S giovanni bosco


XII. Alessandro Severo. - I tre Gordiani



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XII.
Alessandro Severo. - I tre Gordiani (58).

(Dall’anno 222 all’anno 240 dopo Cristo).


Un regno di pace e di prosperità per l’Italia e per tutto il Romano impero fu quello di Severo Alessandro. Eliogabalo l’aveva adottato per successore; ma perché era di ottimi costumi e da tutti amato, ne ebbe gelosia, e tentò di farlo ammazzare. La qual cosa per buona sorte non gli riuscì. Ucciso Eliogabalo, esso fu con gioia universale proclamato imperatore.

La mansuetudine e la giustizia erano virtù proprie di questo imperatore. Persuaso che la sola religione è sostegno degli imperi, la sola che possa formare la felicità dei popoli, si mise a praticarla egli stesso, e a farla rispettare universalmente. Nel suo palazzo aveva fatto costruire un tempietto, in cui fece riporre le immagini dei benefattori più insigni dell’umanità. Vi si vedeva Alessandro il Grande, Abramo, Orfeo, Gesù Cristo; mescolanza al tutto bizzarra, ma che dimostra la buona intenzione di quel principe. Amava il cristianesimo, udiva volentieri a parlare del Vangelo, e aveva fatto scrivere a grandi caratteri nel suo palazzo queste belle parole del Salvatore: Non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a vol. Massima questa che i cristiani non dovrebbero mai dimenticare.

Egli era affabile con tutti, e perdonava facilmente a chiunque lo avesse personalmente offeso. Un senatore di nome Ovinio fu accusato di aver aspirato all’impero, e il delitto si provò chiaramente. Alessandro lo fece venire alla sua presenza e dissegli: Ovinio, io vi sono obbligatissimo della buona volontà colla quale eravate disposto ad alleggerirmi di un peso, che molto mi opprime. Dopo di ciò lo condusse in Senato, lo associò all’impero, volle che gli fosse dato albergo nel suo medesimo palazzo. Che più? in una guerra accorgendosi che Ovinio era stanco, gli offrì il proprio cavallo, camminando egli stesso a piedi. Confuso Ovinio da tanta generosità, dimandò di ritirarsi per menare una vita privata, ed Alessandro acconsentì, pago di avere colmato di benefizi un suo nemico.

Il regno di Alessandro è segnalato da un avvenimento notabilissimo. Un semplice soldato persiano di nome Artaserse, fattosi proclamare re di Persia, mandò a Roma una pomposa ambasciata di quattrocento giovani persiani dei più ben fatti e con tutta eleganza vestiti. Presentati si costoro ad Alessandro, gl’intimarono baldanzosamente che cedesse sull’istante i paesi che i Romani possedevano in Asia.

Severo fu sdegnato di quell’arrogante comando, e posto si egli stesso alla testa di un esercito, si portò nella Mesopotamia, quella provincia di cui parla spesso la Storia Sacra e che oggidì si appella Dierbeck. Dopo molte sanguinose battaglie, Alessandro riuscì a respingere i Persiani, obbligandoli a rispettare le frontiere dell’impero; di poi ritornò a Roma per ricevere gli onori del trionfo.

Una cosa che devo farvi notare di questo principe si è il grande amore e il grande rispetto che egli professava verso di Mammea, sua madre. La venerava egli stesso, e voleva che dagli altri fosse rispettata; nelle feste, nei pubblici spettacoli la voleva sempre seco; anzi in tempo di guerra, nelle più pericolose battaglie erale sempre accanto, ed ella era abbastanza coraggiosa e virtuosa da non iscostarsi mai dall’amato figliuolo.

Questo principe era d’indole e di cuore assai buono, ma troppo attaccato al culto degli Dei. Voleva egli che tutti i suoi sudditi li adorassero. I cristiani, che riconoscono un solo e vero Dio, rifiutavano di ubbidire. Questa è la cagione per cui durante il regno di Alessandro i cristiani furono perseguitati, e non pochi riportarono la palma del martirio. Ma la persecuzione fu assai più crudele sotto al successore di Alessandro, di nome Massimino.

Egli era un semplice soldato barbaro, di statura gigantesca. Aveva più di sei piedi, ossia tre metri di altezza, quaranta libbre di carne appena bastavano a soddisfare il vorace suo appetito, e un grosso barile di vino non poteva estinguer la sua sete. Dicono che egli corresse velocemente come un cavallo. Nella sua gioventù era stato pastore sulle montagne della Tracia, oggidì Rumania, ed aveva dato saggio d’incredibile valore contro alle bestie feroci e contro ai masnadieri. Questa fortezza straordinaria lo portò in breve ai primi gradi della milizia Romana. Severo stesso gli aveva conferito il grado di generale con altri titoli onorevoli; ma quell’ingrato, invece di servirsi dei favori ricevuti a pro del suo benefattore, gli suscitò contro una ribellione, nella quale Alessandro venne trucidato insieme con sua madre.

