S giovanni bosco


V. Imperatori proclamati dalle legioni e la battaglia di Bebriaco



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V.
Imperatori proclamati dalle legioni e la battaglia di Bebriaco (51).

(Dall’anno 68 all’anno 70 dopo Cristo).

Galba erasi già avanzato nelle Gallie, quando eziandio il Senato ed il popolo lo proclamarono imperatore. A questa notizia egli venne a Roma, e al proprio nome aggiunse il titolo di Cesare, col quale si contraddistingueva il capo dell’impero. Ma poté soltanto tenere il trono otto mesi, dopo cui gli fu troncata la testa in una sommossa, eccitata per alcune sue crudeltà da un certo Ottone, compagno de’ misfatti di Nerone, che allora ambiva l’impero.

Ottone, innalzato all’impero da una sedizione militare, non poté acquistarsi l’amore dei suoi sudditi, perocchè troppo erano conosciuti i disordini della sua giovinezza. Di più l’esercito Romano, che militava nella Germania, scelse un suo generale di nome Vitelli o e lo creò imperatore: cosicché si videro due imperatori ad un tempo contendersi il supremo dominio. I partiti erano ambidue terribilmente forti e da numerose soldatesche sostenuti. Quando Ottone udì che Vitellio si avanzava verso Roma colle sue genti gli andò incontro e scontrollo a Bebriaco ora Cividale fra Mantova e Cremona. Sì grande era nei due eserciti il desiderio di combattere, che in tre giorni seguirono tre grandi battaglie sempre vantaggiose ad Ottone, finché Valente e Cecina, famosi generali di Vitellio, unendo insieme le loro forze, diedero nel tempo stesso un generale attacco alle schiere nemiche. L’esercito di Ottone fu disfatto, ed egli stesso, degno seguace di Nerone, si ritirò nella sua tenda, ove disperatosi diè la morte. Così Vitellio senza essere contrastato poté entrare trionfalmente in Roma e salire sul trono de’ Cesari.

Dopo il fatto d’armi di Bebriaco, mentre una parte dell’esercito di Vitellio doveva partirsi da Torino e ricondursi in Bretagna, accadde che un insolente soldato Batavo prese ad insultare con parole ingiuriose un artefice torinese per cagione del prezzo di un suo lavorìo. Un Britanno alloggiato in casa dell’artefice ne prese vivamente la difesa. In breve si aumentò il numero dei tumultuanti, e i Britanni (Inglesi) prendendo le parti del loro legionario, venivano già alle mani coi Batavi, che difendevano il loro milite, quando due coorti pretoriane si imposero prendendo le parti dei Britanni. Parecchi rimasero uccisi da ambe le parti; e i Batavi vedendosi costretti a partirsene appiccarono il fuoco alla città di Torino, e in gran parte la incenerirono. Ciò non ostante i Torinesi continuarono a mantenersi fedeli ai Romani imperatori.

VI.
Vespasiano e la distruzione di Gerusalemme (52).

(Dall’anno 68 all’anno 70 dopo Cristo).


Fate pur le meraviglie; or giungiamo finalmente alla storia di un principe, che posso accertarvi non essere stato il flagello dell’umanità; anzi tanto Vespasiano, quanto suo figliuolo Tito procurarono tempi più tranquilli all’Italia. Vespasiano fino dai tempi di Nerone era stato spedito in Palestina per acquietare alcuni tumulti insorti tra i Giudei, i quali, ora per un motivo, ora per un altro ribellavansi ai Romani. Da abile generale egli aveva già soggiogato colle armi tutto quel paese; e solo rimanevagli ad impadronirsi di Gerusalemme, quando gli eserciti romani di Oriente, sdegnosi di servire ad un crapulone quale era Vitellio, proclamarono imperatore Vespasiano, universalmente conosciuto per uomo coraggioso, abilissimo in fatto d’armi, affabile e cortese con tutti, perciò amato da tutti. Riconosciuto imperatore, Vespasiano con una parte dei suoi si partì alla volta dell’Italia. Quando fu annunziato a Vitellio che i soldati di Vespasiano erano già penetrati nel campo di Marte ed in Roma stessa, egli non pensò che a mangiare e a bere fino ad ubriacarsi.

