Giovanni pico della mirandola e IL suo impegno per la concordia


La ricerca della concordia e della conciliazione



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3. La ricerca della concordia e della conciliazione

Dunque Pico non è un libero pensatore alla ricerca di una generica verità. Egli è convinto che la verità sia presente nel cristianesimo e che di essa la chiesa sia fedele custode: questo è il suo punto di partenza.

Tale convinzione non gli viene “dal basso”, la sua fede cristiana non è semplicemente il frutto di una ricerca e di un confronto intellettuale di vasta portata tra le proposte religiose che dall’antichità hanno conquistato l’uomo. Tutt’altro, come metodo di ricerca Pico parte dal cristianesimo, per cogliere, retrospettivamente, il significato e il senso della ricerca culturale, filosofica e religiosa umana fino alla venuta di Cristo. E il senso sta nella presenza, per quanto incompleta e nascosta sotto tanti aspetti particolari e trascurabili di diversità, di quell’unica verità che Cristo ci ha rivelato in pienezza.

Dunque non si deve ricercare per scoprire una comune verità, ma si parte dalla certezza della sua esistenza per verificare poi l’universalità della sua presenza. Pico sa in partenza che la verità è Cristo.

Cogliere lo splendore di questa verità lungo tutto il tragitto speculativo dell’uomo è la grande missione della quale il conte si sente investito e che intende portare a compimento attraverso una puntigliosa ricerca atta a rilevare la conseguente concordia tra le diverse posizioni filosofiche e la relativa conciliazione tra le varie espressioni religiose dell’umanità.

3.1. Il metodo di una ricerca

Il primo punto consiste nella conoscenza il più possibile documentata delle varie correnti culturali. È questa, per sè, una fase previa, ma assolutamente necessaria. Per Pico, infatti, solo la conoscenza approfondita degli autori e delle loro scuole di pensiero consente di cogliere gli elementi in comune e la loro concordia.

Così egli imposta un monumentale piano di studi che gli valse una celebrità secolare. La sua biblioteca è la testimonianza più concreta della vastità dei suoi interessi e degli autori frequentati.

Non basta, però, conoscere gli autori, è necessario averli approfonditi con grandissimo impegno, perché solo a quel punto ciò che prima sembrava dividere in realtà si rivela invece essere in comune.

Fatto questo e approfondito tutto, Pico scopre che dottrine differenti possono, se lette correttamente, risultare complementari, oppure mette in rilievo che le diversità non sempre riguardano la sostanza delle questioni. Coglie analogie nascoste tra posizioni differenti e autori diversi che così, a ben vedere, non differiscono tra loro.

3.1.1. La teologia poetica

Funzionale ad una ermeneutica simbolica che intendeva cogliere l’unica verità presente dietro i racconti, le favole, i miti dei letterati, fu la teologia poetica di cui Pico volle servirsi.3

Fu per il conte questo il metodo usato da Mosè per parlare delle cose divine al popolo incolto. Del resto per Pico l’uomo, in quanto natura intellettuale unita ad un corpo non può in genere conoscere direttamente la res di una cosa, ma ne può cogliere solo la rappresentazione. Pochi uomini sono in grado di cogliere direttamente le realtà intelligibili liberandosi dalla prigione dei sensi, per gli altri è solo possibile una conoscenza di tipo simbolico che parte dai dati sensibili

L’interpretazione simbolica di un testo, dietro al quale è possibile leggere significati nascosti, trova, nelle opere del mirandolano, il suo vertice nell’Heptaplus, un commento biblico al racconto dei sette giorni della creazione. Così Mosè parlava in un modo apparentemente rozzo per poter essere compreso anche da chi aveva scarsa capacità di apprendimento, mentre in realtà, per chi lo poteva comprendere, rivelava i grandi misteri della creazione. Per i primi l’unico modo di conoscere qualcosa delle realtà divine è legato a questa forma imperfetta, figurata e materiale di rivelazione, mentre l’ermeneutica simbolica dei dotti può portare molto più in alto nella conoscenza.

