S giovanni bosco


XVII. Impero di Costantino il Grande



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XVII.
Impero di Costantino il Grande (63).

(Dall’anno 312 all’anno 337 dopo Cristo).

Costantino fu uno di quegli uomini singolari che rare volte compariscono nel mondo. Il suo lungo regno si può dire una serie non interrotta di vittorie. Quante volte sguainò la spada in guerra, altrettante furono le vittorie. Egli cominciò dal pubblicare un editto, in forza di cui era proibito di perseguitare i cristiani; richiamò quelli che erano stati mandati in esilio per la fede, ordinando fossero loro restituiti i beni, di cui erano stati spogliati.

A sue spese fece costruire molte chiese, procurando che fossero addobbate magnificamente. Trattava con massimo rispetto i ministri del santuario; rendeva loro grande onore, provava grande piacere nell’averli seco, riguardando in loro la maestà di quel Dio di cui sono ministri. Trattò coi modi più rispettosi i romani Pontefici, che per lo innanzi erano sempre stati perseguitati; e considerando le molte spese che dovevano sostenere, come capi della Chiesa, fece loro molte donazioni, Affinché esercitassero con decoro la grande loro dignità.

Avvenne un giorno che parecchi malevoli sforzavansi per fare da lui condannare alcuni Vescovi, ma egli loro rispose: «Come volete mai che io osi giudicare i ministri di quel Dio, da cui dovrò io stesso essere giudicato?». Stabilì poi per legge che nessun ecclesiastico potesse essere citato nei tribunali avanti ai giudici secolari.

Sotto al regno di questo pio imperatore si manifestò l’eresia degli Ariani, i quali negavano la divinità di Gesù Cristo, e nel seminare i loro errori perturbavano la Chiesa. Costantino si accordò con san Silvestro Papa, perché fosse convocato un Concilio ecumenico, ossia generale, che è una grande radunanza di Vescovi cattolici assistiti dal Papa. Costoro difesero la verità e condannarono l’errore. Quest’assemblea è nota nella storia sotto il nome di Concilio Niceno, perché fu convocata in Nicea, città dell’Asia Minore, oggidì Isnik nella Natolia.

In mezzo a queste opere di beneficenza il pio monarca ebbe anche molti disgusti, poiché Iddio dispone che le dolcezze della vita presente siano sparse di amarezza. L’imperatore Massimiano, suocero di Costantino, il quale era stato costretto da Galerio a lasciare il trono, brigava per ritornare al possesso con aperte ribellioni. Non potendovi riuscire altrimenti, aveva tentato invano di assassinare Costantino suo genero. Per questo atroce attentato fu condannato a morte. Il feroce Massimiano volle fare da carnefice a se medesimo, strangolandosi colle proprie mani.

Un altro competitore di Costantino era Licinio, il quale governava l’impero nelle parti d’Oriente. Costui, contro la fede data, non cessava dal perseguitare i cristiani. Costantino gli mosse guerra e lo sconfisse. In pena della sua tirannia fu messo a morte, e la sua memoria dichiarata infame come quella de’ più malvagi imperatori.

Malgrado tante buone qualità, Costantino era tacciato di indole impetuosa, la quale invero gli fece commettere azioni, di cui fu dolentissimo per tutta la vita. L’imperatrice Fausta, sua seconda moglie, accusò Crispo, figlio di lui e di Minervina sua prima moglie, di aver tentata la sua onestà. Seppe ella colorire il fatto con tali calunnie, che nell’impeto della collera l’imperatore condannò a morte il proprio figliuolo. Ma poco dopo avendo scoperta l’innocenza di Crispo e la perfidia di Fausta, nel trasporto del suo sdegno la fece immergere in un bagno bollente, nel quale fu soffocata. Questi fatti, miei cari amici, dimostrano che i più grandi uomini cadono talvolta in grandi falli, se non sanno frenare gl’impeti del loro sdegno.

Il Senato nella maggior parte ancora composto di uomini idolatri, lo stesso popolo abituato a deliziarsi dello spargimento di sangue cristiano, vedevano di mal animo un imperatore, che pubblicamente professava il cristianesimo, e mirava con disprezzo le assurde pratiche dei pagani. Tutte queste avversità rendettero a Costantino fastidiosa la dimora in Roma, pel che risolse di stabilire altrove la capitale dell’impero. Il luogo scelto fu l’antica città di Bisanzio, costruita in uno stretto tra l’Europa e l’Asia Minore. Questa città, perché da lui riedificata con grande magnificenza, venne detta Costantinopoli, vale a dire città di Costantino.

