S giovanni bosco



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EPOCA SECONDA

L’ITALIA CRISTIANA

DAL PRINCIPIO DELL’ERA VOLGARE

FINO ALLA CADUTA DEL ROMANO IMPERO

IN OCCIDENTE NEL 476

I.
L’impero d’Augusto (47).

(Dall’anno 1 all’anno 13 dell’Era volgare).


Finora abbiamo considerato l’Italia nelle sue relazioni colla Repubblica Romana, e veduto questa potenza sorgere da umili principii, crescere a segno che ai tempi di cui qui intendo di parlarvi era divenuta padrona di quasi tutto il mondo in quei tempi conosciuto.

Voglio per altro che voi, miei cari amici, notiate lo straordinario ingrandimento di questa potenza non essere da attribuire ai soli Romani, perché noi potemmo osservare come la maggior parte di quei prodi, i quali si segnalarono nella gloria Romana, erano corsi a Roma dalle varie parti d’Italia. Laonde Roma si potrebbe meglio appellare centro ove concorsero gli eroi, anziché esserne la patria.

Ora imprendiamo la storia del Romano Impero, che vi tornerà forse più piacevole di quanto abbiamo finora narrato, sia perché abbiamo più certe e più copiose notizie, sia perché gli avvenimenti sono più dilettevoli e di maggior importanza.

Primo imperatore dei Romani, come vi ho già raccontato, fu Cesare Ottaviano, il quale, ritornato a Roma vittorioso di Antonio, fu accolto con indicibile applauso dal popolo e dal Senato. Andò egli stesso a chiudere le porte del tempio di Giano, per mostrare che tutte le guerre erano terminate. Egli fu soprannominato Augusto, vale, a dire grande, ed agosto fu in suo onore appellato il mese dell’anno che prima dicevasi sestile. Gli furono decretati i titoli d’imperatore, di console, di tribuno, di censore, e di padre della patria. Il popolo voleva obbligarlo ad accettare la dittatura perpetua, ma egli il pregò a non volergli addossare tale dignità, e proibì rigorosamente che lo chiamassero Dittatore.

Da quel tempo Augusto si applicò unicamente al bene dei suoi sudditi, e mostrossi cortese ed affabile verso ai suoi stessi nemici. Un giorno egli trovò un suo nipote, che leggeva un volume di Cicerone, di cui egli aveva permessa la morte. Il fanciullo, sorpreso, tentava di coprir il libro colla veste. Augusto glielo tolse di mano, e, lettane qualche pagina, lo restituì al nipote dicendo: Costui, figliuol mio, fu un uomo dotto e amante della patria.

Spesso camminava a piedi per Roma, trattava familiarmente con tutti, e accoglieva con bontà chi a lui ricorreva. Ad Un Uomo che voleva porgergli una supplica tremava tanto la mano, che ora la offeriva, ora la ritirava. Di che Augusto scherzando gli disse: Pensi tu forse di dare una moneta ad un elefante? Questo diceva alludendo agli elefanti, che si facevano vedere al popolo, i quali raccoglievano essi medesimi colla tremenda loro proboscide il danaro che davasi per vederli. Indi subito accolse la supplica e favorì la dimanda.

Un vecchio militare citato in giudizio correva grave pericolo della vita; per la qual cosa si recò da Augusto, Affinché lo aiutasse. Egli tosto scelse un buon avvocato, perché lo difendesse. Allora il soldato scoprendosi le cicatrici esclamò: «Quando tu eri nel pericolo alla battaglia d’Azio, non mandai uno a fare le mie veci, ma io stesso combattei per difendere la tua vita». Arrossì Augusto, e prese egli stesso la difesa dell’accusato con tanto calore, che il medesimo andonne assolto.

Passeggiando un giorno per Roma incontrò un artefice, che aveva ammaestrato un corvo a dire: Ti saluto, o Cesare vincitore, imperatore. Augusto maravigliatosene, diede una grossa somma per avere quell’ingegnoso uccello.

Un altro artefice istruì egli pure un corvo a proferire lo stesso saluto, ma quell’uccello, simile a certi giovani che si annoiano dello studio, non faceva alcun profitto. Laonde il suo maestro andava dicendo: Ho perduto il tempo e la fatica. Tuttavia gli riuscì finalmente di fargli apprendere il desiderato saluto. Come Cesare lo intese, disse: Ne ho abbastanza di questi salutatori in casa. Allora il corvo aggiunse le parole colle quali il padrone soleva lagnarsi: Ho perduto il tempo e la fatica. Al che Augusto si mise a ridere e comprò l’uccello a gran prezzo.

