S giovanni bosco


X. Servio Tullo e Tarquinio il Superbo ultimi re di Roma



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X.
Servio Tullo e Tarquinio il Superbo ultimi re di Roma (26).

(Dall’anno 576 all’anno 500 avanti Cristo).


I figliuoli di Anco non poterono conseguire il trono come si aspettavano, ed in loro vece, come si disse, ottenne la corona Tullo, detto Servio, perché figliuolo di una serva. Servio divenuto re, attese con grande zelo a migliorare la sorte dei Romani. Ingrandì considerabilmente la città, riformò gravi abusi nella amministrazione della giustizia, togliendo al popolo i mezzi di sentenziare intorno agli affari di grande importanza a pluralità di voti. Perciocché secondo le leggi di quel tempo, avveniva che uomini rozzi e senza lettere proferivano sentenze complicatissime, e perciò spesso assolvevano quelli i quali dovevano condannarsi, e talora condannavano quelli che si dovevano assolvere. Egli stabilì parimenti una legge con cui obbligava ciascun cittadino a presentarsi ogni quinquennio nel campo di Marte a dare ragguaglio della propria famiglia e dei proprii beni. Con questo mezzo potevasi avere un giusto còmputo delle persone atte alle armi. Quel censimento, ossia registro di cittadini fu detto Lustro, la quale parola fu indi in poi usata ad esprimere lo spazio di cinque anni.

Quest’ottimo principe dopo parecchie guerre terminate gloriosamente, e dopo aver fatto gran bene a’ suoi sudditi, fu vittima di un tradimento tramatogli dalla snaturata sua figliuola Tullia, ed effettuato da Tarquinio di lei marito. Quella ambiziosa e malvagia donna volendo porre sul trono Tarquinio, procurò di guadagnarsi il favore del Senato, quindi fece barbaramente massacrare il vecchio re suo padre, per avere la soddisfazione di vedere il marito sul trono.

Tarquinio, soprannominato il Superbo a cagione della sua grande crudeltà e superbia, dopo questo orrendo assassinio regnò con una serie di misfatti. Egli si circondò di guardie, si stabilì solo giudice di tutti gli affari; perseguitò, esiliò, mise a morte parecchi senatori e molti fra i ricchi, confiscandone le sostanze. Faceva la guerra, la pace, le alleanze non consultandone punto il Senato. Ma senza saperlo egli aveva nella propria casa l’istrumento con cui la Provvidenza voleva punire tante scelleratezze.

A quel tempo viveva in Roma un giovanetto chiamato Giunio, di cui Tarquinio aveva fatto morire il padre e il fratello spogliandoli de’ loro beni. Giunio per isfuggire alla sventura de’ suoi parenti si finse pazzo, e gli fu dato il soprannome di Bruto, il che voleva dire bestia. Tarquinio, credendo aver nulla a temere dal povero Bruto, permise che si tenesse in sua casa per servire di trastullo ai fanciulli ed agli schiavi. Presto per altro vedrete, che sotto a quella vile apparenza stava nascosto un animo forte e coraggioso.

Intanto Tarquinio per cattivarsi in qualche maniera l’affetto dei Romani cominciò la costruzione di un magnifico tempio sul monte Tarpeo. Mentre se ne scavavano le fondamenta fu trovata la testa di Un romano detto Tolo, morto da alcuni anni, ed ivi sepolto; onde quel tempio ricevette il nome di Capitolium, vale a dire Testa di Tolo, che noi voltiamo in italiano Campidoglio. Lo stesso nome fu di poi dato a quel colle che ancora oggidì è così appellato. La fortezza del Campidoglio era fabbricata sulla sommità del colle, che trovandosi nel centro di Roma poteva servire a difesa della città. Dietro al Campidoglio era la rocca Tarpea, così detta da quella fanciulla che ai tempi di Romolo era ivi stata uccisa; da essa venivano precipitati i traditori della patria.

Tarquinio, tutto intento alle cose che solleticavano l’ambizione sua, trascurava indegnamente l’educazione di Sesto e di Arunte suoi figliuoli, i quali perciò divennero malvagi quanto il loro padre. Ma ricordatevi che spesso Iddio punisce nella vita presente i figli indisciplinati e la negligenza dei genitori. Il peggiore dei figli di Tarquinio era Sesto. Un giorno costui, avendo veduta una sua cugina di nome Lucrezia, ebbe la sfacciataggine di farle una grave ingiuria. Ella fece chiamare Collatino suo marito, il quale venne a lei con Bruto suo amico; espose loro l’insulto ricevuto e nell’eccesso del dolore, piangendo e chiedendo che le fosse riparato l’onore, quasi fuor di senno, si trafisse con un pugnale e morì.

