S giovanni bosco


XXII. Ezio ed Attila re degli Unni



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XXII.
Ezio ed Attila re degli Unni (68).

(Dall’anno 410 all’anno 455 dopo Cristo).


I Romani di quel tempo, cari giovani, avevano affatto degenerato dal valore degli antenati. Il lusso, vale a dire la smodata magnificenza delle vesti, delle abitazioni e delle mense; splendidi palazzi, giardini deliziosi, immensa ed inutile quantità di servi, ed ogni sorta di mollezze erano sottentrati alla semplicità ed al marziale coraggio dei gloriosi capitani, i quali spesso lasciavano l’aratro per mettersi in capo all’esercito a fine di liberare la patria. Ciò non ostante vi furono alcuni generali, che si segnalarono per valore e coraggio, tra cui uno di nome Ezio, l’altro Bonifacio.

Ezio era un gran capitano ed un profondo politico, che contribuì a ritardare alquanto la caduta dell’impero d’Occidente. Egli era d’indole altero e molto dominato dall’invidia, perciò voleva dominare solo.

Bonifacio era al pari di lui abile e valoroso, ma più giusto, più moderato, più generoso, e per questo appunto venne in invidia al suo rivale, che tentò di perderlo. Ezio lo accusò di tradimento presso a Placidia imperatrice, madre del giovane Valentiniano; quindi Bonifacio per non rimaner vittima della calunnia di Ezio fu costretto a chiamare in Africa i Vandali dalla Spagna.

Questi barbari, ariani di religione, sotto il comando di Genserico, principe prode, ma fiero nemico de’ cattolici, si diffusero a maniera di torrente nell’Africa, e l’inondarono di sangue e di stragi.

Mentre queste cose avvenivano si avanzava verso dell’Italia un nemico che minacciava di riuscire ai Romani più funesto degli stessi Vandali: questi fu il feroce Attila re degli Unni. Questo barbaro aveva estese le sue conquiste dal mare Baltico al Ponto Eusino, ossia Mar Nero, e fino al di là del mar Caspio, nel paese detto Grande Tartaria. Godeva egli di farsi soprannominare flagello di Dio, nome a lui ben dovuto a motivo delle devastazioni, onde il suo cammino era dappertutto segnato. Testa grossa, larghe spalle, occhi piccoli e scintillanti, naso grosso e schiacciato, colore fosco, andamento minaccioso, ecco il ritratto di quell’orribile mostro.

Questo formidabile guerriero alla testa di cinquecento mila soldati, come impetuoso torrente, attraversò tutte le province bagnate dal Danubio, ed abbattendo eserciti ed atterrando città penetrò nelle Gallie, spargendo ovunque il terrore.

Il valoroso Ezio non istava inoperoso; egli mise in armi i più prodi soldati che poté avere, e con un potente esercito andò ad incontrare Attila, allora che dava il saccheggio alla città d’Orléans. Quella parte dell’esercito di Attila, sorpresa così all’impensata, toccò grave sconfitta. Quanti Unni erano tra le mura della città furono fatti prigionieri, uccisi o precipitati nella Loira.

Attila fremendo di rabbia rannodò i suoi e si recò nelle pianure che si distendono tra la Senna e la Marna. Ezio lo inseguì in quelle vastissime pianure, e si venne ad una battaglia, di cui non leggesi la somigliante nella storia. Due eserciti agguerriti e numerosissimi erano a fronte; le campagne irte di ferri per uno spazio che potevasi difficilmente misurare coll’occhio, presentavano un fiero spettacolo, che ben presto divenne ancora più spaventevole pel furore della pugna.

Gli Unni ebbero la peggio, ed Attila stesso si trovò in grave pericolo; e forse per la prima volta intimorito abbandonò ai Romani il campo di battaglia, ingombro di circa cent’ottanta mila cadaveri de’ suoi. Raccontasi che i soldati di Ezio, stanchi delle lunghe fatiche, andarono ad un vicino ruscello per dissetarsi, e al vedere la corrente rigonfia di sangue umano, pieni di orrore se ne allontanarono.

Attila, vedendo essergli impossibile ripigliare la guerra, si affrettò a ritornare ne’ suoi Stati. Ma nell’anno appresso raccolse un altro poderoso esercito, e venne sopra l’Italia per vendicarsi della ricevuta sconfitta. Non si può esprimere il guasto da lui fatto. Si fu in quell’universale spavento che molti Italiani fuggirono in alcune deserte isolette dell’Adriatico, e ivi fondarono una città, cui diedero il nome di Venezia, della quale avrò poi più cose interessanti a raccontarvi.

Dopo avere saccheggiata Milano, Attila colle sue genti si avanzava minaccioso verso Torino, i cui abitanti atterriti si apprestavano alla fuga. In sì terribile frangente S. Massimo, Vescovo di questa città, ne radunò gli abitanti e con autorità ed affetto di padre ravvivò in tutti il coraggio, esortandoli a riporre in Dio una piena confidenza. «Afforzate le mura, loro diceva, ma la maggior vostra cura sia nel placare lo sdegno di Dio colla preghiera e colla penitenza. No, Torino non cadrà sotto le armi di Attila, se voi piangendo le vostre colpe placherete l’ira divina eccitata dai peccati degli uomini». Le parole di san Massimo si avverarono, ed Attila invece di venire a Torino si volse verso Roma, oggetto primario delle sue brame.

Ezio non aveva potuto mettere in piedi genti che bastassero per opporsi a sì potente nemico; l’imperatore coi suoi generali tremavano di spavento, ma l’Italia ebbe un uomo che solo la salvò: egli fu san Leone papa. Questo grande Pontefice, alla vista de’ mali che Attila aveva fatto e si preparava a fare per tutta l’Italia, fidato nella protezione del cielo, si vestì pontificalmente, e lo andò ad incontrare vicino a Mantova, dove il Mincio scarica le sue acque nel Po.

Il superbo Attila, alla maestà di quel sant’uomo, compreso da profonda venerazione, lo ricevette cortesemente, e come l’ebbe udito, accettate senz’altro le condizioni proposte, ripassò le Alpi, lasciando tutta l’Italia in pace. I soldati di Attila stupiti gli chiesero come mai tanto si fosse umiliato avanti ad un uomo inerme, quando i più potenti eserciti non gli inspiravano alcun timore. Egli rispose che, mentre parlava col romano Pontefice, aveva sopra di lui veduto un personaggio di abito sacerdotale vestito, che vibrava una spada sguainata, minacciando di colpirlo, se non ubbidiva a Leone.

Il tremendo conquistatore, per buona fortuna del genere umano, non tardò a ritornare nei suoi Stati; dove poco dopo morì per un eccesso di crapula, e con lui sparì il vasto impero da esso fondato.

Ezio lo seguì nella tomba, vittima d’una congiura simile a quella che esso medesimo aveva più volte ordito ai propri nemici. Egli fu accusato come ribelle presso a Valentiniano, il quale fattolo venire alla sua presenza, senza che ne avesse il minimo sentore, gli immerse egli stesso la spada nel petto. Con questo omicidio Valentiniano si privò dell’unico capitano che potesse opporre a’ suoi nemici; e alcuni mesi dopo perì egli medesimo ucciso da uno de’ suoi ufficiali, per nome Massimo, che in un istante di collera aveva maltrattato (Anno 455).

Questi gli succedette, prese il titolo di imperatore, e regnò soltanto due mesi, durante i quali Roma fu un’altra volta saccheggiata da un altro barbaro, chiamato Genserico re dei Vandali. Il saccheggio durò quattordici giorni, in cui per altro furono risparmiate le persone e gli edifizi ad istanza del Pontefice san Leone.




XXIII.
Ultimi Imperatori d’Occidente, e principii di Odoacre (69).

(Dall’anno 455 all’anno 476 dopo Cristo).