Molti altri fatterelli si raccontano di Augusto. Non v’incresca che ve ne narri ancora alcuno. Un maestro di grammatica faceva versi in onore di lui, e quando quel principe usciva di palazzo glieli offriva, sperandone qualche ricompensa, ma sempre invano. Augusto vedendo ripetersi più volte la cosa medesima, scrisse egli eziandio alcuni versi in greco e li diede a quel maestro. Egli nel leggerli cominciò a fame le meraviglie colla voce, col volto e col gesto. Quindi avvicinandosi al cocchio di Augusto, trasse fuori i pochi danari che aveva nella borsa per dadi al principe; e disse che avrebbe dato di più, se più avesse avuto. Alle quali parole tutti si misero a ridere, ed Augusto, chiamato il maestro, gli fece contare una competente somma di danaro.

Egli andava guardingo nel contrarre amicizie, ma, contrattene, le conservava fedelmente. Suo intimo amico fu un cavaliere romano appellato Mecenate, il quale colla prudenza e col consiglio impedì ad Augusto di fare male ad altri, ed eccitollo a fare molte buone opere. Fortunato colui che ha un buon amico e che sa valersi dei suoi consigli! Augusto lo esperimentò. In un trasporto di zelo un giorno era in procinto di proferire una sentenza, con cui parecchi cittadini erano condannati a morte. Era presente Mecenate, il quale tentò di avvicinarsi a lui per fargli cangiar proposito; ma non potendosegli avvicinare per la grande quantità di gente, scrisse in un biglietto: Alzati, o manigoldo, e lo gettò ad Augusto. Questi appena lo ebbe letto, subito si alzò e niuno più fu condannato.

Mentre si applicava al bene dei suoi sudditi con liberalità e con giustizia, spendeva assai tempo nello studio. Dormiva meno di sette ore; e se avveniva che si svegliasse in quel frattempo, chiamava alcuni giovanetti, che gli facessero lettura finché ripigliasse sonno.

Egli promosse talmente le scienze e le arti, che non mai fiorirono cotanto presso i Romani, quanto sotto al suo regno, che perciò venne chiamato il secolo di Augusto ed anche l’età d’oro. Fra la schiera degli uomini letterati, che si resero celebri in quella epoca, risplendettero in modo particolare Catullo, Tibullo, Virgilio, Orazio, Ovidio e Fedro nella poesia. Nella storia Giulio Cesare (da noi sopra ricordato), Sallustio, T. Livio, Cornelio Nipote. Nell’arte oratoria M. T. Cicerone e Q. Ortensio. Nella filosofia lo stesso Cicerone (che se ne può dire il padre presso i Romani). Poco progredirono i Romani nella scultura, pittura e musica, ma a perfezione recarono l’architettura, nella quale in modo speciale s’illustrò Vitruvio.

Quantunque Augusto si dedicasse unicamente a formare la felicità dei suoi popoli, non pensatevi tuttavia che fosse amato da tutti. Ci sono uomini tanto scellerati da attentare alla vita di quelli medesimi che l’hanno data a loro stessi. Fu pertanto tramata una congiura, che tendeva a dare la morte all’imperatore, e ne era capo un certo Cinna, già condannato a morte e graziato dallo stesso Augusto.

L’imperatore, essendone stato informato, mandò a chiamar Cinna, e trattolo nella camera più segreta di sua casa, se lo fece sedere accanto. Quindi fattosi promettere che non lo avrebbe interrotto, gli raccontò ad una ad una le grazie ed i favori che gli aveva fatti. E tu, o Cinna, sai tutto questo, conchiuse, e vuoi assassinarmi? A questi detti Cinna esclamò, che non aveva mai immaginato tanta scelleratezza. Tu non attendi la parola, ripigliò Augusto: eravamo intesi che non m’avresti interrotto. Sì, te lo ripeto, tu vuoi assassinarmi.

Dopo di ciò gli espose tutte le circostanze, gli nominò i complici della congiura; al quale racconto Cinna restò sì ripieno di terrore, che non poteva più proferire sillaba. Augusto gli fece i più vivi ed affettuosi rimproveri della sua perfidia, e conchiuse dicendo: «O Cinna, ti perdono la vita una seconda volta; te la concedetti quando eri mio dichiarato nemico, te la concedo ancora oggi, che vuoi renderti traditore e parricida. D’ora innanzi siamo amici, e porgiamo al popolo romano un grande spettacolo, io quello della generosità, tu quello della riconoscenza».