Allora Bruto, deposta l’apparente stupidità, fece giurare al padre ad al marito di Lucrezia di sterminare Tarquinio e tutta la sua famiglia. Prese quindi le armi, si diede a correre per Roma gridando: «Chi ama la patria a me si unisca per iscacciare Tarquinio e gl’infami suoi figli, autori di tanti mali». La sollevazione fu generale, e Tarquinio, il quale allora trovavasi all’assedio di Ardea, città del Lazio, si avviò tosto verso di Roma, che gli chiuse le porte in faccia. A quel punto scorgendo inutile ogni ulteriore tentativo, risolvette di prendere la fuga per ricoverarsi colla sua famiglia presso agli Etruschi.

Ecco, miei cari, una storia la quale deve insegnarci che i malvagi sono ordinariamente puniti del male che fanno, e tanto più severamente quanto più sono ricchi e potenti.

Sette re governarono Roma nello spazio di 240 anni; l’ultimo fu Tarquinio detto il Superbo, per distinguerlo dall’altro Tarquinio soprannominato Prisco ovvero il Vecchio.



XI.
Abolizione del Governo Regio e stabilimento della Repubblica (27).
Di mano in mano che i Romani crescevano in numero ed in potenza, estendevano il loro dominio sopra molti paesi d’Italia, di modo che i popoli vicini o spontaneamente o per forza eransi con loro uniti. Ma il dominio dei Romani si estendeva solo sopra una piccola parte della nostra penisola. Il resto dell’Italia era in pace. Si coltivavano le campagne, promuovevasi il commercio e l’industria: i popoli erano governati da un capo a cui davano il nome di Re. Erano guerrieri, coraggiosi, forti, e combattevano con incredibile ardore. Da ciò potete facilmente comprendere quali grandi fatiche e quanto tempo i Romani abbiano dovuto impiegare per rendersi padroni di tutto questo paese.

Intanto cacciato Tarquinio, dichiarato reo di tradimento chiunque ardisse proteggerne il ritorno, i Romani decisero di governarsi a repubblica, la quale forma di governo differiva solo dal monarchico in questo, che i re governavano a vita, laddove nella repubblica erano eletti due magistrati con autorità suprema, la quale poteva conservarsi solamente un anno. I due magistrati prendevano il nome di Consoli, da una parola latina che significa provvedere; poiché il loro ufficio era appunto di provvedere alla salute della repubblica, parola che significa gli affari pubblici o comuni.

Giunio Bruto e Collatino, autori della cacciata di Tarquinio, furono i primi ad essere investiti della nuova carica consolare; ma Collatino, come parente dei Tarquinii, divenne sospetto al popolo e dovette presto rinunciare il consolato a Valerio Pubblicola, uomo tenuto da tutti in grandissimo credito.
XII.
Guerre dopo l’espulsione di Tarquinio Porsenna a Roma (28). (Dall’anno 506 all’anno 493 avanti Cristo).

I Tarquinii avendo invano provato la via delle negozi azioni per risalire sul trono, tentarono una nuova rivoluzione in Roma. I due figliuoli di Bruto, degeneri dalla virtù paterna, si lasciarono adescare a quella rivolta. Ma scoperti e condotti in Senato, furono condannati dallo stesso Giunio Bruto, il quale, obbligato dalle leggi, dovette con grande suo dolore non solo condannare nel capo gli amati suoi due figliuoli, ma essere ancora spettatore del loro supplizio.

Tarquinio vedendosi fallito questo colpo suscitò altri popoli ad aiutarlo, e si venne ad un’accanita battaglia. Bruto avendo ravvisato nelle schiere nemiche Arunte, secondo figlio di Tarquinio, si gittò contro di lui; lo stesso fece Arunte contro di Bruto. Si scontrarono insieme con tal impeto, che ambedue caddero morti nel medesimo istante l’un dall’altro trafitti. Tutti piansero Bruto e la morte di lui fu riguardata come Una calamità pubblica.