L’Impero d’Occidente, che prima comprendeva la metà del mondo allora conosciuto, al tempo di cui vi parlo era quasi affatto caduto in mano dei barbari, i quali lo divisero in una quantità di piccoli regni. L’Italia sola conservava ancora un’ombra del vecchio impero; ma i suoi imperatori appena potevano salire sul trono, che quasi a guisa di fantasmi sparivano.

Morto Valentiniano III ottenne l’impero un illustre generale per nome Avito, che riportò molte vittorie contro ai barbari, e sarebbesi acquistata gloria, se non avesse avuto a fare con uno dei suoi generali di nome Ricimero. Costui, goto di nascita, fin dalla prima gioventù si era reso celebre per valore, ed era giunto rapidamente ai primi gradi della milizia. Ambizioso, senza fede, senza onoratezza, egli non pativa alcuno a sé superiore. Obbligò Avito a rinunciare all’impero, ed in vece di lui elesse Maggioriano, uno de’ suoi compagni d’armi. Il novello imperatore si segnalò contro a Genserico, re de’ Vandali, e lo costrinse ad una pace vantaggiosa. Al senno politico egli accoppiava il valore di grande capitano, e forse sarebbe riuscito a raffermare il vacillante trono de’ Cesari, se Ricimero, temendo di vedere la sua gloria oscurata, non lo avesse fatto mettere a morte.

Il barbaro Ricimero diede poscia il trono a Libio Severo, la cui inabilità non gli poteva dare ombra di sorta. Sotto a questo fantasma di sovrano Ricimero la fece da tiranno: accumulò tesori, ebbe un esercito suo proprio, con chiuse trattati particolari, ed esercitò in Italia un’autorità indipendente.

L’Italia gemeva da sei anni sotto la tirannide di Ricimero, quando Leone I imperatore d’Oriente collocò sul trono di Roma un generale appellato Antemio. Malgrado gli onori onde era colmo, l’ambizioso Ricimero non poteva vedere l’Italia in pace, e tentò di muovere i barbari a tumulto. Antemio gli manifestò il suo disgusto, ed egli sùbito si rivolse contro al suo sovrano, preparandosi a combatterlo.

I Liguri o Genovesi, temendo le conseguenze di una guerra civile, spedirono un’ambasciata a sant’Epifanio vescovo di Pavia, perché interponesse la sua mediazione e riconciliasse il ribelle col suo legittimo sovrano. Finse Ricimero di sottomettersi, e intanto si mosse colle sue genti contro ad Antemio, il quale rimase trucidato. Ma Ricimero non poté godere del frutto di questo nuovo delitto, e pochi giorni dopo morì egli pure fra gli spasimi di una dolorosissima infermità nel 474.

In questo tempo venne in Italia un uomo di nome Odoacre, il quale doveva estinguere affatto il cadente impero d’Occidente. Di nazione barbaro, egli era già stato ministro del feroce Attila. Aveva passato la sua giovinezza in una vita errante, raccogliendo intorno a sé parecchi compagni, che egli procurava di affezionarsi conducendoli a ruberie. Dal Norico, vastissima provincia della Germania, che oggidì dicesi Austria, scese in Italia alla testa di que’ venturieri, e arrolatosi nelle guardie imperiali, in breve pervenne ai primi gradi della milizia. Le guardie imperiali, come quasi tutto il romano esercito, altro più non erano che un miscuglio di barbari.

L’imperatore Leone fece l’ultimo sforzo per ritardare la caduta dell’Impero d’Occidente, e mandò un generale per nome Nepote, il quale alla testa di poderoso esercito depose un certo Glicerio, che aveva usurpato il trono, e si fe’ egli stesso proclamare imperatore.

Ma tosto un prode generale, chiamato Oreste, mosso dal desiderio di porre il suo figliuolo sul trono, sollevò le guardie contra Nepote, riuscì a detronizzarlo e a far proclamare imperatore Romolo Augusto, che i Romani o per la giovanile età, o per disprezzo dissero Augustolo. Le guardie però che avevano cooperato all’elezione di Augustolo pretendevano che in compenso fosse loro data una parte delle terre d’Italia; al che Oreste non volle acconsentire, perché era un vero latrocinio.

Odoacre, saputo questo, si offrì per capo ai malcontenti, e promise di soddisfarli, purché fossero disposti ad obbedirgli. Tutti i barbari dispersi per 1’Italia tosto si unirono sotto ai suoi vessilli. Pavia fu presa d’assalto, e il prode Oreste, che la difendeva, messo a morte.

Allora lo sfortunato Augustolo vedendosi da tutti abbandonato si spogliò della porpora, e il vincitore Odoacre, mosso a compassione della sua giovinezza, gli lasciò la vita, e gli assegnò un luogo sicuro nel mezzodì d’Italia, dove poté tranquillamente finire, l’inutile vita in una deliziosa casa di campagna, sulle spiagge del Mediterraneo.

Roma si sottomise al nuovo padrone, e i barbari spargendosi per tutta l’Italia l’assoggettarono interamente l’anno 476. Con questa mutazione di cose fu spento l’impero d’Occidente dopo aver durato 507 anni dalla battaglia d’Azio, e 1229 dalla fondazione di Roma.

Finì sotto Romolo Augustolo, il quale per un tratto di somiglianza tutto singolare aveva il medesimo nome del fondatore di Roma e quello del fondatore del Romano impero. La sua rovina si andava da lungo tempo preparando, perciò fu appena sentita nel mondo: cadde egli senza fragore, simile ad un uomo attempato, che, privo di forze e dell’uso delle membra, renda l’ultimo fiato sfinito dalla vecchiezza.

USI E COSTUMI DEGLI ANTICHI ITALIANI*
ORDINE CIVILE (71).

[(*) V. PIER LUIGI DONINI: Delle Antichità Romane, libri cinque. - ATTO VANNUCCI: Sui primi abitatori d’Italia. - NEUPOORT: Rituum qui olim apud Romanos, etc. - Magnum Theatrum vitae humanae, ed altri (a) (70)].