Mentre da tutte parti risuonavano grida di evviva pel novello imperatore, lo stupido Vitellio si andava trascinando come poteva meglio per le sale del suo palazzo gridando ad alta voce: Soccorso! soccorso! ma niuno gli rispondeva, perché gli stessi infimi servi erano fuggiti. Egli erasi appena appiattato in un canile, quando i soldati che andavano in cerca di lui, trattolo fuori del suo nascondiglio, lo misero a morte.

Divenuto così Vespasiano tranquillo possessore dell’Impero adoperò tutte le sue sollecitudini per riparare i gravi disordini introdotti da tanti malvagi imperatori che lo precedettero. Scacciò dal Senato quelli che lo disonoravano coi loro vizi; riformò vari abusi nei tribunali e nella milizia.

Egli aborriva sommamente la mollezza. Un giovane eletto ad una carica, portato si tutto profumato per ringraziamelo, l’Imperatore sapendo che colui il quale si occupa della coltura del corpo, per lo più manca delle virtù dello spirito, lo rimproverò dicendogli: Invece di profumi, amerei meglio che mandaste odore di aglio. Voleva con ciò dire, che egli amava più un giovane rozzo e incivile, che un vano damerino; e lo rivocò dall’impiego.

Quando Vespasiano lasciò Gerusalemme ne affidò l’assedio al valoroso Tito suo figliuolo. Quella infelice nazione resistette al nemico fino agli estremi. I Giudei, persuasi essere quello il secolo, nel quale secondo le profezie dovesse venire il Messia, e credendo eziandio che il regno di quell’aspettato Liberatore fosse temporale, si ostinavano a difendersi contro ai Romani. Inoltre prestavano fede a vari impostori, che di quando in quando si andavano spacciando pel Messia. Quando udivano a dire, che il Messia era già venuto, e che era Gesù Cristo da loro condannato e messo in croce, vieppiù si sdegnavano. Intanto crescevano i disordini tra di essi e le dissensioni erano fomentate dalle varie sétte, e da quegli impostori che si qualificavano pel Salvatore. Nelle ostilità antecedenti erano già periti trecentomila Giudei, e nel lungo assedio per ferro, fuoco e fame ne morirono più di un milione.

Tito finalmente espugnò Gerusalemme, mandò a vendere centomila Ebrei come schiavi; la città ed il tempio furono arsi e distrutti. Così fu avverata la minaccia dal Salvatore fatta alcuni anni prima ai depravati Ebrei quando disse: Di Gerusalemme e del magnifico suo tempio non rimarrà pietra su pietra. Molte curiose particolarità di questo memorabile avvenimento avete già letto nella Storia Ecclesiastica, che credo non abbiate ancora dimenticato.

Vespasiano aveva molte qualità buone, ma gli si rimprovera il difetto di avarizia: la quale dimostrò particolarmente nell’occasione, in cui alcuni deputati di una città andarono a partecipargli di avere raccolta una grossa somma di danaro a fine di innalzargli una statua d’oro: «Collocatela qui, loro rispose presentando il concavo della mano, ecco qui la base della statua bella e pronta». Infatti egli si fece dare quella somma: azione poco onorevole per un imperatore. Egli esercitò eziandio vari atti di crudeltà, condannando alla morte molti illustri personaggi di Roma. Per la qual cosa essendo poco dopo caduto gravemente ammalato, molti riguardarono tale avvenimento come castigo del rigoroso supplizio fatto patire agli altri. Morì d’anni 79 dopo averne regnato dieci; e fu il primo imperatore che dopo Augusto morisse di morte naturale.



VII.
Tito e l’eruzione del Vesuvio (53).
Tito, figliuolo e successore di Vespasiano, fu di gran lunga migliore del padre. Gli storici lo sogliono chiamare la delizia del genere umano. Egli desiderava essere da tutti amato anziché temuto; e fu così clemente e buono verso i suoi sudditi, che durante il suo regno niuno fu condannato a morte. Sempre intento a fare del bene, era grandemente afflitto quando non aveva occasione di esercitare qualche buona azione. Una sera, richiesto da’ suoi amici perché fosse malinconico: Cari amici, rispose sospirando, ho perduta una giornata. - Perché? ripigliarono. - Perché oggi non ho fatto opera buona.