Queste cose che parevano avvenire a caso, erano l’adempimento de’ divini voleri. Costantino trasportando la sede imperiale a Costantinopoli lasciò libero il primato di Roma al sommo Pontefice. In questa guisa il sassolino veduto da Nabucodonosor, vale a dire l’umile religione di Gesù Cristo, atterrava la grande statua, che raffigurava il Romano Impero, la cui magnificenza doveva passare nella religione; e Roma, fino allora capitale del medesimo impero, diveniva capitale del mondo cristiano.

Mentre Costantino stabiliva Costantinopoli capitale dei suoi stati, divideva l’impero in due parti: Impero d’Oriente e Impero d’Occidente. Di poi suddivise queste due grandi parti del Romano impero in quattro prefetture: la 1.a era la prefettura d’Oriente divisa in cinque diocesi, ovvero provincie, Oriente, Egitto, Asia, Ponto e parte della Tracia. La 2.a era la prefettura d’Illiria, che comprendeva due diocesi, la Macedonia e l’altra parte della Tracia. La 3.a quella d’Italia divisa in tre diocesi, Italia, Illiria ed Africa. La 4.a quella delle Gallie divisa in tre diocesi, Gallia, Spagna, Britannia. I governatori delle prefetture appellavansi Prefetti, quelli poi che governavano le diocesi prendevano il nome di Rettori, Proconsoli, Vicari.

Costantino, compiuto il grande lavoro della nuova capitale, chiamò da ogni parte gli uomini più dotti. Così in breve quella città divenne la più commerciante, la più ricca e la più abbondante d’insigni personaggi. Ma quel principe non poté godere a lungo le delizie del novello soggiorno e morì in età di anni 64 nel 337.

Prima di spirare ebbe i suoi ufficiali intorno al letto e nel rimirarli afflitti e piangenti, con aria di tranquillità loro disse: «Vedo con occhio diverso dal vostro la vera felicità; e ben lontano dall’affliggermi, godo assai perché sono giunto al momento in cui spero di andarne al possesso». Diede poscia gli ordini opportuni per mantenere la pace nel suo impero; fecesi dar giuramento solenne dai militari di non mai imprendere cosa alcuna contro alla Chiesa, e morì placidamente.

La sua morte fu universalmente compianta, lamentando ognuno nella perdita del suo monarca quella di un tenero padre.
XVIII.
Giuliano l’Apostata (64).

(Dall’anno 337 all’anno 365 dopo Cristo).


Dopo la morte di Costantino i, suoi tre figliuoli Costante, Costanzo e Costantino il Giovane, seguendo la volontà del padre, divisero fra di loro l’impero. A Costante toccò l’Italia, che governò colla massima moderazione e giustizia quattordici anni, con dimora ordinaria in Milano. Costantino, malcontento della prefettura delle Gallie toccatagli in sorte nella divisione dell’impero, mosse guerra al fratello, e perì in Una imboscata. Costante, che era rimasto padrone di tutto l’impero d’Occidente, fu ucciso da un suo generale di nome Magnenzio, che lo stesso imperatore aveva salvato da morte in una sedizione.

Allora Costanzo, che regnava in Oriente, portò le armi contro a questo usurpatore, e vintolo, tutto l’impero cadde in sue mani. Quindi creò Cesare il giovinetto Giuliano, figliuolo di un fratello del gran Costantino. Ma ingelosito per le vittorie riportate dal novello Cesare, gli mosse guerra; e nell’impazienza e nello sdegno di non poter tosto raggiungere il suo nemico, fu colpito da violentissima febbre, per cui in breve morì. Prima di spirare ricevette il battesimo, e si mostrò dolente di aver favorito gli Ariani e la loro perversa dottrina, e pentito di aver fatto Cesare l’empio Giuliano.