RE. - Gli antichi popoli d’Italia per lo più erano governati da un capo, cui davano il nome di re, che vuol dire reggitore. Il suo potere era a vita, e alla morte di lui l’esercito e talvolta il popolo radunato ne eleggevano il successore. Nei primi tempi di Roma, il re era eletto dal Senato e dal popolo riconosciuto. Il Re stringeva in sé il supremo potere militare e civile, ed esercitava anche il pontificato, cioè era anche capo delle cose di religione.
SENATO. - La prima dignità dello Stato, instituita dallo stesso Romolo, e conservata fino alla caduta del Romano impero, era il Senato. Era Così detto dalla parola latina senex, che vuol dire vecchio, perché quelli che lo componevano dovevano essere di gran senno, e non vi erano ammessi se non ad un’età alquanto avanzata. Il numero dei Senatori fu da Romolo stabilito a cento; ma per l’unione dei Sabini questo numero fu portato a dugento, e più tardi fino a quattrocento. Riempivano i posti che restavano vacanti nel Senato quelli che avevano esercitate le prime cariche dello Stato. L’unione de’ cento Senatori sabini coi cento Senatori romani, inscritti nello stesso catalogo, diede luogo al titolo di patres conscripti, solito a darsi a tutti i Senatori insieme radunati. Le loro radunanze tenevansi sempre in un tempio, e quelli della Concordia, di Apolline e dell’Onore erano i luoghi consueti. Il Senato era il consiglio supremo dello Stato: i Senatori avevano il potere di far leggi, e di deliberare intorno ai più gravi affari. Tra i Senatori erano scelti i Re, i principali magistrati, i capitani degli eserciti, i consoli, gli ambasciatori.
CAVALIERI. - I cavalieri erano guardie istituite da Romolo, che combattevano a cavallo. Da principio erano trecento, ma coll’andar del tempo crebbero fino a mille ottocento e formarono il nerbo degli eserciti romani. Da questo corpo derivò un ordine intermedio tra il patrizio ed il plebeo. Niuno era annoverato fra i cavalieri, se non constava ch’egli avesse un determinato reddito per almeno mantenersi un cavallo, che riceveva dal censore, e in tempo di guerra dal capitano supremo dell’esercito.
PATRIZI E PLEBEI. - Formavano l’ordine patri zio i discendenti dei senatori, che dicevansi noscibiles, ovvero nobiles. Il resto del popolo romano dicevasi plebe. Ma siccome avveniva talvolta che i plebei fossero oppressi da alcuni dei patrizi, perciò ciascuna famiglia plebea sceglievasi tra i senatori un protettore, cui davano il nome di patrono, così detto dal latino patronus, quasi qui patris onus gerit, che fa le veci di padre, perché egli aveva obbligo di assistere il suo cliente, e di fare ciò che un buon padre fa per la sua famiglia.
TRIBÙ, CURIE, CENTURIE. -. Il popolo romano dividevasi anche in tre altri modi: cioè in tribù, che da tre giunsero sino a trentacinque; in curie, che erano trenta; in centurie, che erano centonovantatre,
I COMIZI. - La parola comizio deriva dal latino comitium o coire, che vuol dire radunare. Onde i comizi erano radunanze popolari che si tenevano qualche volta nel foro, o piazza pubblica, ma più spesso in una vasta pianura vicino al Tevere, detta campo Marzio. Esse avevano per iscopo di ratificare le nuove leggi, di confermare i trattati di pace, di eleggere i principali magistrati, vale a dire i principali impiegati del governo. In questo caso il popolo doveva dare il voto per centurie. Le principali magistrature, ovvero cariche dello Stato, erano la Dittatura, il Consolato, la Censura, la Pretura, l’Edilità curule, la Questura ed il Tribunato.
CURULE. - Si distinguevano in Roma due specie di dignità: Curuli e non Curuli. Curuli dicevansi le più alte dignità: ed erano così appellate perché coloro che le esercitavano sedevano sopra di una sedia detta curule dal latino currus, carro, perché veniva condotta sopra un carro Affinché il magistrato potesse portarla seco ovunque si recasse. Dignità curuli erano la Dittatura, il Consolato, la Censura, la Pretura e l’Edilità curule. Eranvi altri edili inferiori, ma non curuli.
DITTATURA. - Questa parola è latina, da dictare o dettare, perché il dittatore dettava leggi e dava ordini con autorità assoluta, come se fosse Re. Questa dignità conferivasi in occasioni straordinarie, e soltanto per sei mesi. Il Dittatore aveva un luogotenente, detto magister equitum, ossia generale della cavalleria.
IL CONSOLATO. - Era una carica che durava un anno. I consoli erano due, e si chiamavano così della parola consulere, che vuoi dire provvedere, perché loro apparteneva il sopraintendere al Senato, far eseguire le leggi, guidare gli eserciti in battaglia, insomma il provvedere ai bisogni della repubblica.
PROCONSOLATO. - Il pro consolato conferivasi per lo più ai consoli usciti di carica, quando erano inviati a governare le provincie lontane da Roma. La loro carica durava un anno e poteva prorogarsi. I proconsoli furono anche detti presidi e propretori.
CENSURA. - Due erano i censori, i quali avevano l’incarico di tenere un esatto registro de’ cittadini romani: essi vegliavano eziandio alla repressione del lusso ed alla conservazione dei buoni costumi. Ogni cinque anni facevano il censo, ossia la enumerazione del popolo romano, e notavano d’infamia coloro che secondo il loro giudizio l’avevano meritata col vivere disordinatamente. Il censo terminavasi con una cerimonia religiosa, chiamata lustrazione; onde fu detto lustro un periodo di cinque anni.
PRETURA. - Pretore deriva da praeesse, presiedere, perché anticamente tutti quelli che esercitavano qualche autorità dicevansi pretori. Più tardi, anno di Roma 387, la pretura divenne una carica particolare. Il numero dei pretori non era fisso; loro principale uffizio era di rendere giustizia e fare le veci dei consoli, quando questi si trovavano alla testa degli eserciti.
EDILITÀ. - Sono detti edili da aede, casa, perché fra i loro uffizi dovevano avere cura delle fabbriche e degli edifizi in genere. Vi erano gli edili plebei, che facevano le parti della plebe; gli edili curuli, che esercitavano la loro autorità seduti sopra un curule, ovvero sedia. Finalmente vi erano gli edili Cereali, così detti da Cerere, divinità che presiedeva alle biade. Essi dovevano aver cura dell’annona o delle somministranze pubbliche. Gli edili curuli erano due, e loro si affidava il deposito delle leggi con obbligo di sovraintendere alla conservazione degli edifizi e dei pubblici monumenti.

Queste sono le dignità curuli. Tutte le altre magistrature di ordine inferiore, dicevansi non curuli, come sono la Questura, il Tribunato ed altre.


QUESTURA. - Questura si dice da quaerere, ovvero cercare, perché era cura speciale del questore di provvedere alle finanze della repubblica. Fra i questori gli uni avevano la custodia del tesoro pubblico e la cura di esigere le imposte, e dicevansi urbani. Gli altri tenevano dietro agli eserciti e provvedevano al loro mantenimento, i quali perciò si appellavano questori militari. Altri poi erano giudici dei più gravi delitti e dicevansi questori del parricidio.
TRIBUNATO. - I Tribuni, vale a dire i capi delle tribù, erano da prima cinque, poscia aumentarono secondo il bisogno. Dicevansi Tribuni del popolo quelli che avevano la tutela dei privilegi del popolo. La loro persona era sacra ed inviolabile, e avevano il diritto di sospendere colla semplice parola veto (proibisco) le ordinanze e i decreti del Senato, dei dittatori e dei consoli.
CANDIDATI. - Gli aspiranti alle cariche dicevansi candidati dalle vesti candide, colle quali si presentavano ai comizi il giorno della elezione.
ORDINE RELIGIOSO (72).
La religione degli antichi Italiani e dei Romani fu l’idolatria fino alla predicazione del Vangelo. L’idolatria consisteva nell’ammettere una moltitudine di divinità e nel prestare alle cose insensate quel culto che è dovuto soltanto al supremo Dio. La prima di queste divinità era Giove, quasi pater iuvans, padre che aiuta, cui sacrificavansi diverse specie di animali. I principali ministri del culto religioso erano i Pontefici, i Flamini, i Feciali, gli Àuguri, gli Arùspici, i Salii, i Curioni e le Vestali.
PONTEFICE. - La parola pontefice si vuole derivata da pontem facere, perché egli aveva cura di riparare e conservare il ponte Sublicio, sopra cui solevano passare animali ed altre cose destinate ai sacrifizi. La persona del pontefice era sacra, ed aveva autorità sopra tutte le cose di religione. Il capo dei pontefici era detto Pontefice Massimo. La dignità dei pontefici si aveva in sì grande venerazione, che loro si dava la precedenza sopra tutti gli altri magistrati, e non chiedevasi conto delle loro azioni in cose di religione. Nel primo giorno di ciascun mese annunziavano al popolo il dì in cui cadevano le none, ovvero le fiere, i mercati e tutte le feste che occorrevano nel corso di quel mese.
FLAMINI. - Si suole derivare questa voce da filo o filamine, perché ne’ sacrifizi cingevansi il capo di una benda tessuta di filo prezioso. Essi erano destinati al culto di alcune speciali divinità, ed erano in numero di quindici. I tre più cospicui presiedevano uno col titolo di Flamen Dialis al culto di Giove, il secondo era dedicato a Marte e dicevasi Martialis, il terzo a Romolo, e dicevasi Quirinalis.
FECIALI. - I Feciali erano sacerdoti depositari della legge della guerra. Erano così detti da fari, parlare, perché prima di intraprender una guerra o qualche grave impresa militare si attendeva sempre da loro risposta e consiglio; ad essi apparteneva il con chiudere i trattati di pace e di guerra.
SALII. - I Salii erano sacerdoti che presiedevano al culto di Marte, dio della guerra. Erano così detti da saliendo, quasi saltando, perché nel fare i sacrifizi solevano cantare o danzare.
CURIONI. - I Curioni amministravano il culto nelle loro Curie. Romolo avendo diviso il popolo in tre tribù ed in trenta curie, ordinò che ciascuna avesse il suo tempio per fare i sacrifizi e per celebrare le sue feste. I Curioni erano in numero di trenta. Il primo di loro era detto Curione Massimo, ed eleggevasi dal popolo radunato.