Tarquinio respinto dai Romani eccitò l’Italia tutta contro di Roma. Porsenna, re di Chiusi, città dell’Etruria, fu il primo a porgergli aiuto, non perché amasse l’iniquo Tarquinio, ma per avere occasione di muovere guerra ai Romani, i quali divenendo ogni giorno più potenti destavano gelosia e timore. Porsenna pertanto con un esercito numeroso e munito di ogni sorta di macchine da guerra andò ad assediare la città di Roma, persuaso di poterne costringere i cittadini ad assoggettarsi alle sue armi. L’entusiasmo della libertà spinse i Romani ad atti eroici. lo ne accennerò i principali.

Trovavasi sul Tevere un ponticello di legno, pel quale era facile penetrare nella città. Porsenna se ne accorse, e spedì tosto un gran numero di soldati per impadronirsene. Quelli che stavano alla guardia di quel ponte fuggirono, e soli rimasero a contrastarne il passo tre Romani, uno dei quali appellavasi Orazio soprannominato Coclite, perché era cieco di un occhio. Questo valoroso cittadino quando vide gli stranieri avanzarsi sopra il ponte ordinò ai due compagni di tagliarlo prontamente dietro di lui, ed egli solo rimase dall’altra parte a combattere contro un intero esercito. Come poi si accorse che era tagliato il ponte, si gettò nel Tevere e fra i dardi dei maravigliati nemici passò nuotando all’altra sponda.

Stupì Porsenna a tanto coraggio, e risolvette di soggiogare i Romani colla fame, vale a dire facendo sì che niuna sorta di commestibili potesse entrare in Roma. Per la qual cosa la scarsezza de’ cibi si fece in breve sentire a segno, che un cittadino di nome Muzio deliberò di sacrificare la propria vita per liberare la patria. Si travestì da soldato etrusco e si avanzò fino alla tenda del re per ucciderlo, ma invece di esso ammazzò il segretario, credendo che fosse il re.

Arrestato e condotto alla presenza di Porsenna, ed interrogato che cosa lo avesse indotto a tanto misfatto, rispose: «Il desiderio di salvare la mia patria; e sappi che trecento giovani romani giurarono al pari di me di dare la morte al tiranno» . Ciò detto corse a porre la sua destra sopra un ardente fuoco, lasciando che si abbruciasse per castigare quella mano, la quale erasi ingannata nell’uccidere il segretario in luogo del re. Porsenna stupefatto a tale eroismo, rimandò Muzio libero a Roma, il quale in memoria di quella coraggiosa azione ricevette il soprannome di Scevola, cioè monco.

Fu pure in questa occasione che si segnalò una giovine romana di nome Clelia. Costei essendo stata data in ostaggio ai nemici, ardì gettarsi a nuoto nel Tevere e tornarsi fra i suoi.

Porsenna, ammirando l’eroico valore di tanti prodi, amò meglio essere loro alleato che nemico. Conchiuse perciò un trattato di pace co’ Romani e visse di poi con loro in buon accordo, e sempre n’ebbe segni di benevolenza. Infatti suo figlio Arunte, essendo stato sconfitto presso la città di Aricia, le sue genti, fuggiasche vennero con bontà accolte dai Romani.

Porsenna ritornato nella città di Chiusi occupò il resto de’ suoi giorni a far fiorire le scienze e le arti ne’ suoi Stati. Tarquinio vedendosi da Porsenna abbandonato andò a cercare contro i Romani nuovi nemici, i quali non ebbero miglior riuscita dei primi. Finalmente scorgendo inutile ogni tentativo, si ritirò a Cuma, ove morì di rammarico.

In quel frattempo cessò di vivere Valerio soprannominato Pubblicola, cioè amico del popolo. Egli morì così povero, che si dovette fargli la sepoltura a spese del pubblico. Tale deve essere il pensiero di chi amministra le cose pubbliche: pensare a dirigere con rettitudine e con giustizia, e non ad accumular ricchezze.

XIII.
Contese tra i patrizi ed i plebei. - I dittatori e i tribuni del popolo (29).

(Dall’anno 493 all’anno 488 avanti Cristo).


