L’evoluzione dell’Islam in Bangladesh
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si avviò, anche se in forme non ortodosse, un processo di islamizzazione interna.
Figure chiavi di questa seconda fase furono gli intellettuali, in larga parte poeti, che
Asim Roy appropriatamente designa come “cultural mediators”. Essi intrapresero
l’arduo compito di attuare una rielaborazione della cultura islamica o meglio della
“islamicate culture”, per usare la terminologia di Hodgson, onde rendere tale
cultura accessibile a queste popolazioni indigene. Intellettuali che possedendo una
profonda conoscenza sia della tradizione colta che della cultura locale, ma il cui
merito principale fu il coraggio di infrangere i pregiudizi correnti e di superare
dubbi ed esitazioni personali, procedettero alla traduzione di manuali concernenti
aspetti del culto; questa operazione, apparentemente arida e meccanica, ebbe come
conseguenza, anche se non immediata, l’avvio della legittimazione “islamica” del
bengali e, in seguito, anche del suo alfabeto.
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Ma l’aspetto più innovativo e
creativo della loro opera fu quello di presentare idee guida e personaggi della
tradizione islamica secondo modelli correnti nella cultura preesistente. Infatti essi
avvertirono la necessità di rimanere ancorati a simboli e idee che erano patrimonio
delle masse bengalesi. Inoltre traspare la consapevolezza che limitarsi a presentare
l’Islam nella sua veste ortodossa, basato su alcuni punti di fede e di culto, non
avrebbe soddisfatto la richiesta e il bisogno di una religiosità, intessuta di leggende
e miti, preesistente. Un’operazione culturale complessa e indubbiamente non
omogenea, che definire come fa Eaton, anche solo per scopi euristici, di
“identification”, cioè dove l’obiettivo era quello “of identifying superhuman beings
with one another”, sembra limitativo. I mediatori si sentivano investiti di un
compito religioso il cui obiettivo era sì di rendere queste popolazioni contadine,
senza alcuna conoscenza dell’arabo e del persiano, partecipi della tradizione
islamica,
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ma anche quella di esaltare il primato dell’islam sulle altre tradizioni.
Questo processo può essere visto come il passaggio da una religiosità popolare ad
una forma di Islam popolarizzato, che sarà veicolato utilizzando un proprio codice
linguistico-letterario.
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Il tentativo riuscì solo parzialmente a raggiungere
l’obiettivo di colmare la dicotomia interna alla comunità. Rimase, infatti, insoluta la
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Secondo Manna lo sviluppo di una lingua ibrida, artificiale, che fu chiamata dobhāsī, fu opera di poeti
indù che la utilizzarono dal XV al XVIII secolo. Manna, 1974. Wilce, nel tentativo di ridimensionare
l’enfasi “communal” di Manna, nota: “writing in dobhāsī, might actually have served to mark a
religiously Hindu identity embedded in a stance of loyalty to the Mughal state”. Wilce, 1989, p. 3.
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Tarafdar (1992, p. 98) è dell’opinione che vi siano “links between the brand of mysticism dilated upon
by the poets and Nathism that can be rightly regarded as a yogic-tantric cult”. Bhattacharya è ancora
più tagliente. Di questi poeti scrive: “Si accontentavano talvolta di aggiungere semplicemente un
minimo di rivestimento islamico o tentavano di appropriarsi in modo più spinto delle nozioni e delle
pratiche yogiche inquadrandole secondo lo stile Sufico”. Bhattacharya n.d., p. 1. La tesi, già avanzata in
passato da altri studiosi, è rifiutata con forza da Stewart: “But if we began with a different proposition
about the use of this non-Islamic vocabulary, assuming that it was a search for equivalence, or an
attempt to articulate sophisticated ideas of their own by using locally available lexicon with its limiting
conceptual structure, these texts suddenly come alive as examples of Islamic expansion in an entirely
new mode, a linguistic and cultural appropriation, not an Islamic dissipation”. Stewart, 2000, p. 369.
