di Pitagora, egli era persuaso essere impossibile frenare i disordini senza di essa. A questo fine trasportò in Roma il culto di parecchie divinità venerate in altri paesi d’Italia.

Fece innalzare un tempio a Giano, le cui porte rimanevano sempre aperte in tempo di guerra, e solo chiudevansi quando vi era pace. Stabilì anche sacerdoti, cui diede l’incarico di servire agli dèi. Il primo di essi chiamavasi Pontefice Massimo; gli altri sacerdoti inferiori prendevano vari nomi secondo la parte del ministero che esercitavano.

Dicevansi Auguri quelli che studiavansi di presagire l’avvenire dal volo, dal canto e dal modo di mangiare degli uccelli. Se, per es., i polli trangugiavano con buon appetito il grano, annunziavano qualche lieto avvenimento; se rifiutavano di mangiare, presagivano un qualche disastro. Aruspici erano quelli che esaminavano attentamente le viscere delle vittime immolate nei sacrifizi, colla ridicola superstizione di poter prevedere da esse l’avvenire.

Numa istituì molte cose vantaggiose al popolo; e mentre inculcava a tutti di coltivare la terra, adoperavasi a promuovere il commercio, perfezionare le arti ed i mestieri. Approfittò delle scienze imparate, e l’anno che Romolo aveva solo diviso in dieci mesi, egli corresse, dividendolo in dodici, quasi nel modo che noi abbiamo presentemente. Fissò in ciascun mese giorni festivi, in cui il popolo doveva cessare da ogni lavoro per attendere alle cose spettanti la religione: Ad sacrificia diis offerenda.

Numa morì in età di anni 84 dopo aver fatto molto bene al suo popolo, e fu assai compianto, perché era giusto e benefico. Come egli aveva ordinato, il suo corpo fu deposto entro un’urna di pietra, ed a suo fianco in un altro sepolcro furono collocati 24 grossi libri, dove era scritta la storia delle cerimonie da lui istituite in onore degli dèi, ai quali aveva innalzati templi.

Di certo a voi rincrescerà, giovani cari, che un uomo così pio non abbia conosciuta la vera religione. E senza dubbio avendo egli avuto un cuore sì buono, che adorava e faceva adorare tante ridicole divinità, che cosa non avrebbe fatto quando avesse conosciuto il vero Dio Creatore e supremo padrone del cielo e della terra?


VIII.
Due re guerrieri (24).

(Dall’anno 670 all’anno 614 avanti Cristo).


La Provvidenza, che destinava Roma ad essere dominatrice di tutta l’Italia, dispose che al pacifico Numa succedessero l’un dopo l’altro due re coraggiosi e guerrieri, i quali dilatassero i confini della potenza romana sopra gli altri popoli italiani. A Numa succedette subito Tullo Ostilio, il cui regno fu segnalato particolarmente da una guerra sostenuta contro gli Albani. Dopo formidabili apparecchi da ambe le parti, si venne ad un fatto unico nella storia delle nazioni. Fu deciso che fossero scelti tre Romani e tre Albani a combattere insieme, con patto che il popolo di quelli, i quali riportassero vittoria, darebbe leggi all’altro. Erano in Roma tre giovani fratelli, robusti e guerrieri, detti i tre Orazi. Questi furono scelti dai Romani per la decisiva tenzone. Gli Albani dal canto loro scelsero altresì tre fratelli, detti i tre Curiazi, sicché erano tre fratelli contro tre fratelli.

Si combatté risolutamente. Due Orazii furono uccisi nel primo scontro, ed i tre Curiazi feriti. Allora l’Orazio superstite e tuttora illeso, fingendo di fuggire, assalì separatamente ed uccise l’uno dopo l’altro i Curiazi, che gli tenevano dietro. Per questo fatto gli Albani divennero sudditi dei Romani. Gli Albani non durarono a lungo nella giurata fede. Tullo avendo mossa guerra ai Fidenati, chiamò gli Albani in aiuto. Mezio Fufezio loro dittatore credette essere quella favorevole occasione per iscuotere il giogo romano, ed invece di tenere il luogo assegnato nella pugna, si ritirò aspettando di vedere da quale parte penderebbe la fortuna. Si accorse Tullo del tradimento; ma Affinché i suoi non si perdessero di animo, disse che Mezio ciò faceva con suo ordine per sorprendere i nemici alle spalle. In questo modo incoraggiati i Romani raddoppiarono i loro sforzi e furono vittoriosi. Allora Mezio si avanzò coi suoi per rallegrarsi con Tullo della vittoria. Tullo, senza mostrare di essersi accorto del tradimento, fece attorniare Mezio e i suoi Albani dell’esercito Romano. Quindi così parlò a Mezio: Poiché la tua fede fu dubbia tra i Romani e i Fidenati, il tuo corpo sia diviso a somiglianza di quella. E fattolo attaccare pei piedi a due carri rivolti a due parti opposte, fu da quelli squarciato.