Roma divenuta repubblica, lungi dal provare la felicità di un buon governo, si accorse che in luogo di un padrone doveva sopportarne molti, i quali la facevano da tiranni. Si professavano amici del popolo, ma giunti al potere non badavano che a farsi ricchi e ad opprimere il povero popolo, il quale, carico di debiti, vedeva i suoi campi, le sue case e la sua propria vita posta in vendita. Spesso benemeriti cittadini erano maltrattati, imprigionati, e talvolta battuti fino a sangue. Le quali prepotenze, usate da chi vantavasi benefattore dell’umanità, cagionarono un malcontento generale, e in breve si venne ad un’aperta ribellione.

I Latini, che erano già stati vinti da Anco Marzio, approfittando delle intestine discordie dei Romani, non vollero più riconoscere l’autorità di Roma, e contro a quella impugnarono le armi. Laonde il Senato fu costretto di stabilire una nuova carica, appellata dittatura, da una parola latina che significa dettare; perché appunto il dittatore aveva diritto di dettar leggi. Esso era eletto dai due consoli e la sua carica non poteva protrarsi oltre a sei mesi.

Primo dittatore fu Larzio, il quale, conchiusa una tregua coi Latini, riuscì colla sua prudenza ad acquietare la plebe e ristabilire l’unione dei patrizi, che erano i più ricchi, coi plebei, ossia col basso popolo.

L’anno seguente i Latini presero le armi, e perciò i Romani dovettero eleggere un secondo dittatore. Fu eletto Aulo Postumio, che marciò contro ai Latini, ed incontratili presso al lago Regillo, ora detto lago di Castiglione, pienamente li sconfisse.

Qui devo farvi notare come, uscito appena Larzio di carica, le oppressioni ricominciarono così violente, che alzatosi un grido d’indignazione, la maggior parte della plebe uscì di Roma e si ritirò sopra un vicino monte. Di là fece sapere ai senatori, che non voleva più stare soggetta a padroni più spie­tati dello stesso Tarquinio.

I patrizi rimasti quasi soli in città si trovarono in grave affanno; perché non avevano più chi li servisse e chi li difendesse. Anche la plebe si trovò pentita, perciocché priva di danaro fu ben presto ridotta a grave miseria. Intanto i nemici di Roma si apparecchiavano ad assalirla profittando delle discordi e dei cittadini. In questa occasione un cittadino, detto Menenio Agrippa, da tutti amato per le sue belle maniere di trattare, si avanzò in mezzo ai ribelli, ed osservando tutta quella moltitudine esacerbata, pensò di parlare con un apologo, ovvero una bella similitudine. «Un tempo, egli disse, le membra dell’uomo si ribellarono al ventre e ricusarono di servirlo. I piedi non volevano più camminare; le mani non più operare; la bocca rifiutava ogni sorta di cibo; né i denti volevano masticare. Che avvenne? Non ricevendo più un membro conforto dall’altro, il ventre giunse presto ad un’estrema debolezza, e gli altri membri egualmente. Allora questi conobbero che, mentre esse servivano al ventre, da lui ricevevano la vita; perciò tra loro si riconciliarono. Simile relazione è tra voi ed il Senato; voi siete le membra, egli è il ventre; voi dovete somministrare l’alimento: ma questo stesso alimento è quello stesso che dà pure a voi la vita. Non può l’uno sussistere senza l’altro.

Il popolo fece vivi applausi alle parole di Agrippa, e risolvè di rientrare in città a patto che fossero aboliti i debiti e messi fuori di carcere i debitori. Inoltre per avere un appoggio contro la tirannia dei grandi, volle che si stabilissero fra’ plebei ogni anno alcuni magistrati i quali dovessero sostenere gl’interessi del popolo, e questi furono detti tribuni della plebe. Due soli tribuni della plebe ebbero i Romani nei primi tempi: ma il loro numero fu più innanzi portato fino a dieci. Essi duravano in carica un anno; la loro persona era inviolabile, ed avevano il potere di modificare le deliberazioni dei consoli e del Senato, di approvare o rigettare qualunque legge.

In quel tempo medesimo furono instituiti gli edili, i quali, siccome a’ nostri dì, erano incaricati della sicurezza delle case pubbliche e private, dovevano altresì presiedere alla fabbricazione degli edifizi pubblici, e invigilare alla polizia della città.