Il regno di Tito fu segnalato da grandi calamità. Una violenta peste desolò molti paesi d’Italia; un nuovo incendio ridusse in cenere parecchi quartieri di Roma, la quale dopo l’incendio di Nerone cominciava a ripigliare l’antico suo splendore. Ma l’avvenimento più di ogni altro deplorabile fu una eruzione del monte Vesuvio, di quel vulcano che mette fumo e fiamme anche al presente, a poca distanza da Napoli. Forse voi non avete ancora una giusta idea dei vulcani, perciò voglio dirvi quello che gli eruditi asseriscono di questi monti spaventevoli.

Un vulcano è una montagna, la quale contiene grande quantità di materie bituminose e solfuree. Allora che quelle materie sono poste in moto da un fuoco sotterraneo, e che arde naturalmente in seno alla terra in modo a noi sconosciuto, esse producono scoppi terribili, mandano fuori da ogni parte, a grandissima distanza anche di parecchie miglia, turbini di cenere, pietre calcinate, bitume bollente, il quale raffreddandosi diventa duro al pari della pietra, e si appella comunemente lava. Nell’Italia noi abbiamo due di questi vulcani, il monte Etna nella Sicilia, ed il Vesuvio vicino a Napoli

L’eruzione del Vesuvio, che seguì ai tempi di Tito, fu certamente un gran disastro. Cominciarono a farsi sentire violente scosse di terremoto con fragori sotterranei somiglianti al tuono; all’intorno il terreno pareva infuocato ed arso; l’acqua del mare agitata da cima a fondo minacciava di uscire dal suo letto; tutto spirava costernazione e terrore, quando in pieno mezzodì cominciarono ad uscire da quell’avvampante montagna neri globi di fumo misto con cenere. Nel tempo stesso si videro lanciate in aria enormi pietre, che con tremendo fracasso dall’alto precipitavano giù pei fianchi della montagna. Dopo di ciò. apparvero fiamme miste con cenere e con fumo, a segno che facendo velo al sole, cangiarono il giorno in tetra notte.

Un uomo coraggioso chiamato Plinio, soprannominato il Naturalista o il Vecchio (per distinguerlo - da un altro Plinio suo nipote detto il Giovane), comandava la flotta Romana presso la città di Miseno, distante nove miglia dal Vesuvio. Per osservare da vicino quel terribile fuoco, mentre tutta la gente fuggiva, egli si avanzò verso del luogo ove maggiore era il pericolo; ma la sua curiosità gli costò la vita, e rimase soffocato dall’odore dello zolfo e dalle ceneri.

Plinio il Giovine, nipote, corse eziandio un gravissimo rischio in quella città. Sua madre gli diceva: Fuggi, mio figlio, io sono vecchia inferma, avrò cara la morte, qualora io sappia che tu sei in luogo sicuro. «Madre, rispondevale il generoso figliuolo, io sono risoluto di perire o di scampare con voi, non vi abbandonerò giammai». Più volte essi vennero coperti dalla cenere, ma fortunatamente poterono salvarsi. Così la pietà del figliuolo era dalla Provvidenza ricompensata colla salvezza della madre e di se medesimo (V. PLINIO, lib. VI, lett. 16).

Durante questa eruzione due illustri città, appellate Ercolano e Pompei, restarono sepolte sotto altissimi mucchi di cenere, e il sito delle medesime giacque sconosciuto fino al 1710, tempo in cui vennero scoperte sotto al villaggio di Portici presso a Napoli a grande profondità.

Vi si trovarono pitture preziose, utensili di casa, statue, monete, noci, uva, olive, grano, pane, ed in una prigione si vide persino il cadavere di un infelice cinto ancora dalle catene. Queste cose poterono per sì lungo spazio di tempo conservarsi, perché non erano esposte all’influenza dell’aria e delle stagioni, altrimenti sarebbero state di leggeri guaste o rovinate. Il medesimo villaggio di Portici è fabbricato sulla lava che coperse la città di Ercolano.

