Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) è stata una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria



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Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909Ashford, 24 agosto 1943) è stata una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria, alle drammatiche vicende esistenziali che ella attraversò, dalla scelta di lasciare l'insegnamento per sperimentare la condizione operaia, fino all'impegno come attivista partigiana, nonostante i persistenti problemi di salute.

Vicina al pensiero anarchico e all'eterodossia marxista, ebbe un contatto diretto, sebbene conflittuale, con Lev Trotsky, e fu in rapporto con varie figure di rilievo della cultura francese dell'epoca. Nel corso del tempo, legò se stessa all'esperienza della sequela cristiana, pur nel volontario distacco dalle forme istituzionali della religione, per fedeltà alla propria vocazione morale di presenziare fra gli esclusi. La strenua accettazione della sventura, tema centrale della sua riflessione matura, ebbe ad essere, di pari passo con l'attivismo politico e sociale, una costante delle sue scelte di vita, mosse da una vivace dedizione solidaristica, spinta fino al sacrificio di sé.

La sua complessa figura, accostata in seguito a quelle dei santi, è divenuta celebre anche grazie allo zelo editoriale di Albert Camus, che dopo la morte di lei, a soli 34 anni, ne ha divulgato e promosso le opere, i cui argomenti spaziano dall'etica alla filosofia politica, dalla metafisica all'estetica, comprendendo alcuni testi poetici.


Indice

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  • 1 Biografia

    • 1.1 Infanzia

    • 1.2 Adolescenza

    • 1.3 Impegno sociale e politico

    • 1.4 Il travaglio interiore e la guerra

    • 1.5 Morte e vicende postume

  • 2 Pensiero

    • 2.1 Filosofia

    • 2.2 Teologia mistica

  • 3 Opere

  • 4 Note

  • 5 Bibliografia

  • 6 Voci correlate

  • 7 Altri progetti

  • 8 Collegamenti esterni

Biografia [modifica]




Simone Weil a circa sei anni. Ripensando ai propri natali, scriverà: «La meditazione sul caso che ha fatto incontrare mio padre e mia madre è ancor più salutare di quella sulla morte. C'è forse una sola cosa in me che non abbia la sua origine in quell'incontro? Solo Iddio. E anche la mia idea di Dio ha la sua origine in quell'incontro».[1]


Infanzia [modifica]


Figlia di un medico di origini ebraiche – l'alsaziano Bernard Weil – e della russo-belga Selma Reinherz,[2] Simone Weil nasce il 3 febbraio 1909 a Parigi, ricevendo un'istruzione laica, raffinata e dal respiro internazionale, ma severa.[3] Già a cinque anni e mezzo, rabbrividendo mentre sua madre la lava in novembre nella casa priva di riscaldamento, ripete a se stessa le parole di Turenne: «Che hai da tremare, carcassa?».[4] Scriverà di questo periodo, trascorso con il fratello:

« Eravamo una famiglia molto unita, una famiglia tipica della buona borghesia israelita di quell'epoca. I nostri genitori erano agnostici, molto attenti all'educazione dei loro figli. La principale caratteristica della nostra educazione dipese dal fatto che nostra madre, per tutta la durata della guerra 14-18, volle seguire nostro padre in tutti i suoi spostamenti. Facevamo un trimestre qui, un trimestre là; abbiamo preso delle lezioni private, delle lezioni per corrispondenza, e ciò ci ha permesso di essere molto più avanti negli studi dei nostri coetanei che avevano seguito i corsi normali.[5] »

A nove anni viene premiata come migliore della classe, ma non può partecipare alla cerimonia perché ammalata di pertosse. A dieci anni rimane impressionata da come il trattato di Versailles aveva umiliato il nemico sconfitto, tanto da sviluppare, sin da bambina, una vena critica verso il patriottismo ed una istintiva indignazione verso ogni forma di costrizione. Durante tutto l'anno scolastico 1920-21 i genitori la fanno educare in casa perché convinti che sia troppo debole per frequentare la scuola.[6] Così ne presenterà l'infanzia il critico letterario Pietro Citati:

« Sembra di trovarci, trent'anni più tardi, nella famiglia di Proust. C'è lo stesso profumo ebraico: qui più antico e profondo, perché la famiglia della madre veniva dalla Galizia. C'è lo stesso sapore di Francia borghese [...]. Aveva occhi neri che fissavano arditamente, con una curiosità appassionata e indiscreta, un'avidità quasi intollerabile; e che parevano contraddetti dalla piega implorante delle labbra. [...] Perduta in un sogno eroico e cavalleresco, si proibiva qualsiasi debolezza. Pretendeva di non venire considerata una donna. Era piena di rifiuti, di disgusti e di ribrezzi. Non voleva essere toccata né abbracciata; e se qualcuno, persino la madre, le posava un bacio sulla fronte o allungava le braccia intorno alle sue spalle, diventava rossa di collera.[7] »



Simone a dodici anni, quando per la sua bellezza è considerata un soggetto degno di Murillo, tanto che ai suoi genitori viene consigliato di farle fare del cinema.[8] Scriverà vent'anni dopo: «Ciò che vale è unicamente la veglia, l'attesa, l'attenzione. Fortunati dunque coloro che dedicano l'adolescenza e la gioventù soltanto a sviluppare questo potere d'attenzione».[9]