AUGURI. - Gli Auguri, così detti da Avium garritus (canto degli uccelli), erano sacerdoti, i quali avevano incombenza di notare il canto, il volo, il maggiore o minore appetito degli uccelli, a fine di conoscere da ciò l’avvenire.


ARUSPICI. - Gli Aruspici, quasi Harugam vel Hostiam aspicere, considerare gli intestini della vittima, erano altri indovinatori, i quali pretendevano di leggere l’avvenire nelle viscere degli animali che sacrificavano.
VESTALI. - Le Vestali, ossia sacerdotesse della dea Vesta, erano vergini destinate a conservare un fuoco sacro, che doveva ardere notte e giorno sopra l’altare di questa dea. La estinzione di questo fuoco riguardavasi quale cattivo presagio. Le Vestali facevano voto di castità, e se per disavventura lo avessero violato, venivano rinchiuse in una profonda caverna, ove si lasciavano morire di fame, oppure erano bruciate vive. Allo stesso supplizio erano condannati coloro che le avessero indotte a violare il loro voto. Le Vestali erano tenute in grande venerazione, e quando per istrada incontravano i magistrati, loro concedevano la diritta, e concedevasi il perdono a quei delinquenti che mentre erano condotti al supplizio si fossero per caso incontrati in qualche Vestale.
SATURNALI E LIBAZIONI. - Sebbene i Romani avessero un grande numero di divinità, e a tutte prestassero un culto particolare, tuttavia le loro feste si passavano per lo più in gravi disordini. Tra le feste era celebre quella di Saturno, che celebravasi nel mese di dicembre. Essa durava tre giorni, detti Saturnali, e si passavano in un continuo stravizio; gli schiavi la facevano da padroni. Durante i pranzi si facevano sacrifizi, detti Libazioni, che consistevano nello spargere sopra la tavola vino, o altro liquore in onore degli Dei.
CONFESSIONE DEI PECCATI. - Gli antichi Pelasgi avevano riti espiatorii, facevano sacrifizi e confessavano ai sacerdoti degli idoli le loro colpe mercé cui si dava sicurezza contro il furor dei venti e del mare, e si prometteva la salute del corpo, la remissione dei peccati e la salvezza dell’anima. V. ATTO VANNUCCI.

ORDINE DEL TEMPO (73).


NOMI DEI MESI. - Ne’ primi tempi di Roma Romolo, adottando le usanze dei Latini, divise l’anno in dieci mesi. Il primo era marzo, indi aprile, maggio, giugno, quintile, sestile, settembre, ottobre, novembre, dicembre; questi componevano un anno di 304 giorni. Ma Numa Pompilio osservò che con questo modo di computare non potevansi misurare le stagioni e conoscere quando fosse l’estate e quando l’inverno; perciò adottando l’anno etrusco, aggiunse il mese di gennaio e febbraio. Così l’anno divenne più regolare composto di 365 giorni. Ma l’anno di Numa non concordava ancora esattamente col sole e colla luna; perciò al tempo di Giulio Cesare vi erano 67 giorni rimasti indietro. Ciò faceva succedere l’inverno nei mesi estivi e l’estate nei mesi invernali. Quell’imperatore chiamò a Roma un dotto egiziano, di nome Sosigene. Coll’aiuto di quel filosofo Cesare ridusse i mesi quasi come pratichiamo noi, e stabilì che ogni quattro anni ve ne fosse uno bisestile, cioè di giorni 366. Per regolare i 67 giorni rimasti aggiunse in quell’anno due mesi, uno di 33 giorni, l’altro di 34. Così quell’anno fu assai più lungo degli altri, e nella storia è noto sotto al nome di anno Giuliano. Era l’anno di Roma 707, avanti Cristo 47.

Sebbene questo anno fosse più perfetto degli antecedenti, tuttavia lasciava ancora ogni anno una frazione, che coll’andar del tempo turbava l’ordine delle stagioni. Papa Gregorio nel 1582 stabilì che vi fosse qualche anno bisestile di meno; e questa riforma dal suo autore si chiamò Gregoriana.

I mesi dicevansi gennaio, perché dedicato a Giano; febbraio, perché in questo mese si facevano sacrifizi espiatori pei morti, i quali dicevansi in latino Februa; marzo, perché dedicato a Marte; aprile, perché in questo mese la terra si apre per le sue produzioni; maggio, perché dedicato ai maggiori, ossia ai più vecchi; giugno, perché dedicato alla gioventù. Gli altri mesi furono chiamati secondo l’ordine progressivo, ad eccezione di quintile, che poi il Senato dedicò a Giulio Cesare, denominandolo luglio, e ad eccezione altresì di sestile, consacrato a Cesare Augusto, e detto agosto.
CALENDE, NONE, IDI. - Per indicare i giorni de’ mesi usavansi tre nomi, calende, none, e idi. Calenda o calo viene dal greco, e significa chiamare, perché il Pontefice ogni primo giorno del mese radunava il popolo e pubblicamente annunziava le feste religiose, le fiere ed i mercati che avevano luogo nel corso di tutto il mese. I Greci cominciavano il mese colla luna, donde venne il proverbio, che condurre un affare alle calende greche vuoi dire non cominciarlo mai, perché i Greci non avevano calende.

None significa giorno nono, perché dalle none agli idi vi erano nove giorni. Idi deriva da un vocabolo antico iduare, dividere, perché in certo modo dividono il mese in due parti.

Le calende pertanto erano il primo giorno di ciascun mese, le none erano il settimo giorno pei mesi di marzo, maggio, luglio, ottobre; ed il quinto per gli altri otto mesi. Gli idi cadevano otto giorni dopo le none.