Tito per tante calamità, cui i suoi sudditi andarono soggetti, si occupava indefessamente per riparare ai loro mali, ed avrebbe senza dubbio fatto gran bene, se una morte immatura non lo avesse tolto di vita dopo soli due anni di regno. Dicono che suo fratello Domiziano, il quale ambiva di succedergli nel trono, lo abbia avvelenato: infatti ne fu il successore.

VIII.
Domiziano, Apollonio il Mago (54).

(Dall’anno 81 all’anno 96 dopo Cristo).

A fatica si può concepire come Domiziano, figliuolo di Vespasiano, fratello dell’ottimo Tito, sia stato d’indole sì perversa. In lussuria e crudeltà fu un secondo Nerone, rassomigliando piuttosto ad un carnefice, che ad un imperatore. Egli ordinò che non se gli potessero innalzare statue se non di oro o di argento; e pretese di essere adorato come un Dio. La qual cosa sdegnando di fare molti illustri senatori ed altri ragguardevoli cittadini, furono fatti morire. Parecchi dei suoi valorosi capitani, solo perché gli cagionavano invidia col loro valore, furono condannati a morte. Presiedeva egli stesso ai supplizi, e metteva ogni studio ad aggiungere pene e spasimi ai condannati.

L’anno secondo del suo regno pubblicò un editto, che condannava a morte tutti i cristiani; e d’allora in poi volse tutto il suo furore nel perseguitarli e farli morire. Il console Flavio, suo cugino, abbracciò la fede cristiana con tutta la sua famiglia, e per questo solo motivo fu condannato nel capo, e la stessa sua moglie Domitilla, parente dell’imperatore, mandata in esilio. S. Giovanni l’Evangelista dall’Asia fu condotto a Roma, e presso la porta Latina per sentenza dell’imperatore immerso in una caldaia d’olio bollente, da cui però venne prodigiosamente liberato.

Tante barbarie suscitarono da tutte parti congiure contro il feroce imperatore. Un uomo straordinario di nome Apollonio, della città di Tiano, comunemente detto il Mago, fomentava anch’egli la ribellione a favor di un generale chiamato Nerva. Lo seppe Domiziano, e comandò che fosse arrestato e condotto a Roma. L’imperatore nel rimirare il sembiante di lui, lo strano vestito, la lunga barba, i bianchi capelli, si spaventò. Egli è un demonio, esclamò. - Io ben veggo, rispose freddamente Apollonio, che gli Dei non ti sono cortesi, perché tu non sai distinguere i mortali dagli immortali. Interrogato poscia intorno alla congiura, tutto negò. Non ostante, in pena della sua arroganza, gli furono recisi la barba ed i capelli, e venne messo in carcere. Di che niente intimorito, disse al suo confidente Dami: Il mio destino e superiore a quello del tiranno, egli non potrà farmi alcun male.

Difatto egli trovò modo di fuggire, e si ritirò in Efeso, città dell’Asia Minore. Un dì facendo un discorso in presenza di molto popolo, fra le undici e il mezzodì, repentinamente ruppe il ragionamento, e mutato nell’aspetto quasi convulso: Percuoti, esclamò, percuoti il tiranno! Stato alcuni istanti in profondo silenzio, soggiunse: Il tiranno è spento, io ve lo giuro.

Fu creduto pazzo dagli astanti, ma la cosa era proprio avvenuta così. Domiziano era stato allora allora trucidato nel proprio palazzo.

Mi accorgo che più cose vi arrecano maraviglia, e che perciò vorreste dimandarmi: Che cosa sono i maghi? Apollonio disse la verità?

Vi risponderò in breve. Anticamente i maghi erano filosofi, vale a dire uomini che si davano grandissima premura per lo studio della scienza. Più tardi questa parola fu usata a significare certi uomini, che si vantavano di far miracoli, predire l’avvenire, ma che in sostanza erano veri ciarlatani. Perciocché i veri miracoli e le vere profezie possono soltanto venire da Dio, il quale non le permette giammai in conferma della menzogna.