Con il fratello maggiore André, amato e invidiato,[7] legge le fiabe dei fratelli Grimm, che saziano le sue giornate.[10] In particolare, durante un periodo di convalescenza trascorso a letto, la emoziona più di altre la storia Maria d'oro e Maria di catrame, dove la protagonista, dovendo scegliere se passare per una porta d'oro o una di catrame, risponde che le va bene quella di catrame e, inaspettatamente, viene coperta d'oro. Questo epilogo morale, affine agli insegnamenti del Vangelo, fa breccia nella sensibilità della Weil e le sarà di conforto nei momenti di disperazione.[11] Ella apprende inoltre come mascherare la sofferenza: si impone di non piangere e, quando le è impossibile trattenersi, afferma prontamente: «Non è pianto, è rabbia».[12]

Con André, che per primo le insegna a leggere, impara a memoria la commedia del Cyrano, e insieme la declamano, scambiandosi le parti, di fronte ai genitori. Da questi, lei e il fratello non ricevono giocattoli, ma soltanto libri come mezzo di evasione e spunto d'inventiva.[13] Una volta, ad esempio, emulando la condotta stoica, i due ragazzi prendono la decisione di non portare le calze d'inverno, per temprare l'organismo, ottenendo però l'effetto contrario: a Simone le gambe diventano blu. D'altra parte, la famiglia è amica del biologo Il'ja Il'ič Mečnikov, e il fratello evidenzierà in proposito: «I miei genitori svilupparono una fobia per i microbi, che mia sorella durante la sua infanzia spinse all'estremo».[14] André, che in famiglia è reputato un genio,[15] diventerà un celebre matematico, collaboratore di Albert Einstein.[5]


Adolescenza [modifica]


Simone soffre, fin dall'adolescenza, di forti e ricorrenti emicranie;[16] a quattordici anni si scontra con la sua prima crisi esistenziale.[5] La ragazza si convince di esser stata avvelenata nel corso della prima infanzia, spiegando ai conoscenti che «per questo sono tutta da rifare». Come forma di ribellione, assume un aspetto trasandato e mascolino, decisamente contrario alle convenzioni borghesi. Anche per senso di competizione verso il fratello, si firma nelle lettere ai genitori con l'espressione «il vostro figlio devoto», e la madre Selma, stando al gioco, declina al maschile il nome di lei, chiamandola «Simon».[17] Ricorderà così la crisi dei quattordici anni:

« Ho seriamente pensato alla morte, a causa delle mie mediocri facoltà naturali. Le doti straordinarie di mio fratello [...] mi obbligavano a rendermene conto. Non invidiavo i suoi successi esteriori, ma il non poter sperare di entrare in quel regno trascendente dove entrano solamente gli uomini di autentico valore, e dove abita la verità. Preferivo morire piuttosto che vivere senza di essa. Dopo mesi di tenebre interiori, ebbi d'improvviso e per sempre la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressoché nulle, penetra in questo regno della verità riservato al genio, purché desideri la verità e faccia un continuo sforzo d'attenzione per raggiungerla.[18] »

Fra il 1919 e il 1928 studia in diversi licei parigini, dove ha come professori di filosofia René Le Senne e Alain.[19] In particolare è il pensiero di Alain a influenzarla, come rileva la Pétrement, sua compagna al liceo Henri IV, secondo la quale, sebbene la Weil si distanzi dalla riflessione alainiana, tuttavia la sua filosofia si sviluppa proprio a partire da quella di Alain «prolungandola anche quando sembra opporvisi».[20] I primi scritti weiliani sono degli elaborati per il maestro Alain, propriamente dei topoi (τόποι), «saggi che scrivevamo spontaneamente per lui su argomenti di nostra scelta [...]. Simone ne consegnò spesso e senz'altro vi era particolarmente interessata».[21] Come nota il critico Marianelli, «i due topoi, elaborati all'età di sedici e diciassette anni, mostrano chiaramente la familiarità della Weil per miti e racconti popolari che riempivano da bambina le sue giornate».[22] Precisamente attorno al tema del mito si gioca la presa di distanza della Weil dal maestro Alain:



Simone Weil sorridente nel 1922. Graham Greene vedrà in lei, anche da adulta, un'impetuosa adolescente.[23]



« Mentre Alain vede nella mitologia, come scrive Durand, "solo l'infanzia confusa della coscienza", al contrario la Weil legge nei miti immagini del Divino che dà a pensare: il mito rimanda ad una realtà che da sempre si dà senza che sia l'uomo a porla. Ciò trova riscontro nel primo topos datato 1925: Le conte des six cygnes dans Grimm.[10][24] »

Attratta dal senso formale di Cartesio, al quale dedicherà la propria tesi,[25] ella mostra un rigore che la distingue dai suoi coetanei, dei quali, pur condividendo gli interessi politici, teme l'amicizia e gli slanci amorosi; pensa infatti che l'amore, come la vera amicizia, debba restare segreto,[26] avvertendo una vocazione alla verginità:

« Il concetto di purezza, con tutto ciò che la parola può implicare per un cristiano, si è impadronito di me a sedici anni, dopo che avevo attraversato, per qualche mese, le inquietudini sentimentali proprie dell'adolescenza. Tale concetto mi è apparso mentre contemplavo un paesaggio alpino e a poco a poco si è imposto a me in maniera irresistibile.[27] »

«L'amicizia è guardare da lontano e senza accostarsi», annota in seguito,[28] compenetrata dell'idea che la distanza sia la misura da rispettare in rapporto ai beni preziosi e che questi non debbano essere cercati, ma attesi. Introdotta da Alain ad amare Platone e Kant, dal cui pensiero non si sarebbe più slegata, viene soprannominata «la marziana» per la sua diversità, ed è presto ribattezzata «l'imperativo categorico in gonnella».[29] La Pétrement riferisce, infatti, le parole di Simone

« a proposito di quelli che non vivono in conformità coi loro princìpi: "Quel che non sopporto è che si transiga". Faceva a quell'epoca un gesto della mano, orizzontale e come per tagliare, che sembrava l'espressione stessa della sua intransigenza.[30] »

Un esempio di tale atteggiamento è quando, avendo appreso della carestia in Cina, discute con una giovane de Beauvoir, all'epoca studentessa come lei, affermando di avere a cuore solo «la Rivoluzione che avrebbe dato da mangiare a tutti»; o mentre, camminando per i giardini del Lussemburgo, Simone piange e afferra la giacca di un malcapitato studente, chiedendogli: «Come puoi ridere quando in Cina ci sono bambini che soffrono?».[31] Ella, d'altra parte, adora la fredda audacia della ragione e ne coltiva i paradossi:[28] superata la tentazione di dedicarsi come il fratello alla matematica,[32] sceglie di consacrarsi alla filosofia, affascinata dalla concezione determinista di Lucrezio, Machiavelli, Spinoza e Marx,[33] anche se di quest'ultimo scriverà:

« Quando, ancora nell'età dell'adolescenza, ho letto per la prima volta Il Capitale, alcune lacune, talune contraddizioni di grande importanza mi sono subito saltate agli occhi. [...] negli anni successivi, lo studio dei testi marxisti, dei partiti marxisti o sedicenti tali, e degli avvenimenti stessi non ha potuto che confermare il giudizio della mia adolescenza.[34] »

Impegno sociale e politico [modifica]




Simone Weil nel 1933. André Gide la definirà «la santa degli esclusi».[35]

La Weil attinge da Marx l'idea della rivoluzione come ricomposizione dell'unità, distrutta dal capitalismo, fra lavoro manuale e intellettuale, e quindi come riappropriazione («prendere possesso») della cultura. La stereotipata retorica della rivoluzione è invece per lei, analogamente alla religione formale, «oppio del popolo» secondo l'espressione marxiana.[36] Nel 1927-28, aprendo un corso per operai, afferma: «Quelli che credono sapere meno si troveranno forse alla fine a essere stati quelli da cui gli altri avranno più appreso».[37] Alcuni anni dopo, nel saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale (1934), da lei considerato il suo opus magnum, prenderà corpo la descrizione weiliana dell'industria moderna come luogo in cui il lavoro umano si riduce a mera fatica, e dove perciò soltanto il totalitarismo può prosperare, quel medesimo totalitarismo in cui si traduce qualsiasi forma di opinione organizzata.[38] Malgrado il suo impegno in favore dei proletari, che le guadagna il nuovo epiteto di «vergine rossa», ella non entra, né entrerà, nel Partito Comunista Francese, condividendo piuttosto il socialismo vecchio stampo di Jean Jaurès e Léon Blum.[39]

Ammessa all'École Normale Supérieure nel 1928, dopo essere stata respinta nel 1927,[40] nel 1931 vi supera l'esame di concorso per la docenza nella scuola media superiore. Insegna filosofia fra il 1931 e il 1938 nei licei femminili di varie città di provincia (Le Puy-en-Velay, Auxerre, Roanne, Bourges, Saint-Quentin). A Le Puy, suo primo luogo d'insegnamento, genera scandalo distribuendo lo stipendio fra gli operai in sciopero e guidando la loro delegazione in municipio.[19] Suscita inoltre il disorientamento delle sue alunne vietando loro di studiare sul manuale di filosofia e rifiutando a volte di dare i voti. Nonostante lo stipendio che riceve come insegnante, decide di vivere spendendo per sé solo l'equivalente di quanto percepito come sussidio dai disoccupati, per sperimentare le medesime ristrettezze di vita.[5] Considerata un'agitatrice comunista, nonché invitata da un funzionario scolastico a chiedere il trasferimento onde evitare di essere licenziata, pare abbia risposto di stimare il congedo, da sempre, come il punto più alto della carriera.[41]