Dopo di che Tullo ordinò la distruzione della città d’Alba, e ne diede incarico all’Orazio, che era rimasto superstite nella tenzone contro ai Curiazi. Giunto esso in quella sventurata città con buon nerbo di soldati romani, comandò a tutti gli abitanti di uscire dalle loro case. Usciti appena, i Romani spianarono al suolo la magnifica città d’Alba, detta la Lunga, perché posta lungo le radici di un monte e le rive di un lago detto oggidì lago Albano. Gli Albani furono condotti a Roma, dove per grazia loro si permise la costruzione di case sopra un colle detto monte Celio; e così la nazione degli Albani divenne romana.

Lo stesso Tullo, dopo avere intimata la guerra ai Fidenati, la mosse eziandio contro ai Veienti, popoli guerrieri abitanti non lungi da Roma, i quali dopo sanguinose battaglie dovettero anche arrendersi alla crescente potenza dei Romani. Questo re bellicoso, avendo trascurate le cerimonie religiose instituite da Numa, fu colpito da una malattia contagiosa, che allora serpeggiava nel Lazio, da cui tentò liberarsi con mezzi empi; ma perì nel suo palazzo colpito dal fulmine. Così credettero i Romani, persuasi che Dio punisce l’irreligione anche nei personaggi più elevati.

Anco Marzio, nipote di Numa, quarto re di Roma, diede principio al suo regno col ristabilire le sacre cerimonie ed il culto degli Dei, trascurato dal suo antecessore.

Malgrado l’amor suo per la pace, fu costretto a prendere le armi contro ai Latini i quali dimoravano a poca distanza da Roma. Costoro avevano fatto grave oltraggio ai Romani. Marzio per sostenere l’onore de’ suoi sudditi inviò alcuni araldi, cioè nunzi di guerra, detti feciali, a dichiararla ai rivali suoi. Giunti sulla frontiera del paese dei Latini, si fermarono e presero a gridare ad alta voce: «Udite, o Dei del cielo, della terra e degli inferni, noi vi chiamiamo in testimonio, che i Latini sono ingiusti; e siccome essi oltraggiarono il popolo romano, così il popolo romano e noi dichiariamo loro la guerra». Dette queste parole, gettarono sul territorio nemico alcune frecce, le cui punte erano state intrise di sangue, e si ritirarono senza che niuno osasse arrestarli. Questo modo di dichiarare la guerra fu di poi in uso presso gli antichi Romani.

Allestito colla massima prestezza un esercito, Anca attaccò i Latini, li sconfisse, e distrusse Pulini loro capitale con altre città. Ma seppe usare generosità verso i vinti, avendo ad essi soltanto imposto di venire ad abitare in Roma, dove permise loro di costruirsi case sopra un colle detto monte Aventino.

Egli non si contentò di aumentare colle sue conquiste il numero dei sudditi e di fortificare la città, ma fece altresì scavare alla foce del Tevere, cioè nel luogo in cui quel fiume si scarica nel Mediterraneo, un porto profondo per accogliervi le navi, che portassero in Roma le provvigioni necessarie alla sussistenza. Questo porto fu appellato Ostia da una parola latina che significa foce.

Anco Marzio dopo 24 anni di regno morì lasciando due figliuoletti, i quali finirono infelicemente, perché crebbero affidati ad un cattivo educatore di nome Lucumone e soprannominato Tarquinio.

IX.
Tarquinio Prisco e la prima invasione dei Galli (25).

(Dall’anno 614 all’anno 576 avanti Cristo).


Un cittadino di Corinto per nome Demarato era venuto a stabilirsi in Tarquinia, città dell’Etruria, donde Lucumone suo figliuolo recossi a Roma, cangiando il nome in quello di Tarquinio. Venutovi colle sue grandi ricchezze e con buon nUmero di servi, si acquistò riputazione di uomo magnifico e generoso. Anco Marzio, che lo amava assai, morendo lasciavalo tutore dei suoi figliuoletti; ma egli in cambio di farsi loro protettore, li mandò in villa e si fece nominar re dal Senato.

Tarquinio per guadagnarsi l’affetto de’ suoi sudditi si diede ad abbellire la città con portici, con un circo per gli spettacoli, e soprattutto la risanò dalle acque che stagnavano nel fondo delle valli interposte fra i vari colli. Per questo fine fece scavare canali sotterranei guerniti di muratura detti cloache, i quali dessero scolo alle acque paludose. Fa meraviglia che dopo 24 secoli duri ancora oggidì una parte del maggior canale, denominato cloaca massima. A cadeste smisurate spese provvide col bottino raccolto nelle varie guerre da lui condotte felicemente contro ai Sabini e contro ai Latini.