Per un’usanza altrettanto incomoda, quanto bizzarra, indicavano i giorni, contando non già quanti giorni del mese erano passati, come facciamo noi, ma quanti giorni rimanevano per arrivare ad uno de’ suddetti giorni, cioè calende, none ed idi; laonde per indicare il 20 gennaio, dicevasi: il decimoterzo avanti le calende di febbraio, perché il 20 gennaio trovavasi tredici giorni innanzi al primo di febbraio, che era il giorno delle calende: per indicare il 2 febbraio dicevasi il quarto avanti le none di febbraio; il 9 di marzo, settimo avanti gli idi di marzo.
NOMI DEI GIORNI. - I giorni prendevano vari nomi, secondo le cose che in quelli venivano comandate o proibite. Dicevansi giorni festivi, dies festi, quelli in cui era proibito ogni lavoro, e tutti dovevano esclusivamente occuparsi in opere di religione: ad sacrificia diis offerenda. Giorni di lavoro, dies profesti, quelli in cui era permesso, anzi comandato il lavoro. Giorni di radunanza, dies comitiales, erano que’ giorni, ne’ quali solevasi far radunare il popolo. Nundinae, o giorni novesimi erano chiamate le pubbliche fiere ed i mercati che si tenevano in Roma di nove in nove giorni, e dove le genti di campagna venivano per vendere e provvedersi di quanto loro faceva mestieri. Dies atri, giorni di cattivo augurio, e tale reputavasi il giorno immediatamente dopo le calende, gli idi e le none.
ORE DEL GIORNO. - Il giorno dividevasi in dodici ore più o meno lunghe, secondo la stagione, nel modo che era praticato dagli Ebrei. L’ora prima cominciava al levar del sole, la terza terminava circa le ore nove del mattino; la sesta a mezzogiorno; la nona tre ore dopo; la duodecima verso al cadere del sole.
VEGLIE DELLA NOTTE. - La notte scompartivasi in quattro veglie di ore tre ciascuna: la prima cominciava al cader del sole; la seconda circa le nove di sera; la terza a mezzanotte; la quarta circa le tre del mattino.
OROLOGI. - Ne’ primi tempi di Roma non eravi misura fissa del tempo; solamente verso la fine della prima Guerra Punica, cioè ducento cinquant’anni prima dell’èra volgare, fu recato a Roma dalla Sicilia il primo orologio a sole, che era una specie di meridiana. Un secolo dopo, cioè centocinquant’anni prima dell’èra volgare, comparvero le clessidre, che sono orologi ad acqua od a polvere.
ORDINE DELLA MILIZIA (74).
SOLDATI. - Presso gli antichi Italiani e presso ai Romani tutti erano soldati, ad eccezione di quelli che erano destinati al culto degli Dei. Il servizio militare cominciava a diciassette anni, e ciascuno poteva esservi chiamato sino all’ età di 46, se pure non fosse già pervenuto a qualche magistratura. Quando i consoli volevano levare soldati, pubblicavano un editto e inalberavano uno stendardo sul Campidoglio. A quel segnale, ammogliati e senza moglie, purché fossero in istato di portare armi, si assembravano divisi in tribù nel luogo indicato, che d’ordinario era il Campo Marzio. Là erano chiamati quelli che si stimavano acconci al bisogno, e chi avesse opposto difficoltà correva pericolo di vedere i suoi beni confiscati, e se stesso ridotto alla condizione di schiavo.
LEGIONI. - L’esercito dividevasi in legioni, la legione in dieci coorti, la coorte in tre manipoli, il manipolo in due centurie. Così che ogni legione era composta di 30 manipoli e 60 centurie; l’intera legione era di seimila uomini. Fatta la leva de’ soldati, ne toglievano uno da ciascuna legione, affinché pronunziasse ad alta voce la formola del giuramento militare, che tutti gli altri ripetevano dopo di lui. La legione era comandata da sei tribuni militari, che davano gli ordini alternativamente; i subordinati ai tribuni erano i centurioni, ovvero ufficiali di una compagnia composta di 100 uomini.
ARMI DELLA FANTERIA. - Arma comune a tutti i soldati romani era una corta spada a due tagli e bene affilata. Il soldato romano armato alla leggera aveva, oltre la spada, sette giavellotti o frecce lunghe tre piedi almeno, un piccolo scudo di legno ed un elmo di cuoio. Il soldato di arma pesante portava, oltre i giavellotti ordinari, altri giavellotti di cinque o sei piedi di lunghezza, aventi il ferro uncinato, i cui colpi erano pericolosissimi. Coprivagli il capo un elmo di bronzo, che lasciava scoperta la faccia; vestiva una corazza di maglie o piccole lamine di bronzo, ed attaccava al braccio sinistro per mezzo di striscie di cuoio lo scudo, largo due piedi e mezzo, alto quattro. Così il soldato abbassandosi un poco poteva mettersi intieramente al coperto.
ARMI DELLA CAVALLERIA. - Le armi della cavalleria consistevano in una lunga spada, in una picca, e qualche volta in alcuni giavellotti.
MACCHINE DA GUERRA. - Usavansi eziandio diverse macchine che tenevano luogo di artiglieria. Oltre l’ariete e le torri movibili, impiegavano le baliste e le catapulte per lanciare grossi giavellotti, I pietre, fiaccole ardenti. La forza di queste macchine era maravigliosa. Un giorno la pietra di una catapulta, essendo stata male collocata, andò a colpire uno de’ sostegni, e di rimbalzo colpì l’ingegnere che la regolava. Il colpo fu così violento, che fece a brani e disperse tutte le membra dell’ingegnere. Per formare la così detta testuggine, i soldati romani imbracciavano certi scudi quadrati solidissimi, li sospendevano sopra il loro capo, e li congiungevano in modo da comporre una specie di tetto, sul quale rotolava quanto i nemici avessero gettato. Così ordinati, avvicinavansi alle muraglie da abbattersi. Per rompere quel tetto di scudi ci volevano travi e pesanti macigni. I Romani usavano anche certe gallerie di legno, formate di grosse travi e rivestite di terra e di pelli fresche di bue per preservarle dal fuoco. Al coperto di queste gallerie, si accostavano senza grave pericolo al muro o alla torre che si volevano atterrare.
INSEGNE MILITARI. - Le primitive insegne militari de’ Romani non erano che un fascetto di fieno legato alla cima di un’asta. Più tardi vi piantarono invece alcune tavolette rotonde, sulle quali erano effigiate le divinità con sopra una mano od altro emblema di argento. Da Mario in poi ciascuna legione ebbe per insegna un’aquila d’oro. Il tamburo non era conosciuto: usavano soltanto delle trombe di rame di varia grandezza.
ALLOGGIAMENTI. - I Romani in paese nemico non mancavano mai di fortificare il loro campo, fosse pure per una sola notte. Intorno al medesimo girava una fossa profonda nove piedi, circa tre metri, ed una palizzata formata di travicelli insieme incrocicchiati. Fra le tende ed i trinceramenti passava una distanza di 200 passi (metri 350), per cui in caso di attacco le tende rimanevano al sicuro dai dardi e dalle fiaccole de’ nemici. Nelle mosse i soldati, oltre a tre o quattro travicelli per la palizzata del campo, portavano viveri per quindici giorni. Consistevano essi in una certa quantità di grano, che essi tritavano con una pietra, quando volevano fame del pane: più tardi fu provveduto il biscotto. Dovevano anche portare vari altri arnesi. Per essi le armi non erano un carico; ma le riguardavano in certo modo come loro proprie membra.
DISCIPLINA MILITARE. - Le leggi della disciplina militare erano severissime. Chiunque in una mossa si fosse allontanato a segno di non udire il suono della tromba, era considerato come disertore. Abbandonare il proprio posto stando in sentinella, combattere fuori di linea senza permissione, rubare la più piccola moneta, erano altrettanti delitti che meritavano la morte. Falli più lievi punivansi col bastone, colla privazione del soldo, con comparire al pubblico in vestimento donnesco; e quest’ultimo castigo era riserbato ai vili. Nessuno poteva mangiare avanti il segnale che se ne dava; ne davasi fuorché due volte al giorno. I soldati pranzavano ritti in piedi e assai frugalmente. La loro cena era un poco migliore, e negli ultimi tempi della repubblica furono provveduti di sale, di legumi e di lardo. Ordinariamente bevevano acqua pura o temperata con qualche goccia di aceto.
ESERCIZI MILITARI. - I soldati romani non erano mai lasciati oziosi. Indurati dall’infanzia ai lavori dell’agricoltura, continuavan sotto le bandiere militari ad esercitarsi in faticosi lavori. Erano avvezzati a lunghi cammini carichi del peso di sessanta libbre (circa 20 chilog.), e a correre e a saltare tutti armati. Negli esercizi facevansi loro prendere armi di doppio peso di quello che avevano le ordinarie, e questi esercizi non erano mai interrotti. In tempo di pace venivano occupati a dissodare terreni incolti, ad innalzare fortezze, a scavare canali, a costruire città, a formare strade, che talvolta da Roma prolungavansi a remotissime distanze. Ora quale meraviglia se soldati di quella tempra riportavano sì segnalate vittorie e soggiogavano tante nazioni?
RICOMPENSE E ONORIFICENZE MILITARI. - Le principali ricompense militari erano la corona ossidionale o per assedio, aggiudicata a chi avesse liberata una città od un campo assediato; la corona civica, concessa a chi avesse salvata la vita di qualche cittadino; la corona murale, accordata a chi fosse giunto il primo sulle mura nemiche nell’occasione di un assalto. I Romani tenevano in grande conto queste corone per la solennità con cui facevasene la distribuzione dal generale alla presenza di tutto l’esercito.