In quanto poi ad Apollonio, io credo ch’egli abbia benissimo potuto, anche di lontano, sapere l’ora della morte di Domiziano, perché consapevole e forse complice della tramatasi congiura, informato del giorno e dell’ora in cui doveva effettuarsi. sicché nulla di soprannaturale succedette nei fatti del mago Apollonio.



IX.
Quattro Imperatori buoni (55).

(Dall’anno 96 all’anno 161 dopo Cristo).


Quando vi dico esservi stato degli imperatori buoni, uopo è che intendiate soltanto di quella bontà naturale, che può avere un uomo pagano. Imperciocchè quasi tutti gli uomini virtuosi del paganesimo andarono soggetti ai vizi della crapula, della lussuria e dell’ambizione. La sola cattolica religione, perché divina, è capace di sollevare l’uomo a portare vittoria sopra questi vizi e a praticare la temperanza, l’onestà e la modestia. I quattro imperatori, di cui voglio ora parlarvi, sono Nerva, Traiano, Adriano e Antonino, dei quali vi racconterò le principali azioni.

Al feroce Domiziano succedeva Nerva, uomo di provata bontà, il quale ne’ due anni di regno si occupò nel riparare ai mali che Domiziano aveva cagionati all’impero. Alla sua morte designò Traiano per suo successore.

Questi, nato nella Spagna, primo tra i romani imperatori di nascita non italiana, fu uno dei migliori sovrani che abbia avuto Roma pagana. Il suo regno è segnalato per le vittorie riportate contro i Daci, oggidì Transilvani e Moldavi, e per aver ridotto i loro paesi a provincia romana. Queste vittorie ritornarono di grande vantaggio, perché così liberava l’impero da un grave tributo, cui il debole Domiziano erasi obbligato verso a quei barbari, acciocché lo lasciassero in pace. Fece anche molte conquiste nelle parti d’Oriente e finì di vivere in Selinunte, città dell’Asia Minore, detta di poi Traianopoli, vale a dire città di Traiano. (Anno 117).

Si racconta di questo principe un tratto di bontà che io non voglio omettere. Mentre egli passava in una pubblica piazza una donna si rivolse a lui per ottenere un favore che credeva giusto. Essendo stata aspramente ributtata dall’imperatore, arditamente ella esclamò: Perché dunque siete nostro principe? Tali parole fermarono Traiano, il quale tornando indietro ascoltò con pazienza la buona donna e le concedette quello che dimandava.

Sebbene in questo principe si ammiri la saviezza del governo, tuttavia gli si rimproverano il disordine della ubbriachezza e molti altri difetti. Anzi è annoverato fra i persecutori della religione cristiana; ed appunto nell’anno ottavo del suo regno fu suscitata la terza persecuzione, in cui parecchi illustri personaggi furono condannati a morte solo perché erano cristiani.

Adriano, successore di Traiano, è altresì annoverato tra i più chiari imperatori romani. Egli amava la pace, la giustizia e la sobrietà; coltivava molto le scienze. La sua memoria era così prodigiosa, che, letto un libro, di subito ripetevalo da un capo all’altro. Egli riedificò la città di Gerusalemme sotto il nome di Elia per ricordare il nome di sua famiglia che era Elio; ma proibì per sempre agli Ebrei di andare colà per abitarvi. Adriano morì dopo venti anni di regno. (Anno 137).

Antonino, figliuolo adottivo di Adriano, fu il migliore di questi quattro imperatori. Egli vien soprannominato Pio per la sua bontà, e fu il primo imperatore, che conoscendo la ragionevolezza della cattolica religione, lasciasse libertà ai cristiani di professarla, e perciò il primo che non li abbia perseguitati. Questo pacifico intervallo diede campo ai ministri del Vangelo di far conoscere in lontani paesi la religione di Gesù Cristo, la cui luce si andava così spandendo per ogni luogo.