Questo Giuliano è comunemente detto l’Apostata, perché dopo aver ricevuto il battesimo rinunziò al Vangelo per abbracciare nuovamente il paganesimo. Fin da fanciullo egli mostrava un umore collerico, superbo, ambizioso, uno sguardo truce a segno, che san Gregorio di Nazianzo, quando lo vide studente in Atene, esclamò: Che mostro nutre mai l’impero! guai a’ cristiani se costui verrà imperatore! Tanto è vero che Una buona o cattiva apparenza è talvolta presagio di una buona o cattiva vita.

Infatti, giunto Giuliano al potere, divenne un feroce persecutore de’ cristiani, e ne’ suoi deliri giurò di estinguere la religione di Gesù Cristo. Per riuscirvi egli cominciò a seminare discordie tra i cattolici, vale a dire tra quelli che seguivano la vera fede, e gli eretici, cioè quelli che seguivano massime contrarie al Vangelo; poscia si diede a fare, come fanno tutti quelli che cercano di opprimere la religione, cioè a spogliare gli ecclesiastici de’ loro beni e dei loro privilegi, dicendo con derisione voler fare ad essi praticare la povertà evangelica.

Imponeva grosse somme ai cristiani per costruire ed abbellire i templi degli idoli; non dava cariche a verun cristiano, né loro permetteva di potersi difendere davanti ai tribunali. La vostra religione, diceva, vi proibisce i processi e le querele. Finalmente, persuaso che la cattolica religione è sì pura e santa, che basta il conoscerla per amarla, egli proibì a tutti i cristiani di istruirsi nelle scienze, adducendo che essi dovevano vivere nell’ignoranza e credere senza ragionare.

La maggiore poi delle stravaganze fu di voler rendere menzognera la cristiana religione. Siccome Gesù Cristo aveva detto nel Vangelo, che del tempio di Gerusalemme non sarebbe più rimasta pietra sopra pietra, così Giuliano si propose di dargli una mentita col rialzare quel famoso edificio. Ma appena scavava le fondamenta, che cominciavano ad uscire globi di fuoco, i quali colla rapidità del fulmine incenerirono tutti i materiali preparati e rovesciavano i lavoranti, così che molti furono dalle fiamme consunti. Allora, scornato, Giuliano desisté dall’impresa (*).


[(*) V. la storia di Ammiano Marcellino, che militò sotto l’imperatore Giuliano, al capo XXIII, § 1. (a).]
Confuso, non per altro ravveduto, giurò, che appena ritornato da una guerra contro ai Persiani, avrebbe distrutto il cristianesimo; ma per l’opposto incontrò la morte. Imperciocchè quando pensava di aver quasi riportata vittoria, fu colpito nel cuore da una saetta. Portato fuori della mischia, gli si medicò la ferita; ma i dolori divenivano più acuti, e gli facevano mettere grida da disperato. Allora fu che cavando si colle mani il sangue dalla ferita, lo gettava rabbiosamente in aria, dicendo: Galileo, hai vinto, Galileo, hai vinto! Colle quali parole intendeva d’insultare ancora la divinità di Gesù Cristo, detto Galileo, perché fino dall’infanzia dimorò in Nazaret, città della Galilea. Così ostinato nella sua empietà morì d’anni 31, lasciando un terribile esempio a quelli che intraprendono a combattere la religione (A. 365).


XIX.
L’Impero d’Oriente e l’Impero d’Occidente (65).

(Dall’anno 365 all’anno 378 dopo Cristo).

Per la morte di Giuliano l’esercito si trovò in cattivissima condizione coi Persiani, e per liberarsi da quel gran pericolo elesse ad Imperatore un prode e pio uffiziale, chiamato Gioviano, che aveva meritato il titolo di confessore per la gloriosa fermezza mostrata in tempo di persecuzione. Fervoroso cristiano e valoroso capitano, come fu proclamato imperatore, chiamò intorno a sé l’intiero esercito, e disse che egli era cristiano, né voleva comandare se non a soldati cristiani. Alle quali parole tutti ad una voce risposero: «Non temete, o principe, voi comandate a cristiani; i più vecchi tra noi furono ammaestrati dal grande Costantino, e gli altri da’ suoi figliuoli. Giuliano avendo regnato poco, non poté a fondo radicare l’empietà, e quelli che gli credettero furono sedotti». Con sì fausti principii Gioviano, dava di sé le più grandi speranze: conchiuse una pace onorevole coi Persiani, fece chiudere i templi dei Gentili. Molte altre cose ravvolgeva nell’animo a bene de’ suoi sudditi, allora che, giunto in Bitinia, fu soffocato dal vapore del carbone acceso nella sua stanza per asciugarla, dopo appena otto mesi di regno.