Le ricompense riserbate al generale dopo una vittoria consistevano nel titolo d’imperatore o di generale vittorioso, e nel grande o piccolo trionfo, secondo la maggiore o la minore importanza delle sue imprese.

MONETE. - PESI.

MISURE DI CAPACITÀ E DI LUNGHEZZA (75):.

MONETE. - Le monete più antiche, di cui si abbia cognizione, sono l’asse o soldo romano di rame del valore di un decimo del denaro, corrispondente a cinque centesimi.

Il denaro era d’argento, notato colla lettera X e valeva dieci assi, ossia cinquanta centesimi. Il quinario, cinque assi (V).

Il sesterzio era la quarta parte del denaro, corrispondente a due assi e mezzo, ossia due soldi e mezzo.

I Romani avevano anche la libella, lira corrispondente ad un’asse, ossia 5 centesimi. La mezza lira, detta sembella. L’aureo o il soldo d’oro valeva 25 denari, ossia franchi 12,50. La Zecca delle monete era nel tempio di Giunone Moneta, onde moneta fu eziandio appellato il denaro.

Gli antichi non facevano uso di monete coniate, ma trafficavano tra di loro scambiando le mercanzie, ovvero pagandole con metalli valutati a peso. Servio Tullio, sesto re di Roma, fu il primo che facesse coniare il rame, imprimendovi la figura di una pecora, onde venne il nome di pecunia.
PESI. - Il peso ordinario era la libbra, corrispondente a 327 grammi.

La libbra, detta anche asse e quadrantal, dividevasi in dodici oncie. Due oncie dicevasi sextans, o sesta parte della libbra; tre oncie, quadrans, quarta parte della libbra; quattro oncie, triens, terza parte; cinque oncie, quincunx; sei oncie, semis, mezza libbra; sette oncie, septunx; otto oncie, bes o bessis; nove oncie, dodrans; dieci oncie, decunx o dextans, undici oncie, deunx. Mezz’oncia, semuncia; un terzo, duella; un quarto, sicilicus. I multipli della libbra erano dipondium, due libbre; tressis, tre libbre; quadrassis, cinque; sextassis, sei; septassis, sette; octassis, otto; nonussis, nove; decassis, dieci; vigessis, venti; trigessis, trenta: centassis, cento libre.


MISURE DI CAPACITÀ. - La principale misura pei liquidi era l’anfora, detta anche cado, di ventisei litri. L’anfora dividevasi in due urne; in tre modii; in otto congi; in quarantotto sestarii; in novantasei emine; in cento novantadue quartarii; in cinquecento settantotto ciati; in duemila trecento quattro cucchiai. Il cucchiaio è quel tanto che suole inghiottire un uomo in una boccata. La misura comune era il congio, che corrisponde a circa tre litri e quattro decilitri. Il ciato conteneva un decilitro di vino, ed è quel tanto che ordinariamente un uomo moderato può bere in un fiato. La principal misura pei solidi era il moggio o staio, la cui capacità era il terzo dell’anfora, poco più di otto litri.
MISURE DI LUNGHEZZA. - L’unità di misura di lunghezza era il dito, spessore del dito ordinario di un uomo; il pollice, ossia larghezza del pollice; il palmo, o tre pollici, o larghezza della mano; il piede, o dodici pollici, ossia centimetri 34; palmi piede, la larghezza di un palmo e di un piede, cioè quindici pollici; cubito, ossia un braccio corrispondente ad un piede e mezzo, ossia centimetri 50; il passo, o cinque piedi, corrisponde a m. 1,50; la pertica, a dieci piedi; lo stadio, equivalente a cento venticinque passi, ossia m. 188; otto stadii formano mille passi, ossia il miglio romano, corrispondente a chilom. I, m. 475.

Il miglio era indicato sulle strade da una pietra miliari a, su cui era scritta la distanza di quel luogo dalla capitale del regno. Quando i Romani divennero i soli padroni dell’Italia, le pietre delle strade portavano scritta la distanza di quel punto da Roma.


MISURE DI SUPERFICIE. - La misura ordinaria di superficie era il iugero, così detto, perché era quanto in un giorno potesse arare un bue; comprendeva quattrocento quaranta piedi in lunghezza e centoventi in larghezza. Il mezzo iugero chiamavasi atto quadrato. Il iugero romano equivaleva ad are ventiquattro e metri sessantotto

GIUOCHI. - GLADIATORI. - GIUOCHI SCENICI.



ARTI E SCIENZE (76).
GIUOCHI. - Gli antichi erano amantissimi de’ pubblici giuochi. I principali di essi erano la lotta, la corsa a piedi e a cavallo, la corsa de’ carri, il combattimento navale ed il combattimento delle bestie feroci. Questi giuochi si facevano ordinariamente in un luogo detto circo, che era un vastissimo recinto, intorno a cui potevano stare molte migliaia di spettatori. Talvolta il loro numero ascendeva a trecento mila, e tutti dalle gallerie che mettevano nel circo potevano partecipare di quei pubblici divertimenti. Pei combattimenti navali l’acqua era portata nell’interno del circo da acquedotti a bella posta scavati, e vi formavano una specie di lago. Pei combattimenti delle bestie feroci ne veniva condotta a Roma una incredibile quantità. Pompeo in un sol giorno fece comparire nel circo seicento leoni. Alle volte gli spettatori medesimi uccidevano le fiere a colpi di freccia; talora le facevano venire a zuffa le une contro le altre, ovvero contro ad uomini che esercitavano quel mestiere di propria elezione, o vi erano stati condannati, come spesso lo furono i cristiani; ma questi non si difendevano e aspettavano con animo quieto e generoso di essere sbranati, ascrivendosi a gloria di morire per la fede.
GLADIATORI. - Un altro genere di spettacolo non meno atroce, non meno gradito al popolo romano, era quello dei gladiatori. In origine i gladiatori erano prigionieri di guerra, o malfattori condannati a morte. Vi fu di poi chi fece il gladiatore per mestiere, o mosso dal guadagno o dal piacere di battersi. Quando un gladiatore rimaneva ferito, gli spettatori gridavano habet, è ferito, ed essi erano arbitri della sua vita. Se volevano salvarlo premevano il pollice, se volevano che morisse sotto i colpi del vincitore, rovesciavano il pollice, e l’infelice doveva sottoporsi alla fatale sentenza. L’imperatore Traiano diede una festa, nella quale vennero nell’anfiteatro dieci mila gladiatori. Questi atroci spettacoli non cessarono fino al regno di Onorio, nell’occasione che un santo solitario, chiamato Telemaco, essendosi lanciato fra i gladiatori per separarli, cadde egli stesso morto, ucciso da uno di costoro. Un così eroico sacrificio della carità cristiana fu cagione che finalmente si proscrivessero quei giuochi, i quali da più di 800 anni disonoravano l’umanità. L’anfiteatro fatto costruire da Vespasiano e da Tito, bagnato le molte volte dal sangue dei martiri, esiste oggi ancora in parte, conosciuto sotto il nome di coliseo o colosseo.
GIUOCHI SCENICI. - La terza specie di spettacoli erano i giuochi scenici, i quali consistevano specialmente in tragedie, in comedie, mimiche, rappresentate su teatri di straordinaria ampiezza. Il più bel teatro di Roma poteva capire sino a 80.000 spettatori, ed era costruito di marmo all’aria aperta.
LEGGI. - Le antiche leggi degl’Italiani non sono molto conosciute. Per lo spazio di circa duecento cinquant’anni la volontà del Re era legge presso ai Romani. La prima costituzione fu la legge agraria, così detta, perché trattava e regolava il riparto da farsi tra la plebe delle terre conquistate sopra i popoli vinti. Questa legge fu fatta dal console Spurio Cassio l’anno 260 di Roma. Ma la prima che prese il nome di legge o diritto romano fu quella delle dodici Tavole. Per avere una legislazione stabile i Romani incaricarono dieci illustri e dotti personaggi di viaggiare e cercare in Italia, nella Grecia i migliori codici di que’ tempi. Al loro ritorno estrassero quanto fu trovato più adattato ai paesi nostri, e prendendo per base le leggi e le usanze in vigore presso i Romani, composero una specie di codice nell’anno 300 di Roma e ne distribuirono la materia in dodici parti, facendo scrivere, ossia incidere ciascuna parte sopra una tavola di avorio. Le leggi fatte dipoi hanno sempre avuto per base le dodici Tavole. Le leggi romane erano poche in numero, ma severissime. Esse davano al padre la facoltà di battere, vendere ed anche uccidere i propri figliuoli, senz’altro motivo che la sua volontà. Eravi una legge che vietava l’uso del vino alle donne, ed una donna che aveva violata quella legge fu condannata dalla propria famiglia a morir di fame.