In questa maniera Roma mitigando la sua ferocia raccoglieva dagli Etruschi e da altre nazioni vicine il mezzo di promuovere le scienze e le arti in modo, che gli uni potessero attendere al commercio ed alla coltura dei campi, gli altri pensare all’amministrazione dello Stato e alla difesa della patria.

XIV.
Coriolano e Tullo Azio (30).

(Dall’anno 488 all’anno 485 avanti Cristo).


Dove noi vediamo ora la campagna di Roma, era anticamente il paese dei Volsci, popoli che furono molto tempo formidabili ai Romani, e fecero loro toccare molte sconfitte. In una di quelle battaglie si segnalò un cittadino romano di nome Marzio. Vedendo questi che i Romani erano quasi interamente disfatti, con ammira bile prodezza si oppose al nerbo dell’esercito dei Volsci, li sconfisse e s’impadronì di Corioli loro capitale, onde gli venne dato il glorioso nome di Coriolano.

Era egli un giovane amante della patria, e segnatamente conosciuto pel grande rispetto che nutriva per sua madre. Tuttavia dopo molti servigi renduti ai Romani cadde loro in sospetto, quasi che ambisse di essere fatto re; fu perciò costretto ad uscire di Roma per andarsene in esilio. Il dolore che provò per l’ingratitudine de’ suoi concittadini, il rincrescimento di dover vivere lontano dalla madre, dalla moglie e da’ suoi figliuoli lo posero talmente fuori di sé, che andò ad unirsi coi Volsci a danno di Roma. Giunto ad Anzio, città principale dei Volsci, andò direttamente alla casa di Azio Tullo loro re. Col capo coperto, senza parlare si pose a sedere nel luogo più onorevole della casa. I domestici corsero ad informare il loro padrone, il quale da alto stupore compreso si avanzò, chiedendo allo straniero: «Chi sei? Allora Coriolano si scoprì e disse: Io sono Coriolano, oggetto del tuo odio e della tua stima. Bandito da Roma, mi offro a te; e se la tua repubblica non vuole servirsi di me, io ti abbandono la mia vita.  Non temere, rispose Tullo stringendogli la mano, la tua confidenza è pegno di sicurezza: nel darti a noi ci hai dato più di quello che ci togliesti». Condottolo poscia nel palazzo, concertarono insieme per allestire un esercito, e marciare tosto contro Roma.

Alla nuova che Coriolano veniva alla volta di Roma in capo ad un forte esercito di Volsci, il terrore invase l’animo di tutti i cittadini; né eravi generale tanto abile che potesse stare a fronte di Coriolano. Per la qual cosa senza neppur pensare a difendersi gli mandarono l’una dopo l’altra diverse ambasciate, le quali non ebbero che una fiera e minacciosa ripulsa. Allora pensarono ad uno spediente, che riuscì bene ai Romani e funesto a Coriolano. Gl’inviarono Veturia sua madre, sua moglie co’ suoi due figliuoletti, persuasi che l’amore materno e l’affetto di marito e di padre ne avrebbero placato lo sdegno. Coriolano al vedere la madre accompagnata dalla moglie e da’ suoi due figliuoli non poté più contenere le interne commozioni, e corse loro incontro per abbracciarli. Allora Veturia fermatasi gli disse: «Prima di abbracciarti, dimmi se io son venuta a stringere al seno un figlio, oppure un nemico; sono io schiava o libera in questi tuoi alloggiamenti? Forse il destino mi riserbò ad una sì lunga vecchiaia per vedermi un figlio prima esiliato, poi nemico? Come mai ti regge l’animo di mettere a sangue e a fuoco quel terreno stesso, in cui fosti allevato e nutrito? Me infelice! Se io non ti avessi generato, Roma non sarebbe saccheggiata: se io non fossi madre, tua moglie e i tuoi figliuoli non sarebbero schiavi».

A queste parole Coriolano profondamente commosso colle lagrime agli occhi corre, abbraccia sua madre, sua moglie ed i suoi figliuoli, dicendo: «Andate, voi salvate Roma, ma perdete il figlio. Prevedo la mia sorte, ciò non ostante appago i vostri desideri e non sia mai che una madre abbia pianto invano ai piedi di un suo figliuolo». Al ritorno di Veturia, Roma si colmò di gioia e fu fatta una gran festa.

Coriolano dovette pagar cara la condiscendenza usata verso la patria. Imperciocchè i Volsci, sdegnati di vedersi costretti ad abbandonare una vittoria, che riputavasi certa, si volsero contro di lui e lo uccisero.