Augusto volle inoltre che Cinna fosse fatto Console per l’anno seguente, e fu ben ricambiato della sua clemenza. Cinna divenne l’amico più fedele del suo principe; né più si ordirono cospirazioni contro di lui.

Intorno a quel tempo andò a Roma Archelao per succedere a suo padre Erode il Grande nel regno della Giudea, e l’ottenne. Ma invece di essere il padre del popolo, come dev’essere un buon sovrano, ne divenne l’oppressore; perciò fu citato a Roma. Convinto dei delitti imputati, fu mandato in esilio a Vienna nel Delfinato. Allora il regno di Archelao fu ridotto ad una provincia romana, governata dagli uffiziali dell’imperatore.

Così lo scettro, ossia la sovrana autorità presso al popolo giudaico cominciò a cessare di pieno diritto, quando Erode il Grande fu creato re dai Romani; cessò di fatto quando la Giudea fu fatta provincia romana ed unita alla Siria; le quali cose, secondo la profezia di Giacobbe, dovevano avverarsi alla venuta del Salvatore (*).

[(*) IOSEPH., Antiq. iud., lib. XVII. - Gen., c. 49, v. 10]



II.
Avversità e morte di Augusto (48).
Augusto prima di finire i suoi giorni ebbe a sopportare gravissime avversità. Molti parenti e molti amici da lui colmati di favori lo pagarono della più mostruosa ingratitudine; ed è una gran ferita al cuore il vederci mal corrisposti da quelli a cui abbiamo fatti benefizi.

Inoltre fra le stesse vittorie riportate dai suoi generali ebbe una terribile perdita cagionata da un capitano chiamato Varo. Quest’uomo, ambizioso ed ingordo di danaro, era stato spedito al governo della Germania. I Germani, nome che significa uomini di guerra, abitavano la parte orientale dell’Europa dal Reno (fiume che nasce dal monte S. Gottardo e va a scaricarsi nel mare Germanico) fino ad un altro fiume detto Vistola, che trae sorgente nell’Austria e versa le sue acque nel Baltico. Nel paese compreso tra questi due fiumi eravi un’immensa foresta, nota sotto il nome di Ercinia o Selva Nera, a cagione della sua estensione e densità.

Varo non potendo facilmente ammassare tesori presso quei poveri popoli, aggravavali colle più dure imposizioni. finché un capo di quei barbari, chiamato Arminio, uomo feroce, ma di gran coraggio, tirò in agguato tutto l’esercito romano. Egli si finse amico di Varo, e colla promessa di dargli in mano certi tesori, cui diceva sapere egli solo dove fossero nascosti, lo attirò colle sue legioni in mezzo alla Selva Nera.

Colà il romano esercito nel buio della notte venne improvvisamente assalito dai Germani, e senza nemmeno poter fare uso delle armi, fu quasi interamente trucidato. Allora Arminio condannò ad orrendi supplizi quei soldati che erano caduti vivi nelle sue mani, e per eccesso di barbarie, proibì, sotto severe pene, che si desse loro sepoltura.

Sparsa quella notizia, tutta l’Italia fu presa dal maggiore spavento, e ognuno temeva che i barbari si movessero verso l’Italia innanzi che alcuno potesse loro opporsi. Roma trovavasi sommamente costernata, e lo stesso Augusto profondamente addolorato si vestì a lutto, si lasciò crescere la barba ed i capelli, il che era segno del maggior cordoglio che dare potesse un Romano, e qua e là correndo come un forsennato, esclamava: Varo, rendimi le mie legioni!

Finalmente Augusto, indebolito dall’età, dalle fatiche e dal dolore cagionatogli dalla sconfitta della Selva Nera, abbandonò Roma per ritirarsi in campagna e godere alquanto di quiete. L’ultimo giorno di sua vita chiese uno specchio, fecesi acconciare i capelli, e, sontuosamente vestito, si volse a’ suoi amici dicendo: «Non ho fatto bene la mia parte?». Eglino risposero che sì. «Or bene, ripigliò Augusto, la commedia è finita, battete le mani». Così morì in Nola, città della Terra di Lavoro, in età di anni 76, nel 57 del suo regno, 13 di Gesù Cristo.

Questo imperatore fu nei primi anni del suo regno crudele, ma le buone azioni fatte negli anni posteriori lo fecero avere in grandissima venerazione presso a’ suoi sudditi anche dopo morte.