Negli stessi anni è vicina ad ambienti sindacali e politici anarchici e trotskisti,[42] avendo avviato rapporti d'amicizia e collaborazione, già dal 1931, con noti esponenti del sindacalismo rivoluzionario espulsi dal Partito Comunista Francese: Pierre Monatte, Maurice Chambelland, Daniel Guérin.[43] Nell'agosto del 1932 si reca a Berlino per sondare il clima nel luogo più scottante del momento, alla vigilia della presa del potere da parte di Hitler; raccoglie le sue impressioni nell'articolo La Germania in attesa per La Révolution prolétarienne.[44] In novembre incontra Boris Souvarine e frequenta il suo circolo di dissidenti marxisti;[45] fra questi ha modo di conoscere Georges Bataille, che su di lei ricalca il personaggio di Lazare per il romanzo L'azzurro del cielo (1935).[46] Pur non aderendo al gruppo, ella collabora alla rivista La Critique sociale e si attiva, per tramite di Alain, allo scopo di convincere Gaston Gallimard a pubblicare un memoriale di Souvarine fortemente critico verso Stalin.[47][48]



Un affresco di Diego Rivera raffigurante Trotsky (al centro con gli occhiali, mentre tiene la bandiera della Quarta Internazionale) e Marx (ultimo a destra).

In opposizione alle strategie sovietiche la stessa Weil scrive due articoli, pubblicati nell'estate del 1933: Il ruolo dell'URSS nella politica mondiale – che stigmatizza l'avvicinamento dell'Unione Sovietica alla Germania nazista, dimostrazione che la Russia post-rivoluzionaria rimane uno stato all'antica – e Stiamo andando verso la rivoluzione proletaria?, dove la pensatrice individua nello stalinismo una forma di oppressione burocratica analoga al fascismo. A tali critiche risponde, in ottobre, nientemeno che Lev Trotsky, nel pamphlet La Quarta Internazionale e l'URSS, ammettendo i pericoli del burocratismo ma incolpando la Weil di «esaltazione anarchica a buon mercato» e di essere vittima «dei pregiudizi piccoloborghesi più reazionari».[49]

A fine dicembre la pensatrice ospita per alcuni giorni proprio l'esule Trotsky, assieme alla moglie, nel suo appartamento di Parigi. Trotsky – che viaggia in incognito con a fianco due guardie armate[50] – ne approfitta per organizzare una riunione clandestina, che si conclude con uno scontro verbale fra lui e la giovane,[45] la quale ritiene che ogni stato rappresenti, in quanto tale, un apparato oppressivo. Ella gli chiede come può giustificare la spietata repressione della rivolta di Kronštadt, e accusa lui e Lenin di avere un ruolo paragonabile a quello dei capitalisti che prosperano grazie a grandi carneficine. Da una stanza vicina i genitori della Weil sentono le urla di Trotsky (ella aveva chiesto il loro permesso per ospitarlo) e lui, osserverà il critico Thomas Nevin, «dovette essere preso alla sprovvista da questa novellina di ventiquattro anni, sua supposta padrona di casa. La apostrofò con una valanga di epiteti».[51] Al termine, Trotsky le domandò: «Dato che non è d'accordo con nessuna delle mie idee, perché mi ha ospitato in casa sua? Appartiene forse all'Esercito della Salvezza?».[52]


Il travaglio interiore e la guerra [modifica]




La fototessera di Simone Weil durante il suo impiego alla Renault, nel 1935. Ammetterà: «Ogni volta che penso alla crocifissione di Cristo pecco d'invidia».[53]



Dal 1930 la pensatrice avverte incessanti dolori fisici – legati al mal di testa, alla sinusite cronica[54] e, dal 1934, all'anemia[55] – che le fanno provare disprezzo e repulsione verso se stessa,[56] come confiderà, dodici anni più tardi, in una lettera al poeta Joë Bousquet:

« Sono abitata da un dolore localizzato intorno al punto centrale del sistema nervoso, al punto di congiunzione dell'anima e del corpo, che dura anche nel sonno e non mi ha mai lasciato un istante [...] e accompagnato da un tal senso di prostrazione, che il più delle volte i miei sforzi di attenzione e di lavoro intellettuale erano quasi altrettanto svuotati di speranza di quelli di un condannato a morte che deve essere giustiziato l'indomani. [...] Ero sostenuta dalla fede, acquisita a quattordici anni, che nessuno sforzo di autentica attenzione va mai perduto, anche quando non porti mai direttamente o indirettamente qualche risultato visibile. Tuttavia il momento è giunto in cui ho creduto di essere minacciata, a causa della prostrazione e dell'aggravarsi del dolore, da una degradazione così spaventosa di tutta l'anima che, per molte settimane, mi sono domandata con angoscia se morire non fosse per me il dovere più imperioso, benché mi sembrasse mostruoso che la mia vita dovesse concludersi nell'orrore.[56] »

In questo stato psicofisico,[57] ella sviluppa il desiderio di conoscere direttamente la situazione operaia e ne scopre la terribile monotonia e dipendenza.[19] Il 4 dicembre 1934 prende impiego come manovale nelle fabbriche metallurgiche di Parigi, dove, avendo scarsa dimestichezza coi macchinari, più volte si brucia e taglia le mani, patendo l'indifferenza e il licenziamento.[58] «Laggiù mi è stato impresso per sempre il marchio della schiavitù», constaterà.[59] L'esperienza di otto mesi di lavoro nelle officine Alstom, Carnaud e Renault[60] – che aggrava ulteriormente le sue condizioni di salute – verrà raccolta, sotto forma di diario e di lettere, nell'opera La condizione operaia, in cui confluirà anche l'articolo La vita e lo sciopero delle operaie metalmeccaniche, scritto dalla Weil per la rivista La Révolution prolétarienne con lo pseudonimo «Simone Galois» in onore del matematico Évariste Galois.[61] Si reca inoltre in Portogallo, dove conosce e vive la miseria dei pescatori. Qui, a Póvoa de Varzim, nell'estate del 1935, ode un fado suonato per la festa del patrono; la lamentosa melodia le infonde un'impressione indelebile:[62]