La ricerca di una concordia tra i pensatori trovava nella teologia poetica un possibile punto di riferimento in quanto essa invitava ad andare al di là delle immagini e dei miti, che erano ovviamente diversi nei vari autori, per cercare l’unico messaggio che veniva in tal modo, e per i motivi già detti, veicolato. Pico stesso, stando a quanto egli afferma nel Commento e nell’Oratio, aveva pensato di scrivere una propria teologia poetica che servisse da commento per lo studio di questi antichi autori. Del resto egli applicò proprio questo principio ermeneutico nel commentare la canzone d’amore dell’amico Girolamo Benivieni, nel commentare i testi biblici dell’Antico Testamento, soprattutto i Salmi, in alcune pagine dell’Oratio, e poi in tutto l’Heptaplus. Fedele a questa impostazione, il conte potè sempre cercare la conferma di una affermazione facendo riferimento a testi di autori anche tra i più lontani tra loro.

3.1.2. Il riferimento alla prisca theologia.


Ai tempi di Pico era diffusa la certezza di poter collegare le proprie convinzione a quelle dei prisci theologi, cioè di quei saggi orientali e greci anteriori a Platone che avevano esposto, sotto il velo delle immagini e delle figure, le verità fondamentali per l’uomo, la pienezza della conoscenza. La stessa filosofia greca, secondo questi sostenitori, dipenderebbe dalla prisca theologia, la quale, in base all’opinione di Ermete Trismegisto, si rifarebbe addirittura alla sapienza di Mosè. Così la verità, il Logos, si sarebbe via via rivelata attraverso l’uso delle immagini nei prisci theologi, avrebbe poi trovato un’esposizione più compiuta e razionale nella filosofia greca e soprattutto in Platone, e si sarebbe infine rivelata nella sua forma piena e perfetta, grazie all’incarnazione del Logos avvenuta nella persona di Gesù.

Per molto tempo Pico si sentirà vicino a queste posizioni certamente molto suggestive per chi come lui tentava una conciliazione tra le varie dottrine. Solo negli ultimi anni questo entusiasmo si raffredderà.

Nella sua ricerca e nella sua speculazione Pico si avvalse anche di alcuni mezzi tecnici da lui ritenuti importanti: la matematica, la magia e la cabala. Essi sono preziosi per il suo intento di andare oltre il mondo naturale ed aprirsi un varco nella comprensione del mondo intelligibile, ma sono anche di grande utilità perché in grado di mettere in rilievo la struttura unitaria del mondo creato.

3.1.3. La matematica formale
Per matematica Pico intende una sorta di numerologia mistica per la quale il numero diventa la chiave più diretta per la comprensione dei misteri nascosti della natura. Il riferimento è alla dottrina dei numeri formali di Pitagora.

Essa è in grado poi di formulare delle posizioni e rivelare, attraverso una combinazione di regole simile all’ars numerandi di Raimondo Lullo, una verità altrimenti non percepibile. Grazie a que­sta aritmetica specia­le Pico era convinto di poter giungere alla comprensione piena e profonda di ogni dottrina e di ogni realtà.


3.1.4. La magia
Per Pico la magia va intesa come il vertice della filosofia della natura. La magia, partendo dalla conoscenza delle leggi universali presenti nel mondo della natura, permette infatti di agire sui corpi per un loro più adeguato funzionamento, essa è così la parte pratica della scienza naturale. In questo senso, e solo in questo senso, fu oggetto di attenzione da parte dei sapienti (ben altra cosa è la magia demoniaca condannata dalla chiesa).

È evidentemente funzionale a questa impostazione la visione del mondo neoplatonica per la quale gli esseri sono tra di loro uniti da un legame di empatia, di produzione, di dipendenza, di tensione all’unità, e vi è un continuo rapporto tra il mondo intelligibile e quello sensibile. Il mago è colui che ristabilisce l’unità infranta propria di un corpo malato richiamando l’azione degli intelligibili che formano i corpi riproponendo quella perfetta unità che la natura ha realizzato nella sua forma più alta nell’uomo.

Più che per gli ipotetici aspetti pratici, che sono tutti da verificare, ovviamente, la magia doveva interessare Pico per l’impianto teorico che la supportava, in quanto la possibilità di istituire un rapporto, un legame, tra mondo sensibile ed intelligibile (ciò infatti la magia provava) era funzionale non solo a sostenere la cosmologia neoplatonica, ma anche l’intuizione pichiana che, a fronte di una apparente diversità di mondi, quello elementare, quello celeste e quello angelico, non vi era fra essi giustapposizione, data la continua relazione che li lega.