Sparsa la notizia della morte dell’imperatore, le legioni elessero due fratelli chiamati Valentiniano e Valente, che si divisero le provincie e nuovamente ne formarono due vasti Stati sotto il nome d’Impero d’Oriente e Impero d’Occidente. Il primo toccò a Valente; ed aveva per capitale Costantinopoli, stendendosi dalle sponde del Danubio fino all’Eufrate. L’Impero d’Occidente si estendeva dalla riva sinistra del Danubio fino alla Gran Bretagna ed aveva per capitale Milano; quest’ultimo impero toccò al virtuoso Valentiniano.

Valentiniano al valor guerriero accoppiava la fede di buon cattolico. La puntualità nel premiare e la severità nel castigare facevano sì, che egli fosse amato dai buoni e temuto dai malvagi. Egli non aveva temuto d’incorrere la disgrazia di Giuliano per amor della religione. Un giorno quell’apostata entrava in un tempio degli Dei accompagnato da Valentiniano, capitano della sua guardia, quando il sacerdote pagano, secondo il rito dei gentili, avendo asperso di acqua lustrale l’imperatore ed il suo séguito, ne cadde goccia sulle vestimenta di Valentiniano. Questi, preso da indignazione alla presenza dello stesso Giuliano, tagliò il pezzo che era stato spruzzato dall’acqua, e die’ una ceffata al sacerdote. Questo trasporto di zelo gli cagionò l’esilio.

Egli governava con somma giustizia, risiedeva ora in Milano, ora in Treviri, città della Germania, a fine di poter meglio difendere le frontiere de’ suoi Stati continuamente minacciati dai barbari.

Malgrado tante qualità di buon cristiano e di ottimo guerriero, aveva un difetto assai dannoso, lasciandosi talvolta trasportare a smoderati impeti di collera. Questo vizio gli costò la vita; imperciocchè mentre rimproverava alcuni barbari colpevoli di tradimento, si lasciò trasportare a tale furore, che gli si ruppe una vena, e morì quasi all’istante. Graziano, di lui figliuolo, gli succedette nell’impero.

Valente per molti anni erasi occupato più nello spargere il sangue dei cattolici, che quello dei nemici. Ma alla nuova che i Goti, traversato il Danubio, depredavano le sue terre, si pose alla testa di un esercito per andarli a combattere, e andò invece a ricevere il castigo delle sue crudeltà. Il suo esercito fu fatto a pezzi nelle vicinanze di Adrianopoli, città della Rumania; egli stesso, ferito da un dardo, essendo stato portato in una casa vicina, vi perì consumato dalle fiamme che i vincitori vi appiccarono.

Rimasto Graziano solo padrone dell’impero, mostrossi adorno delle più belle virtù. Chiaro in pace, formava la delizia de’ suoi sudditi, e valoroso in guerra seppe difendere i suoi Stati. Egli riportò una segnalatissima vittoria contro ai Germani, di cui trenta mila rimasero sul campo di battaglia.

La cosa che procacciò maggior gloria a questo principe fu la promulgazione di una legge, quanto contraria al paganesimo, altrettanto favorevole alla religione di Cristo. In forza di questa legge stabiliva che la sola religione cattolica fosse riconosciuta per religione dello Stato. Ordinava inoltre che dalla sala del Senato romano fosse tolta la statua e l’altare della dea Vittoria, sulla quale si facevano i giuramenti e si offerivano sacrifizi; che fossero confiscate tutte le rendite destinate al mantenimento de’ sacrifizi e dei ministri gentili; che cessassero i privilegi conceduti ai sacerdoti pagani. Gran rumore innalzarono contro a siffatta legge i senatori, buona parte ancora pagani, e mandarono uno di loro, che presentasse a Graziano un memoriale pieno di doglianze. Ma altri senatori cristiani fecero una protesta in contrario, dichiarando che essi non interverrebbero più in Senato, ove si ristabilisse l’obbrobrio della statua e dell’altare della Vittoria. Graziano, mosso anche dall’eloquenza di S. Ambrogio, vescovo di Milano, dove egli pure risiedeva, mantenne l’editto.