Simone Weil in Spagna, con il fucile in spalla. Racconterà allo scrittore Georges Bernanos: «Non mi piace la guerra; ma, nella guerra, ciò che mi ha sempre fatto più orrore è la condizione di chi si trova nella retrovia. Quando mi sono resa conto che, malgrado i miei sforzi, non potevo impedirmi di partecipare moralmente a questa guerra e cioè di desiderare ogni giorno, ogni ora, la vittoria degli uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi era per me la retrovia, e ho preso il treno per Barcellona con l'intenzione di arruolarmi».[63]



« Improvvisamente, ebbi la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, ed io con loro.[59] »

Già Nietzsche, nell'Anticristo, aveva assimilato la religione cristiana alla schiavitù, ma per scorgervi un «risentimento»; invece la Weil trova, in tale similitudine, l'esperienza di un contatto umano.[64] Nel contempo, si rinsalda in lei la convinzione che anche i deboli possano combattere;[55] difatti, dopo un altro anno d'insegnamento – durante il quale frequenta la messa e lavora saltuariamente in una fattoria[65] – si aggrega ai repubblicani, che per lei rappresentano gli umili,[66] nella guerra civile spagnola. L'8 agosto 1936 varca la frontiera con un lasciapassare da giornalista ed entra come miliziana fra i volontari della colonna anarchica Buenaventura Durruti, sul fronte aragonese.[67] Non essendo capace di padroneggiare il fucile, viene assegnata ai lavori in cucina.[5] Pur non partecipando ai combattimenti,[68] il 19 agosto si ferisce, ponendo inavvertitamente il piede in una pentola d'olio bollente lasciata a terra,[69] quindi, gravemente ustionata nonché dubbiosa sull'utilità del conflitto, torna in settembre a Parigi;[70] spiegherà:

« Non era più, come mi era sembrata all'inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra la Russia, la Germania e l'Italia.[71] »

Nel 1937 prende parte, con il fratello, al congresso Bourbaki a Chançay, un ritrovo incentrato sulla discussione del pensiero di Georg Cantor.[72] Nello stesso anno, mentre viaggia ammalata per l'Italia, s'inginocchia nella cappella di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, sentendosi trascinata da una forza irresistibile.[66][59] Commenterà al riguardo Georges Hourdin, delineando un paragone tra lei e Francesco:

« Da molto tempo esisteva una stretta complicità fra il figlio del commerciante di tessuti di lana che visse ad Assisi all'inizio del XIII secolo e la sindacalista rivoluzionaria, fra il fondatore della fraternità francescana e la professoressa di filosofia che nel XX secolo, fra le due guerre mondiali, chiede una risposta all'interrogativo posto dall'esistenza del dolore umano.[73] »

In Italia, dove stringe amicizia con Edoardo Volterra e la sua famiglia,[74] la Weil torna l'anno seguente, riscoprendo la propria «vocazione per la poesia, vocazione rimossa per diverse ragioni fin dall'adolescenza».[75] Iniziano le sue esperienze mistiche, che proseguono, sempre nel 1938, quando trascorre la Pasqua a Solesmes subendo il fascino dei canti gregoriani.[66] Per esempio, mentre osserva un giovane che ha ricevuto la comunione, lo vede rilucere di uno splendore angelico, e recitando L'amore mi diede il benvenuto di George Herbert avverte Cristo che discende a prenderla.[76][77] Ricorderà in merito:

« La parola Dio non aveva alcun posto nei miei pensieri. Lo ha avuto solamente a partire dal giorno [...] in cui non ho potuto rifiutarglielo. In un momento d'intenso dolore fisico, mentre mi sforzavo di amare, ma senza attribuirmi il diritto di dare un nome a questo amore, ho sentito, senza esservi assolutamente preparata, una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, inaccessibile sia ai sensi che all'immaginazione, analoga all'amore che traspare attraverso il più tenero sorriso di un essere amato. Non potevo essere preparata a questa presenza – non avevo mai letto i mistici. Da quell'istante il nome di Dio e quello di Cristo si sono mescolati in maniera sempre più irresistibile ai miei pensieri. Fino ad allora la mia unica fede era stata l'amor fati degli stoici, come l'intese Marco Aurelio, e l'avevo sempre fedelmente praticata.[57] »

Ma custodisce in segreto questa sua iniziazione, convinta che si possa essere mistici senza darlo a vedere,[76] e non si decide a entrare nella Chiesa cattolica per timore di trovare in essa un facile riparo che l'avrebbe potuta allontanare dalla passione vissuta insieme a Cristo.[78] Inoltre, in un primo tempo, si trattiene dal pregare:

« Mi pareva infatti – e lo credo ancor oggi – che non si resista mai abbastanza a Dio, se lo si fa per puro scrupolo di verità. [...] Durante tutto questo periodo di evoluzione spirituale non ho mai pregato: temevo il potere di suggestione della preghiera, quel potere per cui Pascal la raccomanda. Il metodo di Pascal mi pare uno dei peggiori per giungere alla fede.[79] »



Uno scorcio di Marsiglia, detta la «città focese» per le sue origini greche, in un olio su tavola di Louis Nattero.