Conseguentemente tutto ciò rappresentava per Pico una conferma della sua convinzione di una possibile reductio ad unum nel campo cosmologico.

L’attenzione di Pico per la magia non fu, però, costante. Anzi, negli ultimi anni egli si fece assai più prudente nel farne uso e, come nel caso della prisca theologia, il suo interesse si andò via via raffreddando.
3.1.5. La cabala
Secondo la tradizione, la cabala conterrebbe la dottrina segreta che Mosè ricevette da Dio sul monte Sinai assieme alla Legge e che non doveva essere divulgata a tutti, ma solo trasmessa oralmente tra i dotti che ne erano degni. Il volgo, infatti, non era in grado di comprenderla. Dopo l’esilio di Babilonia, Esdra, nel timore che la trasmissione orale non potesse continuare, fece mettere per iscritto questa tradizione. Ne vennero 70 volumi. Già tre di questi volumi erano stati tradotti in latino per volere di papa Sisto IV, il predecessore di Innocenzo VIII che era l’allora papa reggente.

Eb­bene, secondo Pico, grazie a questi testi e alla tecnica interpretativa che insegnano, nel racconto dell’Antico Testamento non si troverebbe tanto la fede ebraica, quanto l’unica autentica verità, cioè il contenuto della fede cri­stiana: la Trinità, l’incarnazione del Verbo, la divinità del Messia, il peccato originale, la redenzione per Cristo, etc. È una intuizione centrale: la stessa fede ebraica quando viene intesa rettamente ed è com­presa nella sua profondità, e a ciò è funzionale la cabala, ha in sè i contenuti del cristia­nesimo.4

Pico si avvicinò alla cabala dall’estate del 1486, quindi dopo il ritorno da Parigi e prima, o durante, la stesura delle Conclusiones. Probabilmente fu iniziato ad essa attraverso l’aiuto di Elia del Medigo, il quale però non era un cabalista, e Flavio Mitridate.

L’entusiasmo per l’apprendimento di questa misteriosa fonte di sapere fu straordinario. In questo periodo Pico inizia a scrivere il Commento, al termine del quale definisce la cabala: “grandissimo fondamento della fede nostra”.5 Nelle Conclusiones Pico intese proporre subito alla discussione ben 119 tesi della tradizione cabalista. Essa, secondo lui, ha il grande pregio e onore di essere fundamentis Christianam Religionem maxime confirmans. Questo è dunque il motivo di tanta attenzione: la cabala intende proprio cogliere l’unica verità, la verità cristiana, presente in testi non cristiani, quelli dell’Antico Testamento.

La suggestione fortissima che il conte ebbe per la cabala si spiega anche in quanto essa era funzionale al suo progetto conciliatore. Così gli ebrei avrebbero dovuto capire che la verità annunciata dalla chiesa era contenuta anche nei testi dell’Antico Testamento in particolare per ciò che riguarda la questione della venuta del Messia e il dogma della Santissima Trinità.

Oltre alle tesi cabalistiche delle Conclusiones, Pico fece uso di questo metodo ermeneutico nell’Heptaplus, anzi, qui si allineò esplicitamente alla concezione della cabala quando si disse convinto che dietro le parole apparentemente rozze di Mosè vi fosse un significato nascosto, ma reale, da far emergere. La stessa struttura dell’opera, costituita di sette esposizioni di sette capitoli ciascuna, ha una suggestione numerica di tipo cabalistico.

L’esempio più evidente ed esplicito di esegesi cabalistica l’abbiamo nell’appendice all’Heptaplus dove Pico, precisamente con questo metodo ermeneutico, interpreta la prima parola della Bibbia, berescith.

Eppure dopo l’Heptaplus la cabala è assente nelle opere di Pico che pure, nella sua produzione letteraria, sono le più spirituali.

L’abbandono della cabala, cui si unisce in questi anni una grande prudenza sia sulla prisca theologia che sulla magia, resta un dato forte che delinea certo un cambiamento notevole nello stile di Pico.6


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