Allora l’Italia cominciò ad apparire veramente cristiana; e si poté stabilire quel meraviglioso centro di unità, onde ai cattolici di tutto il mondo fu dato agio di liberamente ricorrere al Capo della Chiesa universale. Queste cose per lo innanzi avevano sicuramente luogo, ma per le persecuzioni non poterono farsi con tutta libertà come in seguito.

In quel medesimo tempo parecchie nazioni barbare varcarono le frontiere dell’impero, molestandolo da tutte parti; sicché Graziano non potendo sostenere da solo quell’immenso carico, associò all’impero Teodosio, prode uffiziale, e gli offerì l’Impero d’Oriente.

Sebbene questo imperatore abbia avuto a sua special custodia (‘Impero d’Oriente, tuttavia credo che le gloriose azioni, che si raccontano di lui, avvenute la maggior parte in Italia, vi saranno di gradimento.


XX.
Teodosio il Grande (66).

(Dall’anno 378 all’anno 395 dopo Cristo).


Teodosio, soprannominato il Grande, aveva solamente diciotto anni, quando, collocato da Graziano alla testa di un esercito, liberò l’impero dai barbari, e costrinseli a ripassare il Danubio. Splendide vittorie lo accompagnavano in ogni parte, sicché le barbare nazioni, atterrite al solo di lui nome, dimandarono la pace.

Teodosio era cristiano, ed in sé riuniva le più belle doti, di cui un uomo possa andare adorno. Egli vedeva con rincrescimento che gli eretici ariani, favoriti da Valente suo antecessore, turbassero la Chiesa coi loro errori; perciò volle che tutti i suoi sudditi seguissero la vera dottrina del Vangelo, professata dal Concilio di Nicea. Scacciò i vescovi ariani dalle loro sedi, ordinò che i veri cristiani portassero il nome di Cattolici, che vuol dire universali. Ancora oggidì sono appellati cattolici i veri cristiani, che professano la dottrina del Vangelo, e sono governati dal romano Pontefice, Capo della Chiesa di Gesù Cristo.

Teodosio fece molte savie leggi: proibì gli spettacoli dei gladiatori, nei quali combattevano uomini con bestie, o uomini tra di loro, finché un gladiatore, ovvero combattente, rimanesse dall’altro ucciso, senza che tra di essi fosse avvenuta offesa alcuna; cose veramente barbare e affatto contrarie alla carità del Vangelo.

In quel medesimo tempo Teodosio diede al mondo un ammirabile esempio di generosità e di clemenza. Il popolo di Antiochia erasi mosso a ribellione e in disdoro dell’imperiale dignità aveva spezzate e tratte nel fango le statue dell’imperatore. Teodosio, sdegnato contro quella città da lui ricolma di benefizi, spedì due commissari con ordine di condannare a morte tutti i colpevoli. Pubblicata la fatale sentenza, non si udivano più che gemiti e grida lamentevoli fra quei cittadini.

I colpevoli furono condannati, e già stavano in procinto di essere giustiziati, quando S. Flaviano, vescovo di quella città. ottenne a forza di preghiere che l’esecuzione del supplizio venisse differita finché egli fosse andato a Costantinopoli per dimandare grazia all’imperatore. Giunto in quella grande metropoli, il prelato fu ammesso all’udienza, e fermatosi a qualche distanza da Teodosio, stavasi cogli occhi bassi e mutolo, come soffocato dal dolore. Teodosio tutto confuso ed attonito gli si avvicinò, e fecegli vivi ma teneri rimproveri sull’ingratitudine di que’ cittadini.

Allora Flaviano con franchezza evangelica: «Principe, gli disse, noi meritiamo ogni sorta di supplizi, e se voi riduceste in cenere la nostra città, noi non saremmo bastevolmente puniti. Voi potete non pertanto aggiungere un novello splendore alla vostra gloria col perdonare ai colpevoli, ad imitazione di quel Dio, che tutti i giorni perdona i peccati degli uomini. Egli dunque a voi mi manda per dirvi, che, se voi rimetterete le offese altrui, saranno parimente rimesse le vostre. Ricordatevi, o principe, di quel giorno terribile, in cui sudditi e sovrani compariranno dinanzi al tribunale del Giudice supremo, e riflettete che i vostri falli saranno cancellati dal perdono che avrete agli altri accordato».