Alla vigilia della seconda guerra mondiale, arroccata su posizioni pacifiste, ritiene che qualunque tragedia, compresa l'egemonia tedesca, sia preferibile allo scoppio d'un conflitto; ma si persuade poi, «dopo una dura lotta interiore», a «perseguire la distruzione di Hitler con o senza speranza di successo»,[80] pur mantenendosi impegnata a «sostituire sempre più nel mondo la non-violenza efficace alla violenza».[81]

Nella primavera del 1939 contrae la pleurite, ma si rimette in sesto grazie a una vacanza in Svizzera con i genitori.[82] Il 13 giugno 1940, a causa dell'invasione tedesca, la famiglia abbandona Parigi e trascorre due mesi a Vichy, dove Simone redige una prima stesura del dramma Venezia salva, ispirato al racconto La congiura degli spagnoli contro la repubblica di Venezia di Saint-Réal. Con i genitori si sposta quindi a Tolosa[83] e in settembre raggiunge Marsiglia, dove legge e scrive molto, pubblica il saggio L'Iliade o il poema della forza sotto lo pseudonimo anagrammato «Émile Novis»,[84] visita i quartieri più miseri, fraternizza con i poveri, i fool e gli abbandonati. Impara il sanscrito assieme a René Daumal, studia le Upaniad e la Bhagavadgītā, riscopre Platone, Sofocle, il Nuovo Testamento, Giovanni della Croce, Paul Valéry.[85] A quest'ultimo aveva inviato, nel 1937, alcune delle proprie poesie in attesa di un giudizio critico, ricevendo una replica cortese alla prima lettera ma nessuna risposta alla seconda.[86]





Simone Weil in Svizzera con gli sci. «Lei aveva il dono di pronunciar parole con significato umano illimitato», affermerà Joë Bousquet.[87] La Weil, da parte sua, aveva fatto propria la massima: «Niente di quello che è umano mi è estraneo» (Humani nihil a me alienum puto).[5] La poetessa Elsa Morante la chiamerà «Sorelluccia inviolata / ultima colomba dei diluvi stroncata / bellezza del Cantico dei Cantici camuffata in quei tuoi buffi occhiali da scolara miope».[88]



Nella «città focese» la pensatrice viene arrestata mentre distribuisce volantini contro il Governo di Vichy e, quando il giudice minaccia di chiuderla in cella con delle prostitute, replica di aver sempre desiderato conoscere quell'ambiente e di non avere altro mezzo per farlo che la prigione. Al che, il giudice la lascia andare credendola matta. Ella si attiva inoltre – nonostante la sua ripugnanza a infrangere le leggi, per mediocri che siano – nel procurare documenti falsi ai rifugiati, compresi alcuni, come lei, di origine ebrea.[89] Sempre a Marsiglia conosce Joseph-Marie Perrin, un domenicano poco più anziano di lei, quasi cieco, che diventa per la Weil un confidente spirituale; egli raccoglierà nel volume Attesa di Dio alcuni scritti lasciatigli da Simone.[90] Perrin le presenta il «filosofo contadino» Gustave Thibon, che la assume nella propria fattoria a Saint-Marcel-d'Ardèche.[91] Così, nell'autunno del 1941, la pensatrice lavora come operaia agricola, abitando in una casetta semidiroccata, presso la quale si nutre di legumi colti dal terreno, cotti col fuoco della legna che raccoglie nel bosco, beve l'acqua a una sorgente e dorme al suolo, per poi recitare ogni mattina il testo greco del Padre nostro, che ha imparato a memoria.[92] Confiderà:

« Da allora mi sono imposta, come unica pratica, di recitarlo ogni mattina [...]. Talvolta anche, mentre recito il Padre nostro oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara, più colma d'amore della prima volta in cui mi ha presa.[93] »

In questo eden campestre si ritaglia forse per l'unica volta in vita propria una porzione di felicità, sviluppa ammirazione per il Tao e si propone, lei così inquieta, di divenire calma e distesa.[94] Anche Thibon raccoglierà in un volume, La pesanteur et la grâce, gli scritti lasciati a lui dalla Weil, ovvero una serie di riflessioni religiose che ricordano Pascal e Kierkegaard,[95] rivelando un genio aforistico affine, oltre che a Paolo e Pascal, anche a Baudelaire, e inoltre un rigore mistico paragonabile a Musil.[96] Ella, riprendendo la strada dell'esilio, autorizza Thibon a estrarne il "meglio":

« Non so se le ho detto, a proposito di questi quaderni, che può leggerne i passi che vorrà a chi vorrà [...]. Se per 3 o 4 anni non sentirà parlare di me, se ne consideri interamente proprietario.[97] »