III.
Crudeltà di Tiberio e di Caligola (49).

(Dall’anno 14 all’anno 41 dell’Era volgare).


Al pacifico Augusto succedette nell’Impero il crudele Tiberio. Costui seppe nascondere la ferocia del suo cuore finché giunse al potere. Quando poi se ne trovò in possesso, non vi fu crudeltà che, non commettesse. Un generale di nome Germanico, nipote di Tiberio, combatteva vittoriosamente i Germani, e Tiberio, geloso della gloria di lui, lo richiamò a Roma sotto colore di fargli godere la gloria del trionfo. La grazia di Germanico, la sua affabilità, le replicate vittorie da lui riportate, lo avevano reso l’idolo del popolo Romano.

Di che Tiberio vieppiù ingelosito, mandollo nelle parti d’Oriente contro ai Parti, perché sedasse nuovi tumulti, ma intanto erasi accordato segretamente con Pisone e con sua moglie Plancina, Affinché avvelenassero al più presto possibile quell’uomo valoroso. Egli pertanto dopo aver riportate molte vittorie, cadde ammalato nella città di Antiochia, e in breve si accorse che gli era stato dato il veleno. Tutto il popolo Romano pianse amaramente questo giovane eroe. Le ceneri di lui vennero portate a Roma, e quando furono deposte nel sepolcro di Augusto, si fece all’improvviso un cupo silenzio ed i magistrati, i soldati ed il popolo si posero a gridare, che la repubblica era perduta.

Seiano, prefetto della guardia pretoriana, cioè di quei soldati che erano in.caricati d’invigilare alla sicurezza dell’Imperatore e della città, e che erano in grande parte strumento delle sue crudeltà, cadde in sospetto a Tiberio, il quale lo fece subito condannare a morte insieme colla moglie, coi figliuoli e cogli amici.

Un detto, un gesto, uno sguardo, che non avesse piaciuto all’imperatore, erano delitti di morte. Ed annoiato si a poco a poco di quelle condanne particolari, ordinò che fosse fatto morire senz’altro processo chiunque venisse accusato. Allora tutta l’Italia fu piena di lamenti; in ogni parte regnava il terrore. Ma quel Dio, che veglia sopra il genere umano, può, quando vuole, mettere fine alle scelleratezze degli uomini. Per darsi in preda ad ogni sorta di stravizi, negli ultimi anni di vita Tiberio ritirossi nell’isola di Capri, dove alfine, indebolito dalle sue infami dissolutezze, cadde in un totale sfinimento di forze. Allora un certo Macrone, abituato nei delitti, gli gettò un guanciale sulla faccia, e lo soffocò nell’anno 37 dell’éra volgare.

Nell’anno diciottesimo del regno di Tiberio, mentre in Italia avevano luogo tante inaudite barbarie, compievasi nella Palestina un avvenimento che doveva far cangiar faccia all’universo. Gesù Cristo Salvatore del mondo, dopo aver predicato il Vangelo fino all’età di trentatre anni, con una morte volontaria e con una risurrezione gloriosa consumò l’opera della Redenzione del genere umano. Pilato, governatore della Giudea, riferì a Tiberio la storia della passione, del risorgimento e dei miracoli di Gesù Cristo. Tiberio ne informò il Senato e propose che Gesù Cristo fosse dai Romani posto nel novero degli Dei. Ma il Signore del cielo e della terra non doveva essere confuso colle ridicole divinità dei pagani. Il Senato, offeso perché non era stato il primo a fare tale proposta, rigettò la dimanda del principe.

I tristi esempi di Tiberio furono seguiti da Caligola, di lui successore. Esso era figliuolo del prode Germanico, ma privo affatto delle virtù del padre. Non havvi stranezza, che non abbia fatto, non delitto, in cui non siasi bestialmente immerso. Ascoltate, ma con ribrezzo.

Nelle sue stravaganze volle che gli fossero resi onori divini; perciò diede a se stesso il nome di varie divinità. Ora prendeva il nome di Marte, ora di Giove, di Giunone, di Venere, e vestito degli abiti di queste divinità riceveva adorazioni e sacrifizi. Si fece fabbricare un tempio, in cui fu riposta una sua statua d’oro magnificamente vestita. Dinanzi a quella dovevano prostrarsi i suoi adoratori; gran numero di sacerdoti ogni giorno a lei sacrificavano. La dignità di pontefice era tra le prime di Roma; ed egli volle che sua moglie e di poi il suo cavallo fossero sommi pontefici. Voi fate senza dubbio le maraviglie di tante sciocchezze, pur vedrete ancora di peggio.