A queste parole Teodosio s’intenerì, e versando lagrime: «Andate, gli rispose, andate, mio buon padre; affrettatevi di mostrarvi al vostro gregge, restituite la calma alla città di Antiochia, annunziando il mio perdono». Tosto Flaviano si diresse alla sua città, ove fu accolto come angelo di pace fra le acclamazioni, e in tutte le chiese di Antiochia risuonarono grazie all’Altissimo Iddio (Anno 387).

In altra occasione la clemenza di Teodosio venne meno; poiché, mentre egli era in Milano, gli abitanti di Tessalonica, città dell’Illirio, si rivoltarono contro al governatore, lo uccisero, e atterrarono in pari tempo una statua che Teodosio aveva fatto innalzare a suo padre. Al primo annunzio di tale rivolta, Teodosio si lasciò andare a tale eccesso di sdegno, che sull’istante medesimo spedì contro ai ribelli una truppa di soldati, i quali trucidarono senza pietà donne, vecchi e fanciulli, talché settemila cittadini furono barbaramente scannati.

Sant’Ambrogio, allora vescovo di Milano, aveva tentato invano di placare l’ira dell’imperatore; ma pochi giorni dopo, quel monarca, agitato dai rimproveri della coscienza, volendo entrare in chiesa, il santo Vescovo con franchezza apostolica: «fermatevi, principe, gli disse, voi non sentite ancora il peso del vostro peccato. Come entrerete nel santuario del Dio terribile? Come ricevere potrete il corpo del Signore colle mani ancor fumanti di sangue innocente? Ritiratevi, e non aggiungete il sacrilegio a tanti omicidi».

Dovete qui notare che simili atti di barbarie erano puniti con una pena ecclesiastica, in forza di cui i colpevoli erano reputati indegni di unirsi cogli altri fedeli in chiesa, ed erano obbligati a vivere separati dagli altri cristiani, specialmente nelle sacre funzioni. Perciò l’imperatore, buon cristiano e buon cattolico, ben lungi dallo sdegnarsi contro a S. Ambrogio, confessò il proprio peccato, ne fece pubblica penitenza parecchi mesi, e dopo fu ricevuto in chiesa con gli altri fedeli.

Io vi assicuro, o giovani cari, che ammiro grandemente questa religiosa sommessione di un imperatore, il quale con una parola avrebbe potuto fare le più terribili vendette; ma egli riconobbe nella persona del vescovo un ministro di Dio, e a lui volle rendere un solenne omaggio di esemplare sommessione. Felice sant’Ambrogio per la sua fermezza! Non men felice Teodosio per la sua umiltà!

Mentre queste cose accadevano in Italia, un generale chiamato Massimo erasi fatto proclamare imperatore nella Bretagna; ed ucciso il giovane Graziano in una sanguinosa battaglia, s’incamminava alla volta di Milano per forzare Valentiniano II a dividere seco lui l’impero. Questo Valentiniano era fratello del pio Graziano, e trovavasi allora in assai giovanile età per opporsi a quel ribelle generale.

Teodosio, che era stato da alcuni affari chiamato a Costantinopoli, a siffatte notizie raccoglie un esercito, e dall’Oriente ritorna in Italia contro di Massimo. In una battaglia, data presso la città di Aquileia, Massimo fu vinto e fatto a pezzi, e Valentiniano venne restituito sul pacifico suo trono. Ma un altro de’ suoi generali, detto Arbogasto, per ambizione del trono gli tramò un’altra congiura, e lo fece barbaramente trucidare.

Nemmeno l’iniquo assalitore poté godersi a lungo il frutto del suo delitto; perciocché, assalito da Teodosio, fu sconfitto insieme con un altro tiranno di nome Eugenio, complice della stessa rivolta. In quella occasione Teodosio stabilì suo figliuolo Onorio, giovane di soli undici anni, imperatore di Occidente, e riserbò l’Oriente al suo primogenito chiamato Arcadio. Così furono del tutto separati i due imperi di Oriente e di Occidente.