Antonino morì nell’età di anni 73 dopo averne regnati venti, e la morte di lui fu riguardata come una pubblica calamità non solo per l’Italia, ma per tutto il Romano impero. Gli fu innalzato un monumento che esiste ancora oggidì e porta il nome di Colonna Antonina. Marc’Aurelio, di lui successore, nell’occasione che fu consacrata questa colonna, fece coniare una medaglia, la quale rappresenta da una parte il ritratto di Antonino, dall’altra la colonna stessa con questa iscrizione: Divo Pio, vale a dire Al divino Pio.

Così, mentre i malvagi son tenuti in esecrazione presso ai posteri, i buoni si conservano in grata memoria tra le lodi e le benedizioni degli uomini.

X.
Marco Aurelio e la Legione Fulminante (56).

(Dall’anno 161 all’anno 180 dopo Cristo).


Marc’Aurelio era degno successore del saggio Antonino, di cui era figliuolo adottivo. Fin dall’infanzia erasi applicato allo studio della filosofia, vale a dire di quella scienza che insegna all’uomo la pratica della virtù e la fuga del vizio. Egli si considerava come un padre, di cui erano figliuoli tutti i sudditi; perciò impiegava tutte le sue cure per la pace e per la tranquillità di essi. Sotto al suo regno l’Italia ebbe a godere di una perfetta tranquillità. Una cosa però riuscì di gran danno, e fu l’avere associato nel governo un suo fratello di nome Lucia Vero, principe dispregevole, privo di valore e di virtù, rotto ad ogni sorta di vizi. Allora si videro nel tempo stesso due sovrani nel romano impero, il che avrebbe tosto prodotto gravi perturbazioni, se dopo alcuni anni Lucio Vero non fosse morto pei suoi stravizi. Sebbene fosse uomo così pieno di vizi, tuttavia Marco Aurelio lo fece annoverare fra gli Dei.

Questo imperatore riportò molte vittorie contro ai barbari, ed estese le sue conquiste sino al di là del Danubio, presso alle montagne della Boemia. Mentre colà accanitamente si combatteva, avvenne che l’esercito romano si lasciò cogliere nelle insidie dai barbari. I Romani erano chiusi nella gola di due montagne; davanti avevano il nemico di gran lunga superiore; di più, essendo nel bollar dell’estate, in breve la sete divenne tra essi tanto crudele, che uomini e cavalli cadevano a terra sfiniti od arrabbiati.

Per buona ventura trovavasi in quell’esercito una legione di cristiani, vale a dire un corpo di circa seimila soldati. Costoro, istruiti nelle verità del Vangelo, che insegna di ricorrere a Dio nei bisogni della vita, in quelle strettezze abbassarono le armi, e postisi ginocchioni innalzarono a Dio fervorose preghiere dirimpetto al nemico che li motteggiava. Si vide allora coprirsi ad un tratto di nuvole il cielo, ed una dirotta pioggia cadere nel campo romano. A questo inaspettato prodigio tutti levarono la faccia all’insù ricevendo così l’acqua a bocca aperta, tanto era ardente la loro sete. Dipoi empierono i loro elmi e bevettero essi ed i cavalli.

I Barbari giudicarono quel momento favorevole per attaccare i nemici, ma il cielo armandosi a pro dei Romani, scaricò sopra di essi una terribile grandine, la quale, accompagnata da tuoni e fulmini, scompigliò talmente le loro file, che rimasero vinti. Le schiere cristiane, alle cui preghiere era attribuito questo celeste favore, ricevettero il nome di legione fulminante. In memoria di questo fatto, si innalzò in Roma un monumento, che sussiste ancora ai nostri dì, in cui si vede scolpito in bassorilievo questo avvenimento così glorioso al cristianesimo.

Sebbene Marc’Aurelio fosse fornito di buone qualità, tuttavia aveva posta fede a molte calunnie che uomini malvagi avevano lanciato contro i cristiani; perciò fin dal principio del suo regno aveva mosso contro di loro la quarta persecuzione, in cui fu sparso molto sangue cristiano. Dopo il prodigio della pioggia sopra narrata, pieno di riconoscenza verso i cristiani, scrisse invero in loro favore al Senato, Affinché non fossero più perseguitati. Tuttavia tre anni dopo si riaccese la persecuzione, ond’è che anche Marc’Aurelio viene annoverato tra i persecutori del cristianesimo.