Per quel suo cavallo nudriva una passione sì strana, che ordinò gli fosse costrutta una stalla di avorio ed Una mangiatoia d’oro, e fosse coperto con una gualdrappa (ossia coperta) di porpora, e portasse appeso al collo un monile di gemme preziose. Affinché poi nessuno strepito turbasse il sonno di quella bestia prediletta, faceva stare guardie tutta la notte intorno alla stalla. Aveva destinati parecchi servi e domestici, i quali erano incaricati di provvedere quanto poteva occorrere al magnifico Incitato; questo era il nome dato dall’Imperatore a quell’animale. Qualunque personaggio fosse andato a far visita ad Incitato era lautamente trattato.

Trattenete il riso, se potete! Un giorno l’imperatore invitò quel cavallo alla sua tavola, ove era apparecchiato un sontuoso pranzo; gli fece porre innanzi dell’orzo dorato, che probabilmente non gli piacque tanto quanto il solito cibo; gli versò egli stesso il vino in una coppa d’oro, nella quale bevette lo stesso imperatore. Quel pazzo principe aveva stabilito di conferire a quella bestia la dignità di console, se fosse vissuto quanto ei sperava.

Le follie, le stravaganze conducono naturalmente alla crudeltà, e Caligola fu altresì uno dei principi più crudeli. Non avendo più danaro da scialacquare, egli metteva a morte i più onesti cittadini, a fine di appropriarsi i loro beni. né potendo tuttavia saziarsi del sangue umano, andava bestialmente esclamando: «Ah! vorrei che il popolo romano avesse una sola testa per tagliarla con un colpo solo». Io passo in silenzio molte altre scelleratezze di questo principe, perché fanno troppo ribrezzo. Vi basti il dire, che egli non aveva più un amico; perciò da tutti abborrito, fu da un certo Cherea trucidato in una solennità, mentre andava al teatro, nell’anno 41, dopo quattro anni di regno.

Così morirono Tiberio e Caligola, principi da tutti maledetti, perché i malvagi sono temuti in vita, ma odiati dopo morte.

IV.
I primi Martiri (50)

(Dall’anno 42 all’anno 68 dopo Cristo).


A Caligola succedette nell’impero Claudio, primo di questo nome. Egli era poco atto al governo; tuttavia in principio del suo regno mandò ad effetto alcune belle opere, per cui fece concepire al popolo romano buona speranza di sé; ma lasciandosi di poi guidare da cattivi consiglieri, commise molti delitti. Quindi sul finire della sua vita a danno di suo figliuolo volle adottare Nerone e stabilirlo successore al trono.

Se io volessi raccontarvi ad una ad una le nefandità di questi imperatori, o meglio di questi oppressori del genere umano, dovrei ripetervi quanto di più empio e di più crudele si trova nella storia delle altre nazioni. Era pertanto di somma necessità che venisse un Maestro, il quale colla santità della dottrina insegnasse ai regnanti il modo di comandare, ed ai sudditi quello di ubbidire. Questo fece la religione di Gesù Cristo. Richiamatevi qui a memoria la famosa visione di Nabucodonosor, con cui Dio rivelava a quel principe quattro grandi monarchie, delle quali l’ultima doveva superare tutte le altre in grandezza e magnificenza: questa era il Romano impero.

Ma una piccola monarchia, raffigurata in un sassolino, doveva atterrare questa grande potenza, e sola estendere le Sue conquiste in tutto il mondo per durare in eterno. Questa monarchia eterna da fondarsi sopra le rovine delle quattro antecedenti, era la religione Cattolica, la quale doveva dilatarsi per tutto il mondo in modo, che la città di Roma, già capitale del Romano impero, diventasse gloriosa sede del Vicario di Gesù Cristo, del Sommo Pontefice.

Primo a portare questa santa religione in Italia fu san Pietro Principe degli Apostoli, stabilito Capo della Chiesa dallo stesso nostro Salvatore. Egli, che aveva già tenuto sette anni la sede apostolica nella città di Antiochia, l’anno quarantesimo secondo dell’Era Cristiana venne a stabilirsi in Roma, città in quel tempo data in preda ad ogni sorta di vizi, perciò niente affatto disposta a ricevere una religione che è tutta virtù e santità. Tuttavia Dio, che è padrone del Cuore degli uomini, fece sì, che il Vangelo fosse ricevuto in molti paesi d’Italia, in Roma e nella stessa corte dell’Imperatore. Ma una furiosa persecuzione mossa dall’imperatore Nerone insorse contro alla novella Religione.