Teodosio sopravvisse soltanto alcuni mesi a questa sua vittoria, e morì pacificamente in Milano fra le braccia di S. Ambrogio nell’anno 395. Questo principe meritò il nome di Grande per la sua fermezza nella fede cattolica, per l’eroico suo valore in guerra, ed in modo particolare per la rara sua abilità nel maneggio di grandi affari ecclesiastici e civili; le quali cose ritardarono alquanto la rovina del Romano Impero.

XXI.
Saccheggio di Roma (67).

(Dal1’anno 395 all’anno 410 dopo Cristo).


Sullo scorcio del quarto e sul principiare del quinto secolo dell’èra cristiana la nostra Italia fu invasa da un grandissimo numero di barbari, i quali la ridussero ad uno stato deplorabile forse non mai veduto. Quei Goti, di cui ebbi già tante occasioni di parlarvi, sebbene siano stati più volte respinti, tuttavia allettati dall’amenità e dalla dolcezza del nostro clima, e assai più dalle ricche spoglie che ne avevano riportate, di quando in quando facevano terribili scorrerie, guidati ora dall’uno, ora dall’altro dei feroci loro capitani.

Segnalatissima fu quella fatta da Alarico, re dei Visigoti, cioè dei Goti d’Occidente. Questo principe erasi o posto alla testa di formidabile esercito, e dopo aver fatto immenso guasto nella Grecia e nell’Illirio, provincia bagnata dalle onde del mare Adriatico, superò il passaggio delle Alpi Giulie, e minaccioso si diede co’ suoi a scorrere l’Italia.

Il giovane Onorio, che risiedeva in Milano, era di grande piètà, ma poco abile nelle cose di Stato e di guerra. Perciò al rumore della venuta di quei barbari, fu preso da tale spavento che fuggì da Milano e venne a rinchiudersi in Asti, antica e forte città del Piemonte.

Alarico, impadronitosi di Milano, si condusse prestamente a stringere d’assedio la città, in cui erasi rifugiato Onorio e, lo avrebbe costretto ad arrendersi, ove Stilicone, famoso generale di Onorio, non fosse corso a difenderlo. Dopo molti parziali attacchi si venne ad una campale battaglia presso Pollenzo, villaggio della provincia d’Alba, sulle rive del fiume Tanaro. Il combattimento fu ostinatissimo ed i barbari ebbero la peggio; in grandissimo numero furono uccisi, gli altri posti in fuga. Onorio, per ricompensare Stilicone, volle che con lui montasse sopra un carro magnifico, e gli fece godere gli onori del trionfo, entrando in Roma fra un’immensa popolazione che lo applaudiva. Questo è l’ultimo trionfo che vide Roma.

I barbari avevano ingenerato tanto terrore ad Onorio che, non giudicandosi più tranquillo in Milano, trasferì la sede imperiale in Ravenna, città posta all’estremità del golfo Adriatico, e circondata a grande distanza da paludi quasi impraticabili.

Il famoso Stilicone riportò eziandio una gloriosa vittoria contro ai Vandali, popoli che venivano dal settentrione dalla Germania. Radunatisi costoro sulle sponde del Danubio e della Vistola, discesero in Italia guidati da un loro capitano nominato Radagasio, e s’incamminarono alla volta di Roma. Stilicone li andò ad incontrare a Fiesole, vicino a Firenze, e tra per la fama del suo nome, e tra pel valore de’ suoi soldati e la sua perizia strategica, sconfisse pienamente i barbari, i quali furono parte uccisi e parte dispersi nelle varie provincie romane. Radagasio, caduto vivo nelle mani del vincitore, ebbe tronca la testa.

Mentre Stilicone meritava così due volte il titolo di salvatore dell’Italia, i cortigiani di Onorio, mossi da invidia, giunsero a fargli credere che quel capitano congiurasse contro di lui per mettere sul trono Eucherio suo figliuolo. L’incauto imperatore credette a questa imputazione, e tosto il fece perire col figliuolo e col resto di sua famiglia. Ma egli stesso e gli altri accusatori di Stilicone non tardarono molto a pentirsi del loro misfatto; imperocché Alarico, udita la morte di quel valoroso capitano, si affrettò a ricondurre in Italia un nuovo esercito di Goti, impazienti di riparare la disfatta di Pollenzo.