Questo imperatore morì nel 180 in età d’anni 59. Raccontano, che sia stato avvelenato da Commodo suo figliuolo, il quale ambiva di succedergli nel trono. A questo principe tenne dietro una lunga serie di altri imperatori, i quali tutti coi loro vizi disonorarono se stessi e il trono.



XI.
Quattro imperatori malvagi e la decadenza dell’Impero (57).

(Dall’anno 180 all’anno 222 dopo Cristo).


Vi ho poc’anzi raccontata la vita di quattro imperatori buoni; ora devo parlarvi di quattro imperatori malvagi, che furono veri flagelli dell’Italia. Io mi limito ad esporvi soltanto alcuni tratti della loro barbarie, poiché troppo difficil cosa sarebbe il narrarli tutti. I loro nomi sono Commodo, Settimio Severo, Caracalla, Eliogabalo. Commodo era figliuolo di Marc’Aurelio e gli succedè nel trono. Più mostro che uomo, prese ad imitare le crudeltà degli antichi tiranni. I suoi furori gli affrettarono la morte. In un eccesso di collera avendo condannato a morte sua moglie, essa il prevenne e lo fece strangolare nel proprio palazzo. Così la crudeltà tornò a danno di chi n’era l’autore. (Anno 193).

Gli uccisori di Commodo offrirono tosto l’impero a Pertinace, nativo di Alba, città del Piemonte. Egli si era pei suoi meriti sollevato ai primi gradi della milizia. Presentatosi ai pretoriani (così chiamavansi i soldati che formavano la guardia dell’imperatore), promise di dare a ciascuno di loro una somma corrispondente a duemila trecento franchi. A quel patto i pretoriani lo proclamarono imperatore, presentando lo al Senato, che dovette necessariamente riconoscerlo. Ma non andò guari che tutti divennero malcontenti di lui. Quelli che gli avevano offerto l’impero, non si credevano sufficientemente ricompensati; i pretoriani poi in grazia del danaro ricevuto datisi ai bagordi, né più volendo ubbidire, si sollevarono, corsero al palazzo e lo trucidarono dopo 87 giorni di regno.

Appena morto, due ricchi personaggi, Didio e Sulpiciano, si recano al campo dei pretoriani, e là ambedue a gara offrono danaro per l’impero. I soldati ridevano di tale incanto; e Didio, che superò Sulpiciano nel promettere ad ogni pretoriano franchi quattro mila ottocento, venne acclamato imperatore. Ma il popolo, sdegnato al vedere posta all’incanto in favore dei pretoriani la dignità imperiale, odiava Didio e lo insultava pubblicamente, donde discordie e risse. Finalmente gli stessi cittadini presero le armi, sfidarono a battaglia i Pretoriani, che non osarono accettarla. Allora si rivolsero agli eserciti che militavano nelle varie parti dell’impero, e li pregarono di venire a liberare Roma dai pretoriani e dall’imperatore.

Tre pretendenti all’impero si presentarono: Pescennio, capitano dell’esercito nella Siria in Oriente, Clodio Albino, comandante delle legioni della Brittannia (oggidì Inghilterra), e Settimio Severo, capo delle legioni della Pannonia (oggidì Ungheria). Questi, siccome più vicino a Roma, vi giunse prima dei suoi due rivali. Il Senato depose Didio, ed i pretoriani lo ammazzarono dopo 66 giorni di regno. Quindi Severo, dopo avere sconfitto Pescennio e Clodio, rientrò in Roma, mandò in esilio, mise in prigione ed anche a morte una grande parte degli amici de’ suoi rivali; riordinò i pretoriani introducendovi molti dei suoi più fidi soldati, e sicuro di essi regnò col terrore.