Questo fatto c’insegna che dobbiamo guardarci dalla collera e dal desiderio della vendetta, perché queste due passioni ci conducono spesso in tali cimenti, da cui non è più possibile ritrarre il piede se non con gravissimo danno.

Liberati i Romani da tale pericolo, i cittadini ricominciarono a suscitare tumulti fra loro stessi, chiedendo che si approvasse una legge, la quale aveva per iscopo di scompartire i beni della repubblica fra il popolo. Questa legge dicevasi agraria dalla parola ager che vuol dire campagna. Essa era stata proposta da un console chiamato Spurio Cassio, il quale sperava di guadagnarsi per simil modo il favore della plebe e giungere al supremo potere. Ma invece egli fu accusato come traditore della patria, e in pena del suo delitto venne precipitato dalla rupe Tarpea. Affinché cessassero i tumulti fu creato dittatore un uomo molto virtuoso chiamato Cincinnato, che era applicato alla coltivazione della campagna. Egli riuscì colla prudenza e colla mansuetudine a conciliare fra loro i diversi partiti.

XV.
I Trecento Fabii. - Cincinnato l’Agricoltore (31).

(Dall’anno 485 all’anno 449 avanti Cristo).


Nel raccontare le segnalate vittorie dei Romani non devo tacervi le sconfitte che talvolta loro toccavano; giacché avevano a combattere contro a repubbliche italiane governate da uomini peritissimi nell’arte, militare. In una occasione che i Veienti marciavano minacciosi sopra Roma, una famiglia detta Fabia, composta di trecento uomini, pensò di affrontare quegli assalitori. Ma dovettero soccombere allo smoderato loro coraggio; perciocché, colti dai nemici in una imboscata, quei prodi perirono fino ad uno.

I Volsci e gli Equi, popoli essi pure non molto distanti da Roma, vennero a dichiarare la guerra ai Romani. Un console di nome Minuzio, andò loro incontro con poderoso esercito, combatté con valore, ma si lasciò rinchiudere coi suoi fra due colli, donde non si poteva più uscire che dalla parte occupata dal nemico; né era via di mezzo tra il morire di fame o rimaner trucidati. Questa trista novella pose Roma nella più grave costernazione; né trovavasi chi ardisse portare soccorso al pericolante esercito.

Fu allora che nuovamente si sovvennero del povero ma valoroso Cincinnato, il quale, come vi ho sopra raccontato, per lo addietro aveva già prestati grandi servizi alla patria. Tosto il Senato gli mandò ambasciatori a pregarlo di accettare la dittatura e venire a salvare la patria. Egli fu trovato nel campo che arava; e lasciati non senza qualche rincrescimento i lavori della campagna, prese le insegne della dignità offertagli. Partendo disse a sua moglie: «Cara Attilia, io temo che i nostri campi siano in quest’anno mal coltivati per la mia assenza».

Giunto a Roma, allestì colla massima prestezza un esercito, e quasi prima che i nemici potessero avvedersene, piombò loro addosso. Assalirli, sbaragliarli, vincerli e farli passare sotto il giogo fu una cosa sola. Voi mi dimanderete: Che cosa vuol dire passare sotto al giogo? Passare sotto al giogo era una pena umiliantissima, la quale si dava a quei prigionieri di guerra che avessero vilmente cedute le armi. Si obbligavano a passare a testa nuda sotto ad un’asta sostenuta alle estremità da due altre elevate a maniera di porta.

I Romani riconoscenti a Cincinnato, che aveva salvato la patria e l’esercito, gli concedettero la gloria del trionfo, la qual cerimonia compievasi con una solennità straordinaria, che voglio ingegnarmi di descrivervi.

Era il trionfo l’onore più grande che si potesse dare ad un generale. Montava egli sopra un carro magnifico tirato da quattro cavalli, vestito di porpora ricamata d’oro, tenendo in mano uno scettro d’avorio, e cinto il capo di una corona d’alloro. Dinanzi al carro camminavano i prigionieri vinti in guerra, ed alcuni soldati portavano le spoglie dei vinti con grandi cartelli, su cui erano scritti i nomi delle città e dei popoli conquistati. Da ogni parte i fanciulli bruciavano preziosi profumi; il popolo affollato, i senatori, i sacerdoti, e tutti gli altri magistrati vestiti delle insegne della loro dignità, fra i più clamorosi applausi accompagnavano il trionfatore.