Nella prima guerra appunto ch’egli ebbe coi Sabini avvenne il celebre fatto di Atto Navio. Tarquinio volendo accrescere le centurie dei cavalieri per potere far fronte al nemico, Atto Navio, celebre augure di quel tempo, gli negava questo diritto. Egli sosteneva che Romolo, avendo ciò fatto dopo aver consultato gli àuguri, non si poteva senza il consenso dei medesimi introdurre alcuna innovazione. Sdegnato il re, a fine di porre ad esperimento il sapere dell’augure lo interrogò se poteva recarsi ad effetto quanto egli nella mente rivolgeva. Navio, dopo averne fatto prova cogli auguri, rispose, che certamente si poteva. Il re allora deridendolo gli disse come egli ravvolgeva in mente, se si potesse tagliare con un rasoio una cote (pietra da arrotare il ferro). Fallo pure, risposegli l’àugure: e vuolsi che l’abbia tagliata. Se ciò è vero, possiam credere che questa sia stata cosa concertata tra il re e l’indovino per conciliare agli auguri maggior credito presso il popolo.

Già da 30 e più anni Tarquinio regnava, quando i due figliuoli di Anco, male sofferendo di essere stati privati del regno dal loro tutore, pagarono due pastori perché andassero ad ucciderlo. Fingendo essi di aver querela fra loro si presentarono al re per ottenerne giustizia. Mentre il re badava ai discorsi dell’uno, l’altro colla scure lo percosse nel capo e l’uccise. Ma Tanaquilla sua moglie, fatte chiudere le porte del palazzo, diede voce che il re fosse solamente ferito ed incaricò frattanto il genero Servio Tullo di prendere in sua vece le redini del governo. Quando poi ne fu conosciuta la morte, Servio già regnava di fatto.

Sotto al regno di Tarquinio l’Italia fu invasa da un numero straordinario di barbari, che la riempierono di terrore. Erano costoro una colonia di quei Celti, che andarono ad abitare di là dalle Alpi, e diedero il nome di Gallia a quel vasto regno che oggidì appelliamo Francia. Questi Galli, soliti a vivere nelle foreste e nelle tane, erano selvaggi e feroci a segno, che con vittime umane facevano sacrifizi alle loro divinità; uccidevano con gioia i loro nemici e qualsiasi forestiero il quale caduto fosse nelle loro mani; e mangiandone con gusto la carne, ornavano coi teschi le capanne e l’entrata delle loro caverne.

La battaglia era per essi supremo diletto, e tanto erano bramosi di vincere l’avversario col solo valore personale, che spesse volte nel calore della mischia gittavano l’elmo e lo scudo, e combattevano nudi. Vivevano di frutta di alberi e di bestiame; non conoscevano diritto se non quello della forza; non avevano città; i luoghi delle loro adunanze erano aperte campagne od attendamenti. Questa era la nazione cui la sventurata Italia con immenso suo danno doveva dare ricetto.

Circa sei secoli avanti l’èra volgare questi barbari, pel loro gran numero, non avendo più di che campare nei propri paesi, stabilirono una migrazione verso l’Italia; vale a dire una parte di quella nazione risolse di trasferirsi dal proprio paese in Italia. Vecchi e fanciulli, mariti e mogli con equipaggio da guerra, con carri e bestiami in numero sterminato, guidati dal loro re di nome Belloveso, si avviarono verso le Alpi, che si drizzavano scoscese ed altissime ad impedire. loro il passo. Valicati con grandissimi sforzi questi alti monti, cominciarono ad impadronirsi del paese dei Taurini; quindi si spinsero innanzi fra i Liguri e più in là contro gli Etruschi. Costretti a combattere per salvare la vita propria e quella dei figliuoli e delle mogli, in battaglia parevano leoni. Spargendo da per tutto lo spavento, si fermarono nelle pianure poste tra il Ticino e l’Adda, occupando la sinistra del Po, dove fondarono la florida città di Milano (An. 600 av. C.).

Parecchie altre emigrazioni si fecero in Italia dai barbari provenienti dalla Gallia, i quali fermarono le loro stanze gli uni qua, gli altri là. I Boi ed i Lingoni, traversate le Alpi Pennine, cacciarono gli Etruschi e parte degli Umbri, occupando la destra del Po, e qualche tempo dopo vi fondarono Parma, Piacenza e Bologna. Così nello spazio di dugent’anni mezza la Gallia si versò nell’Italia e una gran parte di quel paese che si proponeva a tutte le altre nazioni per modello di civiltà, ricadde nella barbarie; la sola forza brutale teneva luogo della ragione e quindi i costumi decaddero nella condizione più deplorabile.

Tuttavia quei pochi Italiani, che sfuggirono alle spade nemiche e che rimasero confusi coi barbari, a poco a poco mansuefecero la rozzezza degli stranieri. Anzi per buona sorte una parte assai considerabile dell’Etruria si serbò illesa da questa peste. Laonde quando i Romani cominciarono a stendere sopra l’Italia le loro conquiste, gli Etruschi non mancavano di savie leggi, di florido commercio ed avevano già fatto gran progresso nelle arti e nelle scienze. La qual cosa, mentre ci mostra essere pericolosissimo il mescolamento dei buoni coi cattivi, ci ammaestra altresì che i buoni, fermi nella virtù, possono spargere ottimi principii di morale nei cuori rozzi e disordinati, e procurare gran bene alla società.


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