Geta, figliuolo di lui, giovinetto di ottimo cuore, di soli sette anni, al vedere ventinove senatori condannati a morte atroce, se ne mostrava col padre afflittissimo. Severo se ne accorse, e gli disse accarezzandolo: Figlio mio, questi sono altrettanti nemici di cui ti libero. Geta replicò: «Questi infelici non hanno figliuoli, parenti od amici? - Ne hanno moltissimi, gli fu risposto». Allora Geta esclamò: «Saranno adunque in maggior numero quelli che piangeranno le nostre vittorie, che quelli i quali parteciperanno della nostra allegrezza».

Questo savio riflesso non valse a moderar la crudeltà di Severo, il quale anzi vi aggiunse la ferocia contro ogni sorta di sudditi. Fra le altre cose ordinò che fossero messi a morte tutti i cristiani; e così ebbe luogo la quinta persecuzione, che fu violentissima. Migliaia di cristiani finirono la vita fra atroci tormenti; migliaia furono privati d’impieghi, di sostanze e rinchiusi in oscure prigioni; migliaia mandati in esilio. Il ti­ranno follemente si argomentava di poter distruggere il cristia­nesimo, e all’opposto ne moltiplicava i fedeli, perché il sangue de’ martiri era feconda semente di novelli credenti.

Intanto Severo, giunto al colmo della sua empietà, in una spedizione contro ai Britanni lasciò la vita nella città di Jork nell’Inghilterra. Caracalla, suo figliuolo, aveva tentato di assassinarlo, ma fallitogli il colpo, dicesi che gli procurasse col veleno la morte. (Anno 208).

Il parricida, assiso sul trono del genitore, nulla ebbe di umano, eccetto le sembianze. Cominciò dall’uccidere suo fratello Geta, e lo trucidò di propria mano tra le braccia della madre, accorsa per impedire l’orrendo fratricidio; ed ella stessa restò intrisa del sangue dell’infelice figliuolo.

Dicono che abbia ucciso più di ventimila persone, perché erano amici di Geta. Mettete insieme quanto fecero Nerone, Caligola, Tiberio, ed avrete un giusto concetto degli orrori e delle infamie di Caracalla. Ma le empietà degli uomini hanno presto il loro termine. Egli aveva condannato a morte il prefetto delle guardie pretoriane di nome Macrino, il quale accertatosi che era destinato a morte spietata, fece trucidare lo stesso Caracalla in età d’anni ventinove e gli succedette nel governo.

Poco tempo Macrino poté godere dell’impero, perciocché fu dagli stessi suoi soldati ucciso, e venne posto sul trono un giovanetto chiamato Bassiano, più conosciuto sotto il nome di Eliogabalo, ossia sacerdote del sole. Egli fu così denominato, perché introdusse in Italia il culto del sole, di cui egli era grande sacerdote, che in lingua siriaca dicesi Eliogabalo.

Questo monarca, datosi ad ogni sorta di vizi e di stravaganze, creò un senato di donne, egli stesso vestiva da donna e lavorava nella lana. Volle che in tutta Italia si celebrassero le nozze del sole colla luna, facendone pagare le spese ai sudditi.

Intanto abbandonava il governo dello Stato ai suoi cuochi, ai cocchieri ed ai buffoni. Accortosi che tali disordini lo avevano fatto cadere in aborrimento ai sudditi, egli attendendo si da un momento all’altro la morte, teneva in pronto una provvista di cordoni di seta per istrangolarsi, e un gran numero di spade a lamine d’oro, per trafiggersi in qualsivoglia occorrenza. Aveva altresì fatto costruire una torre, ai cui piedi era un pavimento di pietre preziose, acciocché, occorrendo, avesse la soddisfazione di precipitarsi giù e rompersi il capo nella più splendida maniera che gli fosse possibile.

Ma tutte queste precauzioni riuscirono vane, poiché, stanchi i sudditi di quel mostro, il trucidarono; e in segno di abborrimento il Senato decretò che il suo corpo fosse gettato nel Tevere, e la sua memoria condannata ad infamia eterna.

Questa fu la vita dei quattro imperatori malvagi, i quali introdussero tali disordini nell’impero che si può dire aver essi grandissimamente contribuito a precipitarlo nell’abisso dell’immoralità e del disordine.


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