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Roy, nel lamentare l’incertezza dell’identità e della storia di questa letteratura, sostiene che essa sia
stata redatta in un bengalese arcaico, reso ancora più oscuro dall’uso “of Bengali words of only sub-
original usage […] along with a profusion of Perso-Arabic words”. Roy, 1983, p. 8.
A
MEDEO
M
AIELLO
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differenziazione sul piano della prassi sociale, che è punto nodale della visione
ortodossa. Nello stesso periodo questa frattura fu alimentata e acuita dalla stessa
ideologia religiosa Mughal.
La conquista Mughal, se da un lato creò le condizioni atte a favorire il processo
di islamizzazione, dall’altro contribuì notevolmente al consolidamento della
mentalità extraterritoriale, fornendole una legittimizzazione socio-culturale, oltre
che religiosa. L’avvento dei Mughal, come spesso sottolineato, segna l’avvio di una
indianizzazione del potere musulmano, che si attuò attraverso la cooptazione delle
élite indigene, in primo luogo dei musulmani indiani. Sebbene questi ultimi,
utilizzando genealogie più o meno fittizie, ribadirono la loro origine non-indiana, è
indubbio che in questo periodo si assiste all’instaurazione di una egemonia
culturale hindustani, cioè di quella cultura composita dell’India settentrionale. Ciò
portò i conquistatori a considerare il Bengala come un’area refrattaria e inospitale.
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La lingua, il modo di vestire, la dieta, nonché le pessime condizioni ambientali,
accentuarono questo distacco. I bengalesi e le stesse élite mussulmane dei
precedenti regimi erano guardati con disprezzo. In questo atteggiamento sono
rintracciabili molti degli stereotipi circa i bengalesi che si ritroveranno nel noto
dibattito sulle “martial races”, durante il Raj. Il periodo Mughal vede, dunque,
l’acuirsi, nonostante l’impalcatura ideologica egualitaria dell’islam, della
polarizzazione tra l’élite musulmana dominate e la popolazione bengalese, in
particolare musulmana, che saranno designate rispettivamente ashraf e atrap.
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Ciò
fu facilitato dal ruolo marginale assegnato all’Islam dall’ideologia dominante, che,
invece, trova nella figura dell’imperatore e nel diffuso e gerarchico sistema
burocratico-patrimoniale i suoi pilastri fondamentali. L’islam, nella formazione di
un’identità collettiva, esplica una funzione quasi marginale,
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mentre nella sua
veste sufi, in particolare Chishtyyā, sopperirà ai bisogni spirituali individuali.
Nell’India Mughal non ci fu antitesi tra l’ideale del guerriero-amministratore e
quello del mistico-rinunciatario, anzi questa complementarità fu funzionale alla
netta separazione e comportamentalizzazione della sfera religiosa da quella
politica. Così intesa, la religione fu ridotta a elemento costitutivo, tra gli altri,
dell’identità della classe dominante. I Mughal nel Bengala, come altrove, non
ebbero interesse a promuovere un processo di islamizzazione, né l’ortodossia a
frenare la deviazione. Il processo spontaneo, per così dire, verificatosi nel Bengala
orientale, nonostante i vantaggi fiscali, fu guardato con sospetto poiché
comportava la traduzione di un patrimonio religioso-culturale santificato dal
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Già Abū-l-Faÿl ebbe a notare: “The country of Bengal is a land where, owing to the climate’s
favouring the base, the dust of dissension is always rising. From the wickedness of men families have
decayed and dominions been ruined”. Abū-l-Faÿl, III, 1989, p. 427.
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Sulle articolazioni interne alle due classi si veda Ahmed, 1988, b, pp. 13-20. la stratificazione non fu un
fenomeno limitato al Bengala come nota Bhatty: “the structure of Muslim society in India did not at any
time exhibit the Islamic ideal of social equality. An elaborate system of social stratification has been the
practice from the very beginning of Muslim rule in India”. Bhatty, 1978, p. 210..
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Tale atteggiamento dei Mughals è esemplificato dalla politica verso i Mawati, i quali, pur essendo uno
dei primi gruppi del Rajastan ad abbracciare l’Islam, furono scarificati all’esigenza di attuare l’alleanza
con i Rajput”. Mayaram, 1997, p. 172.