Dal momento che il padre e la madre non accettano di allontanarsi dalla Francia senza di lei, il 14 maggio 1942 giunge con loro a Casablanca, e per alcuni giorni, in un campo profughi affollato da centinaia di esuli ebrei, scrive senza sosta le Intuizioni precristiane:[98] un altro insieme di testi raccolti, come Attesa di Dio, da Padre Perrin.[99] Il 7 luglio sbarca con i genitori a New York, dove li attende il fratello André.[100] Nella metropoli statunitense, Simone frequenta i quartieri afroamericani e le chiese battiste,[101] passa molto tempo in biblioteca, scrive due saggi sui catari ed espone nella Lettera a un religioso le obiezioni che ha maturato nei riguardi della dottrina ecclesiastica. A turbarla, in particolare, è la formula «extra Ecclesiam nulla salus». Tuttavia continuerà ad assistere da "esclusa", per la sua esitazione al battesimo, alle messe cattoliche, traendo ugualmente piacere dalla liturgia[102] e spiegando come segue le ragioni del suo restare in attesa – ἐν ὑπομονῇ (en upomoné) secondo un'espressione del Nuovo Testamento a lei cara – sulle soglie della Chiesa:[103]

« Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. [...] Poiché sento così intensamente e dolorosamente questa urgenza, tradirei la verità, cioè quell'aspetto della verità che io scorgo, se abbandonassi la posizione in cui mi trovo sin dalla nascita, cioè il punto di intersezione tra il cristianesimo e tutto ciò che è fuori di esso. [...] C'è un ostacolo assolutamente insormontabile all'incarnazione del cristianesimo, ed è l'uso di due brevi parole: anathema sit. [...] Mi schiero al fianco di tutte le cose che, a causa di quelle due brevi parole, non possono entrare nella Chiesa, ricettacolo universale.[104] »

Con una delle sue asserzioni paradossali, si pronuncia «disposta a morire per la Chiesa, se mai ne avesse bisogno, piuttosto che entrarvi».[105] In dicembre parte per Londra per unirsi all'organizzazione France libre dei resistenti in esilio. Digiunando, si sente spiritualmente vicina ai connazionali della zona occupata,[16] e, quando viene a sapere delle dimostrazioni francesi represse nel sangue, trascorre due giorni senza mangiare.[106] Ma, nel contempo, è attratta dalla vitalità londinese e legge la Austen con incanto.[101] In qualità di redattrice della France libre, è incaricata di raccogliere idee su come gestire la situazione politica nel dopoguerra, ed è sotto il peso di questa responsabilità che scrive l'opera intitolata postuma come L'enracinement,[107] oltre a vari articoli successivamente inseriti nel volume Écrits de Londres.[108] Nell'ufficio dell'organizzazione, mentre sogna d'essere paracadutata in qualche missione estremamente rischiosa, annota fra l'altro: «Ho una specie di certezza interiore crescente che esiste in me un deposito d'oro da trasmettere. [...] La miniera d'oro è inesauribile».[101]



La croce di Lorena, simbolo della France libre, in un monumento dedicato alla liberazione francese.

Da tempo ella tenta di fare accettare a De Gaulle una proposta per l'invio d'un gruppo di infermiere – lei compresa – sulla prima linea del fronte, ma il presidente francese valuta questa iniziativa una follia. Anche la pensatrice la considera una «follia», ma necessaria quale contrappeso di generosità da contrapporre alla violenza estrema dell'hitlerismo,[109] come da lei illustrato nel testo del progetto:


« Soltanto Hitler ha finora colpito l'immaginazione delle masse. Ora bisognerebbe colpire più forte di lui. Questo corpo femminile costituirebbe senza dubbio un mezzo in grado di riuscirci. [...] Questo corpo da una parte e le S.S. dall'altra creerebbero con la loro contrapposizione un'immagine da preferire a qualsiasi slogan. Sarebbe la rappresentazione più clamorosa possibile delle due direzioni tra le quali l'umanità oggi deve scegliere.[110] »

Vedendosi impossibilitata a partecipare attivamente alla guerra, la Weil cede a un sentimento di autodistruzione.[109] In luglio aveva scritto a Jacques Maritain:

« Se non riuscissi a realizzare né il progetto di una formazione di infermiere di prima linea né quello di essere inviata in Francia per una missione rischiosa cadrei in uno stato di prostrazione. Perché, dal momento che condividevo laggiù (a Marsiglia) le sofferenze e i rischi, e che ho abbandonato tutto ciò nella speranza di una maggiore e più efficace partecipazione, se non potessi farlo, avrei la dolorosa sensazione di avere disertato.[111] »

Claude Lévi-Strauss, ricordando un incontro avuto a New York con la Weil, affermerà: «Le intellettuali della nostra generazione erano spesso eccessive: lei non faceva eccezione, ma ha spinto questo rigorismo fino a farsi distruggere»,[112] e Susan Sontag esprimerà – assieme alla commozione – un giudizio analogo: «Nessuno che ami la vita vorrebbe imitare la sua dedizione al martirio».[113] D'altra parte, come osserva il critico Thomas Nevin, era convinzione della pensatrice che «coraggio, dignità e onore trovano la loro verifica solo nell'essere distrutti; l'eroismo doveva finire in sconfitta».[114]



La tomba di Simone Weil.