Il timido Onorio, non avendo più alcun abile generale da opporre ai barbari, implorò la pietà di Alarico e fecegli molte promesse, che poi non mantenne. Per la qual cosa Alarico montato in furore si pose a devastare l’Italia, marciando verso di Roma per impadronirsene.

Quella grande capitale, miei cari, dal tempo in cui era stata saccheggiata dai Galli guidati da Brenno, non aveva più veduto alcun nemico alle sue porte; perciò tutti i cittadini furono immersi nella più grave costernazione. Roma assediata al di fuori, agitata da parecchi barbari, che tenuti come schiavi si trovavano nell’interno della città, era sul punto della sua rovina. La fame si fece sentire tanto orribilmente, che i cittadini, non avendo più di che cibarsi furono costretti a pascersi di carne umana.

Al fine una notte gli schiavi Goti aprirono le porte ad Alarico, e diedero l’antica Roma in balìa degli assedianti. Allora quella città superba espiò con disastri senza numero l’abuso che aveva fatto della sua passata grandezza. Il vincitore l’abbandonò alla discrezione dei soldati, quasi tutti pagani od ariani. La notte del 24 agosto del 410 la città fu illuminata dalle fiamme del proprio incendio.

Il saccheggio fu spaventevole; gli insulti, il ferro, il fuoco, i supplizi di ogni genere facevano sì che tutto spirava terrore e spavento: e come se il cielo si fosse unito a punire quella orgogliosa regina del mondo, una furiosa tempesta e una folgore continuata accrebbero la devastazione: abbatté vari templi, e ridusse in polvere quegli idoli altra volta adorati, e dagli imperatori cristiani conservati ad abbellimento della città.

Tuttavia Alarico ebbe grande rispetto per la cristiana religione; e, barbaro quale era, comandò ai suoi soldati di non inseguire quelli che si fossero nelle chiese ricoverati. In mezzo a quel disordine un capitano goto essendo entrato in una casa per ispogliarla, vi trovò una nobile romana, cui ordinò aspramente di consegnargli tutto ciò che possedeva di prezioso. Quella matrona cristiana senza rispondergli lo condusse in un sito appartato della casa, dove gli fece vedere un’immensa quantità di oggetti d’oro e d’argento del più magnifico lavoro. Voleva tosto il barbaro impadronirsene: «Guàrdati, gli disse la coraggiosa donna, guàrdati di far ciò: questi vasi non sono miei, essi appartengono ai santi Apostoli Pietro e Paolo, cui furono consacrati. Io non ho forza per difenderli dalla tua violenza, ma se mai li tocchi, la pena del sacrilegio ricadrà sopra di te». A queste parole il capitano, compreso di religioso rispetto, rinchiuse tosto con grande cura la sala che conteneva quel tesoro, e si affrettò ad informare Alarico di quanto gli era successo:

Quel principe per rispetto al cristianesimo ordinò incontanente che quei sacri oggetti fossero riportati presso la tomba degli Apostoli. Si vide allora, in mezzo alla desolata città, una lunga processione di soldati barbari portare divotamente i vasi sacri sul capo fino alla chiesa di S. Pietro, mentre i Romani pieni di stupore si univano affollati alla processione dei barbari, e s’inginocchiavano umilmente, confondendo in certo modo le grida di guerra coi cantici religiosi.

Roma in questa maniera umiliata da Alarico, perdette tutto il suo antico splendore, divenne il bersaglio dei barbari, e la maestà del nome romano cadde irreparabilmente. Alarico fece all’Italia tutto il male che gli fu a grado. Proponevasi di passare in Africa per istabilire un vasto impero, ma mentre stringeva d’assedio la città di Reggio nel Napolitano, improvvisamente morì, quando egli giudicavasi all’apice della potenza e della gloria.

All’inerte Onorio succedette un nipote del gran Teodosio, detto egli pure Teodosio (*) [(*) Leggi: Valentiniano.*], terzo di questo nome. Sebbene sia stato nemico dell’eresia, nulladimeno egli condusse una vita molle, dandosi alla crapula senza curarsi gran fatto degli affari dello Stato.

In questo tempo uno sciame di barbari invase l’impero d’Occidente, e non trovandosi più alcuno di quei prodi antichi che lo difendessero, venne tra loro smembrato ed in breve annullato.



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