Un’altra legge metteva la persona del debitore in balìa del creditore, che poteva caricarlo di catene, batterlo quanto gli piacesse, finché fosse saldato il suo debito. I vinti in battaglia erano tenuti siccome schiavi. Costoro si compravano, si vendevano a guisa di bestie da soma; il padrone poteva aggravarli di lavoro, poteva straziarli, ucciderli quando gliene fosse venuto talento. Se la vecchiezza o l’infermità rendeva lo schiavo inetto al lavoro, poteva sbrigarsene, facendolo uccidere o gettandolo in qualche isola del Tevere, ove l’infelice moriva di stento. Questi e molti altri tratti d’inumanità, che sovente leggonsi nella storia de’ popoli antichi, dimostrano quanto fosse necessaria la luce del Vangelo, la sola atta a diradare le folte tenebre della barbarie, in cui i popoli dell’antichità anche più inciviliti trovavansi involti.


ARTI. - Gli antichi Etruschi avanzavano gli altri popoli italiani nelle arti e nel commercio. La scultura, l’architettura erano molto coltivate: l’oro e l’argento erano maestrevolmente lavorati. Presso i Romani non era così; sempre occupati in guerra, poco badavano alle arti ed al commercio. Sul principio della prima Guerra Punica non conoscevano ancora l’uso delle navi. Le staffe da cavallo erano loro sconosciute, e nelle strade eranvi pietre a bella posta collocate, sopra cui salivano i cavalieri per montare a cavallo.
ALFABETO E NUMERI (77). - I Romani ricevettero dagli Etruschi le lettere dell’alfabeto e i numeri coi rispettivi nomi. L’alfabeto però era composto di sole lettere maiuscole; le minuscole furono introdotte più tardi a comodità di chi scrive. Di queste lettere si servivano eziandio pei calcoli. Eccone i nomi ed il valore; I uno, V cinque, X dieci, L cinquanta, C cento, D cinquecento, M mille. Tutte le operazioni di aritmetica erano basate sopra queste lettere.

Le cifre arabiche furono introdotte in Europa nel secolo decimo­secondo.


PRIME SCRITTURE. - Le memorie antiche ci dicono che le prime scritture si facevano con un ponzone di ferro sopra pietre lisciate o sopra mattoni appositamente preparati. Di poi si trovò più agevole scrivere sopra le foglie più robuste di alcuni alberi. La palma e la malva ne erano scelte a preferenza. Ma questo genere di scrittura, sebbene assai più facile che sopra la pietra, non era tuttavia di molta durata. Fu invece trovato che la corteccia di due alberi, detti Tisia e Fisira, era più forte e più duratura. Di questi si fece uso fino a tanto che furono introdotte le lastre di piombo, le tavolette, la pergamena, il papiro.
TAVOLETTE. - Le leggi e gli atti pubblici in Italia si scrivevano anticamente sopra foglie, sopra lastre di piombo o di rame; ma per iscrivere libri o lettere usavansi delle tavolette, della pergamena, del papiro. Le tavolette erano di cedro, di bosso o di avorio, intonacate di cera. Per iscrivere adoperavano, come sui mattoni, un punzone, detto stilo, il quale aveva un’estremità appuntata per segnare le lettere; l’altra parte era piatta e serviva ad appianare le incisioni quando occorreva fare qualche correzione.
PERGAMENA. - Invece di tavolette venne più comodamente usata la pergamena ed il papiro; ma invece di stilo si faceva uso del calamo, ossia di una canna temperata come le penne che usiamo noi. La pergamena si ricavava dalle pelli di pecora o di vitello. Era così chiamata perché fu inventata a Pergamo, città dell’Asia Minore. In questa città vi era una biblioteca, fondata da Eumene, che conteneva duecento mila volumi scritti su questa carta.
PAPIRO. - II papiro era una canna selvatica dell’Egitto, dove cresceva fino all’altezza di cinque metri. A similitudine delle cipolle aveva una quantità di pellicole, l’une alle altre sovrapposte, le quali venivano separate colla punta di un ago. Queste pellicole si congiungevano bagnandole coll’appiccaticcia acqua del Nilo per ridurle in fogli, che, levigati, sotto ad un torchio, erano venduti in rotoli di venti caduno. Ai tempi di Alessandro il Grande il papiro fu sostituito alle foglie degli alberi. La biblioteca di Tolomeo Filadelfo aveva settecento mila volumi scritti sul papiro.
STENOGRAFIA. - È questa parola greca, che significa scrivere in fretta, ed è l’arte con cui uno scrive in cifre ed in segni colla stessa velocità con cui si parla. Questa scienza era già conosciuta presso ai Greci, presso gli Ebrei e presso gli antichi Italiani; ma consisteva soltanto in alcune lettere o abbreviazioni convenzionali, come per es. U. C. voleva dire: Urbis conditae, ossia dalla fondazione della città di Roma. S. P. D. Salutem plurimam dicit. Vi augura stabilissima sanità. C. R. Cittadino Romano. P. pose. F. fece. R. I. P. Requiescat in pace. Ma Cicerone introdusse segni convenzionali, che, usati invece delle lettere alfabetiche, fanno che con assai maggior prestezza e precisione si possa scrivere.
LINGUA OSCA. - La più comune e la più antica lingua parlata dagli Italiani, di cui abbiasi memoria, è la lingua Osca, o Tosca, che ha poca affinità colla lingua latina e colla lingua italiana. Fino alla fondazione di Roma sembra essere stata costantemente parlata e scritta. Dappoi si conservò nei dialetti di vari paesi. Ai tempi di Augusto la lingua Osca era ancora da molti parlata.
LINGUA LATINA. - La lingua Latina era quella che anticamente era parlata in quella parte d’Italia, che appellavasi Lazio. Quando Roma estese le sue conquiste in Italia si parlavano tre lingue, Osca, Greca, Latina. Il Lazio, essendo come centro d’Italia, prevalse sopra le altre e poco per volta coltivata ed ingentilita divenne come la madre delle scienze e la maestra delle nazioni. La legge agraria, le leggi delle dodici Tavole erano già scritte in latino. Questa lingua, usata dai primi Romani, giunse al suo perfezionamento al Seicento e continuò a fiorire per due secoli, sino all’Ottocento di Roma.