Ma in mezzo a tanta gloria sul carro dello stesso trionfatore stava assiso un povero schiavo, il quale a bassa e cupa voce andava ripetendo: Ricordati che sei uomo. Ciò era per avvisarlo che nulla sono le grandezze del mondo senza la virtù, e che si guardasse bene dal lasciarsi entrare nell’animo punto d’orgoglio tra l’ebbrezza dell’onore.

Cincinnato riportò due volte l’onore del trionfo, perché due volte liberò la patria. Nondimeno, terminata la guerra, fuggiva i pubblici applausi, e ritornava immediatamente alla vita privata in seno alla propria famiglia. Condusse onoratamente il resto de’ suoi giorni, ascrivendosi a vera gloria il coltivare i suoi terreni e guadagnarsi il pane col sudore della fronte.

Sedate le guerre esterne, per alcuni disordini, che spesso avvenivano nell’amministrare la giustizia, nacquero dissensioni interne. I Romani di quei tempi avevano bensì alcuni decreti, alcune costituzioni, ma non avendo alcuna legge, spesso la giustizia dipendeva dal capriccio di chi giudicava. Pertanto, secondo una proposta fatta da Caio Terentillo Arsa, furono scelti tre nobili personaggi i quali viaggiarono nelle principali città d’Italia e della Grecia a fine di raccogliere quanto di meglio si fosse potuto trovare negli usi e nelle leggi dei vari paesi.

Ritornati quei tre personaggi a Roma fu affidato a dieci magistrati l’incarico di esaminare quanto essi avevano raccolto, e ridurlo a forma di codice civile che fecero scolpire sopra dodici tavole di bronzo. Quei magistrati dovevano durare un anno nella loro carica, e si dissero decemviri dal loro numero. Ma questo magistrato avendo abusato del suo potere, ed essendo degenerato in tirannide, dopo due anni fu abolito.

Un tristo avvenimento diede motivo a tale abolizione. Era in Roma una virtuosa fanciulla di nome Virginia. Il padre suo Virginio centurione l’avea promessa sposa ad Icilio fervido difensore della plebe.

Capo dei decemviri in quei dì era Appio, il quale abusando del supremo potere voleva di Virginia fare una schiava, che era quanto dire: comperar quella giovane come si comprerebbe un giumento in pubblico mercato.

Virginio, avvertito della cosa, venne dall’esercito al foro per difendere la figlia. Perorò, pregò, pianse, implorò l’aiuto del popolo, addusse testimonianze dello stato libero della donzella. Ma Appio volendola assolutamente sua schiava ordinò che a viva forza venisse strappata dalle braccia del padre. Al certo disonore della figlia, Virginio preferisce il sacrifizio degli affetti paterni: dà di piglio ad un coltello e qual forsennato lo immerge nel di lei seno. Di poi imprecando al tiranno e col ferro ancor grondante del sangue dell’innocente torna al campo. A quella vista l’esercito si solleva. Tutta Roma è in rivolta. Per decreto del Senato furono aboliti i decemviri, e ripristinati i consoli. Appio per sottrarsi al supplizio della scure si diè disperatamente la morte.

Poco dopo furono suscitate nuove discordie in Roma. Un certo Licinio, tribuno della plebe, aveva proposto due leggi: l’una che i plebei potessero anche contrarre matrimonio con le famiglie dei patrizi, e l’altra che i plebei potessero anche pervenire al Consolato; I Senatori approvarono la prima, e non volevano approvare la seconda. Ma appressandosi poi alcuni nemici, il popolo non voleva combattere. Allora il Senato per appagare il popolo propose la creazione di tre tribuni militari, da prendersi fra’ patrizi e fra’ plebei, i quali avrebbero tenuto il luogo dei consoli. Questi tribuni crebbero poi fino al numero di otto. In appresso ai tribuni militari sottentrarono nuovamente i consoli. Siccome poi i loro affari andavano ogni giorno crescendo, e perciò essi non potevano più attendere ad ogni loro uffizio, si pensò di togliere loro una parte delle cure e di affidarla ad altri magistrati, che vennero creati allora sotto il nome di censori.




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