Quel principe aveva già fatto condannare a morte migliaia di cittadini. Britannico suo fratello, Agrippina sua madre, Ottavia sua moglie, il dotto filosofo Seneca di lui maestro furono vittima di quel mostro di crudeltà. Egli fece appiccare il fuoco a parecchi quartieri della città, vietando severamente che l’incendio si smorzasse; e mentre globi di fiamme e di fumo s’innalzavano da tutte parti, Nerone vestito da commediante salì sopra una torre, d’onde vedendo tutta Roma in combustione, se ne stava cantando sulla cetra l’incendio di Troia, cioè quel famoso avvenimento di cui si parla nella Storia Greca.

Accortosi poi Nerone che quel disastro metteva il colmo all’indignazione dei Romani contro di lui, ne riversò tutta la colpa sopra i Cristiani. Non potrei qui ridirvi, o giovani cari, a quali spaventosi supplizi i generosi Cristiani siano stati condannati. Alcuni, coperti di pelli di bestia, erano divorati dai cani; altri, vestiti di tuniche intonacate di pece e di zolfo, erano accesi a maniera di fiaccole per far lume durante la notte; non pochi crocifissi da carnefici, altri lapidati dalla plebaglia.

Tali tormenti, non è vero? atterriscono gli uomini più intrepidi; pure tanto coraggio Iddio infondeva nel Cuore di quei Cristiani, che si videro deboli donne, vecchi ed anche teneri fanciulli andare incontro alle torture, impazienti di morire per la fede. A coloro che sopportarono così tremendi supplizi fu dato il nome di Martiri, che vuol dire testimoni, perché davano la vita per testificare in mezzo ai tormenti la divinità della Religione di Gesù Cristo.

S. Pietro, primo Papa, subì il martirio in questa prima persecuzione, e fu crocifisso col capo all’ingiù sul monte Gianicolo. Il giorno stesso s. Paolo condotto tre miglia al di là di Roma nel luogo detto Acque Salvie, ebbe troncata la testa.

Ora che vi ho raccontato i tormenti da Nerone fatti patire ai martiri della fede, voglio narrarvi quale fine abbia fatto egli stesso. Dopo aver esercitato ogni sorta di crudeltà, si mise a fare il cocchiere, vale a dire a guidare cavalli nei giuochi del circo e ad esercitare il basso mestiere di commediante, e giunse al punto da porsi a capo di una squadra di libertini, colla quale nottetempo assaliva e maltrattava i passeggieri.

Tante follie unite a tante crudeltà gli attirarono addosso l’odio e il disprezzo di tutti, sicché fu proclamato nella Spagna un altro imperatore di nome Galba. A siffatta notizia Nerone dalla paura parve tratto fuori di senno; gettò a terra con violenza la tavola sopra cui pranzava, ruppe in mille pezzi due vasi di cristallo di gran prezzo, e dava della testa nelle muraglie. Frattanto gli viene recata la nuova che il Senato lo aveva condannato a morte. Allora fra l’oscurità della notte esce dal palazzo, corre di porta in porta ad implorare soccorso da’ suoi amici. Ma tutti lo fuggono, perché i malvagi hanno solo cattivi amici, che li abbandonano appena si accorgono. delle loro sventure.

Tuttavia tentando di salvarsi in qualche modo, monta sopra un cavallo, si fa coprire con un vile mantello, e fra le maledizioni passa sconosciuto in mezzo a’ suoi nemici, che gli gridano morte da tutte parti. Oppresso nella fuga da ardente sete, e costretto a bere acqua limacciosa nel cavo della mano esclamò: Sono questi i liquori di Nerone!

Giunto alla casa villereccia di un suo servo, di nome Faonte, tentò di nascondersi. Ma subito si accorse che il suo asilo era circondato dai soldati, che lo cercavano a morte. A quel punto non sapendo più a quale partito appigliarsi, a tutta voce si mise a gridare: Non è egli peccato che un sì buon cantante perisca? Ciò detto, per iscansare il pubblico supplizio, si trapassò da se stesso con un pugnale la gola. Fine degna di questo mostro, che in soli tredici anni di regno trovò modo di far inorridire del suo nome i tiranni medesimi. Nerone morì in età d’anni trentuno, il giorno stesso in cui alcuni anni prima aveva fatto uccidere sua madre. Egli fu l’ultimo imperatore della famiglia di Augusto. (Anno di Cristo 68).




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