Morte e vicende postume [modifica]


Il 15 aprile 1943 viene trovata svenuta nella sua camera, e quindi portata all'ospedale. Affetta da tubercolosi, aggravata dalle privazioni che aveva deciso di imporsi, muore il 24 agosto nel sanatorio di Ashford, fuori Londra, spegnendosi serenamente, nel sonno.[115] Nella primavera dell'anno precedente, aveva scritto all'amico Padre Perrin:

« Mi sono sempre proibita di pensare a una vita futura, ma ho sempre creduto che l'istante della morte sia la norma e lo scopo della vita. Pensavo che per quanti vivono come si conviene, sia l'istante in cui per una frazione infinitesimale di tempo penetra nell'anima la verità pura, nuda, certa, eterna. Posso dire di non avere mai desiderato per me altro bene.[116] »

Dal suo letto d'ospedale, con la finestra affacciata contro un muro, aveva raccontato per lettera ai genitori, rimasti a New York, la nascita delle ciliegie sugli alberi, lei che ormai non sopportava più i cibi solidi, se non, appunto, qualche ciliegia.[117] E lasciava loro queste parole:

« Non siate ingrati verso le cose belle. Godete di esse, sentendo che durante ogni secondo in cui godete di loro, io sono con voi... Dovunque c'è una cosa bella, ditevi che ci sono anch'io.[117] »

Aveva inoltre espresso il desiderio di mangiare del purè, come lo faceva sua madre, secondo la ricetta francese, scrivendole: «Voglio che, quando ci rivedremo, tu sia sempre fresca e giovane, e continui ad avere l'aria della mia sorella minore». Ma non ci fu purè, e nemmeno un prete cattolico – che fu chiamato, ma non arrivò – al suo funerale. Sepolta il 31 agosto nella sezione cattolica del cimitero di Ashford, sette persone assistettero alla cerimonia.[118] Nello stesso giorno, il Tuesday Express titolò in prima pagina: «Professoressa francese si lascia morire di fame» (French professor starves herself to death).[119]



Targa commemorativa ad Ashford.



Papa Paolo VI, nel considerare la pensatrice come una delle figure più influenti sulla propria vita,[23] affermerà di dispiacersi per il suo mancato approdo al battesimo, in quanto meritevole di essere proclamata santa.[120] Tuttavia, in base a recenti ricerche e testimonianze – in particolare quella diretta di Simone Deitz, «l'amica che versò l'acqua sulla sua fronte» secondo Eric Springsted, docente presso l'Università di Princeton, «e recitò la formula della Chiesa col consenso di Simone»[121] – avrebbe chiesto e ottenuto il battesimo in articulo mortis.[122] La Weil aveva promesso, con ironia, di accettare il battesimo solo nel caso in cui non avesse avuto più cervello,[123] pur non escludendo una propria adesione alla Chiesa in punto di morte, se ne avesse avvertito l'invito da parte di Dio:

« Fino ad ora non ho avuto mai nemmeno per un attimo la sensazione che Dio mi voglia nella Chiesa, sebbene me lo sia chiesto spesso durante la preghiera, durante la messa, o alla luce di quel raggio che rimane nell'anima dopo la messa. [...] Mi sembra sia sua volontà che io ne rimanga fuori anche in avvenire, salvo forse al momento della morte. Sono comunque pronta a obbedire a qualsiasi ordine.[124] »

A parte alcuni articoli, le sue opere vengono pubblicate postume, e iniziano ad essere tradotte in italiano per iniziativa di Adriano Olivetti[125] nei primi anni cinquanta, quando esce anche un film di Roberto Rossellini (Europa '51) la cui protagonista è ispirata alla figura di Simone Weil.[5][126] I volumi La pesanteur et la grâce e L'enracinement vengono editi in lingua italiana dalle Edizioni di Comunità secondo la traduzione più poetica, sebbene meno letterale, di Franco Fortini, che rende i titoli in L'ombra e la grazia e La prima radice.[127]

È Albert Camus a divulgare originariamente la maggior parte degli scritti della Weil, diventando per lei un «amico-innamorato postumo», tanto da custodire una foto della pensatrice sul proprio scrittoio.[128] In occasione del ricevimento del premio Nobel, menzionando gli autori viventi più importanti per lui, aggiunge: «E anche Simone Weil – a volte i morti sono più vicini a noi dei vivi».[129] Camus fa pubblicare le opere della pensatrice nella collana Espoir («Speranza»), da lui fondata presso l'editore Gallimard, considerando il messaggio weiliano come un antidoto al nichilismo contemporaneo.[125] Lei stessa si era prefissata un simile compito:



« Nei due o tre prossimi anni sarà fatto obbligo – un obbligo talmente stretto che il sottrarvisi sarà quasi un tradimento – di far conoscere pubblicamente la possibilità di un cristianesimo veramente incarnato. Nel corso di tutta la storia attualmente conosciuta, mai vi fu un'epoca come l'attuale, in cui le anime fossero in un tale pericolo nel mondo intero.[130] »

I suoi quaderni, editi parzialmente da Thibon nel 1947 nel volume La pesanteur et la grâce, vengono pubblicati integralmente a partire dal 1951 sotto il titolo, appunto, di Quaderni (Cahiers).[131]

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