I primi scrittori latini comparvero sul cominciare della seconda Guerra Punica. Ma il tempo che diede i grandi scrittori, i quali fecero appellare quell’epoca il secolo d’oro, fu il secolo d’Augusto. La maggior parte delle opere latine classiche le quali usiamo nelle nostre scuole e che formeranno mai sempre la gloria dell’umano ingegno, furono scritte in quel secolo. Dopo il secolo d’oro la lingua latina cominciò a decadere, e col cadere del Romano impero in Occidente, cessò affatto di essere lingua parlata. Ma il latino fu chiamato lingua classica, lingua dei dotti, perché si ha come fonte di ogni bel sapere. Le opere più celebrate in tutta l’antichità in fatto di scienza sono scritte in latino. La Chiesa Cattolica usa tuttora questa lingua nella liturgia e nei concilii. Il Romano Pontefice suole comunicare le sue leggi ed i suoi ordini in questa lingua. Il latino fu ed è tuttora la lingua della Chiesa Cattolica. Chi possiede questa lingua in ogni paese del mondo può con parole manifestare i suoi pensieri.

ABITI, ABITAZIONI, VITTO E FUNERALI (78).

ABITI. -. L’abito de’ Romani era l’indusium o camicia, la tunica ossia sopraveste, e la toga. La tunica era una veste corta che scendeva fino al ginocchio, e serravasi alla vita con una cintura. La toga era una veste lunga da ogni parte chiusa senza maniche, la quale avviluppava tutto il corpo, lasciando solamente scoperto il capo ed il braccio destro. Quando il fanciullo giungeva ad una certa età, specialmente se di nobile condizione, era vestito di una toga detta pretesta, orlata di rosso. A diciassette anni deponeva la pretesta per indossarne un’altra detta toga virile. Quel giorno il giovine era condotto da un gran numero di amici sulla pubblica piazza, e da quel giorno cominciava ad essere considerato quale cittadino romano. Alla guerra i cavalieri si spogliavano della toga per vestire un manto detto clamide. L’abito del soldato di fanteria ed anche del viaggiatore era il saio (sagum); per ripararsi dalla pioggia portavasi un cucullus, ossia cappuccio, che copriva la testa e le spalle. Non usavano calze, ma le persone delicate od infermicce coprivansi le gambe con fascie di stoffa o con istivaletti.


ABITAZIONI. - Le città degli antichi italiani non erano altro che un ammasso di capanne, le quali talora si trasportavano da un luogo all’altro. Ai tempi della fondazione di Roma vi erano già moltissime città costruite con pietre, con mattoni, e ben fortificate. È molto antico l’uso del vetro e del cristallo, che impiegavano in ogni sorta di lavori, facendone anche delle colonne; ma non sapevano formar lastre per finestre, cui supplivano i poveri con tele o con pergamene, i ricchi con pietre trasparenti tagliate a sottilissime lastre, che dicevano speculari. Le invetriate furono conosciute soltanto ai tempi di Teodosio il Grande. Presso gli antichi non adoperavansi chiavi, né serrature per chiudere le case: gli usci degli appartamenti di dentro erano chiusi da una stanga di ferro; gli scannelli e le credenze erano sigillate col marchio ovvero castone dell’anello destinato a suggellare le lettere, ed ogni volta che le aprivano dovevano ripetere l’operazione.
CONVITI E PRANZI. - Gli antichi si nutrirono per molto tempo di farina d’orzo invece di pane. Fino ai tempi della seconda Guerra Punica ignoravano l’uso dei molini, e perciò tritavano il frumento con due pietre. I Romani furono i primi che introdussero in Italia il lusso dei banchetti. A mensa stavano adagiati sopra letti disposti intorno a certe tavole aggiustate nel triclinio, che era la sala dal pranzo, così chiamata perché intorno alla tavola ordinariamente erano tre di questi letti (tre-clini ossia letti). I conviti componevansi di tre portate: alla prima erano cinghiali tutti intieri, circondati da altri cibi a stuzzicare l’appetito, de’ quali facevano sempre parte le uova. Di qui venne il proverbio: ab ovo usque ad malum, vale a dire dall’uovo, che indica il principio della mensa, sino alla mela, ovvero alle frutta, che solevansi portare in fine. Nella seconda portata eranvi ogni sorta di pasticceria e di manicaretti, ed in questi consisteva il meglio del pranzo. Studiavansi di presentare i volatili più rari e più difficili a trovarsi, come la gru, il pavone, il pappagallo e simili. Nell’ultima portata venivano la frutta ed i confetti come si usa fra noi. Al vino melato della prima portata succedevansi altri vini così gagliardi da non potersi bere puri.
RE DEL CONVITO. - Si tirava a sorte chi dovesse regolare il pranzo, e colui che veniva scelto chiamavasi Re del convito. Costui ordinava le libazioni, i brindisi, il numero di tazze che ognuno doveva vuotare, e chiunque non adempiva quegli ordini era condannato a tracannarne una tazza di più.

Chi avesse preso fiato bevendo era condannato a berne un’altra tazza, ancorché fosse alterato dal vino od anche ubbriaco. Durante il pasto si facevano concerti musicali, talora danze od anche combattimenti di gladiatori. Presso i Romani il pasto principale era la cena, la quale facevasi verso il tramonto del sole. I loro pranzi non erano che una seconda colazione: poi s’introdusse l’uso della merenda; e finalmente la gente di buon tempo mangiava un’ultima volta dopo cena.

Questi divoratori di professione per reggere a tanti pasti non avevano altro mezzo fuorché rigettare, e ciò che reca meraviglia è questo che i medesimi filosofi, i quali avevano fama di sobrii e di onesti, non si vergognavano di provocarsi anch’ essi il vomito dopo cena a fine .di potere nuovamente mangiare.

Questa era la vita dei Romani degenerati. In quel tempo di corruzione ogni sorta di vizio prese forza tra i popoli italiani. In Roma non si domandava più altro, ne di altro si ragionava, se non di pane e circensi, cioè di gozzoviglie, di pranzi, di giuochi, di spettacoli. Tali cose accelerarono grandemente la rovina del Romano impero. La sola santità del Cristianesimo riuscì a porre un freno a tanti vizi che avvilivano l’umanità.


FUNERALI. - In ogni tempo e presso a tutte le nazioni i doveri della sepoltura furono riguardati come cosa sacra. Quando un romano era per esalare l’ultimo fiato, i parenti più prossimi attorniavano il suo letto per ricevere l’ultimo suo respiro e chiuder pietosamente gli occhi al medesimo. Appena morto, lo chiamavano tre volte per nome, gli mettevano un obolo nella bocca, perché potesse pagare il tragitto del fiume Stige, il quale credevano che tutti dovessero passare per andare ai Campi Elisi, che era il paradiso immaginato tra le favole dei pagani.

I funerali non si celebravano prima dell’ottavo giorno. Un suonatore di flauto apriva il cammino, seguivano le trombe, quindi una schiera di prefiche, vale a dire di donne pagate a piangere l’estinto. Portavansi rovesciate tutte le insegne onorifiche dell’estinto, quindi le immagini di cera de’ suoi antenati: venivano appresso i figliuoli del defunto ed altri parenti. Tutto il corteggio vestiva a lutto, portando le donne le chiome scarmigliate.

Il cadavere era processionalmente portato sopra un feretro pomposo e circondato da grande numero di fiaccole accese, e deponevasi nel foro, dove il figliuolo del morto, o qualche altro de’ suoi più stretti parenti saliva sulla tribuna e ne recitava l’orazione funebre. Ne’ tempi più antichi si sotterravano i cadaveri: più tardi si abbruciarono. I parenti più prossimi, volgendo altrove la faccia, appiccavano il fuoco al rogo. Consumato dalle fiamme il cadavere, le ceneri e le ossa, versandovi sopra latte e vino, erano chiuse dentro di un’urna, e l’urna era collocata in una tomba. Prima di chiudere la tomba solevasi dare ad alta voce all’estinto l’ultimo saluto con queste parole: Addio per sempre, noi ti seguiremo tutti secondo l’ordine della natura.


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