Allora Massimino si proclamò imperatore, ed è il primo tra i barbari che abbia occupato l’impero. Il suo regno fu un complesso di barbarie e di crudeltà. Bastava che alcuno parlasse della sua origine perché fosse tosto condannato a morte. Egli è l’autore della sesta persecuzione, e si annovera tra i più feroci nemici del cristianesimo.

Ordinò di spogliare i templi degli Dei, volendo che il provento fosse per lui e pe’ suoi soldati, la maggior parte dei quali arrossivano di trarre profitto da quei sacrilegi. Questo disprezzo per la religione il fece cadere in aborrimento universale. Una sol1evazione scoppiò in Africa, e Gordiano vi fu salutato imperatore. Il Senato lo riconobbe e gli associò il suo figliuolo Gordiano II. Ma poco appresso i due Gordiani furono sconfitti ed uccisi dall’esercito di Massimino. Il Senato allora conferì la dignità imperiale a due senatori, Claudio Pupieno e Decimo Celio; ma il popolo li ricusò ambidue e volle per imperatore Gordiano III, figliuolo di Gordiano II. Massimino a tale notizia correva furioso verso Roma; se non che, giunto in Aquileia città posta sulla sponda dell’Adriatico, fu trucidato dai medesimi suoi soldati in un col figliuolo.

Cominciava Gordiano appena a regnare, quando dovette andare in Oriente, contro ai Persiani. Colà Filippo, capo dei pretoriani, fece assassinare Gordiano, e venne egli stesso proclamato imperatore dai soldati.

Al vedere, o giovani, l’imperatore nominato ora dai pretoriani ed ora dagli eserciti, quando dal Senato e quando dal popolo, forse direte: Non vi era una legge, che determinasse la Successione all’impero e che così prevenisse tanti mali? Presso ai Romani mancava veramente questa legge. Presso di noi è legge, che il figliuolo primogenito succeda nel regno al padre defunto; questa successione si chiama legittima. Imparate a rispettarla.



XIII.
Filippo. - Decio e i barbari (59).

(Dall’anno 240 all’anno 251 dopo Cristo).


Dopo Gordiano III salì sul trono Filippo, che governò lodevolmente l’impero. Si crede che egli abbia abbracciata e professata la religione cristiana. Quello che è certo si è che durante il suo regno i cristiani furono lasciati in pace. Regnando questo principe fu celebrato con indicibile festa l’anno millesimo della fondazione di Roma. Anche ogni cento anni solevasi solennemente celebrare in Roma l’anniversario della fondazione di quella città; ma questa volta, oltre all’anno detto secolare, cioè che dava principio ad un altro secolo, occorreva eziandio l’anno millesimo di tale fondazione; pel che vi fu una solennità straordinaria con innumerabile concorso di gente.

L’anno duecento quarantanove un certo Marino erasi fatto proclamare imperatore dall’esercito nella Pannonia, oggidì Ungheria. Filippo spedì un generale di nome Decio per sedare il tumulto; ma invece fu egli stesso dall’esercito proclamato imperatore. A siffatto annunzio Filippo corse con un altro esercito, e venne alle mani con Decio, vicino a Verona, dove perdé la vita. Suo figlio rimasto a Roma vi fu ucciso dai pretoriani.

L’impero di Decio è segnato da una crudele persecuzione, da lui eccitata contro ai cristiani, ed è la settima tra le dieci sanguinose suscitate nei tre primi secoli dell’èra volgare contro alla religione cristiana. Fu pure sotto il regno di Decio che comparvero sulle frontiere dell’Italia innumerevoli squadre di barbari, detti comunemente Goti. Siccome ci accadrà più volte di parlare di questi popoli nel progresso di questa Storia, così sarà bene che ve li faccia conoscere.

Nel raccontarvi la spedizione di Varo in Germania vi feci osservare, che quel paese era nella maggior parte coperto da folte selve, e che parecchi uomini vi abitavano, altri in mezzo alle selve, nelle tane come le volpi, altri nelle spelonche delle montagne a maniera di orsi, altri poi dimoravano in capanne sulle riviere dei laghi e dei fiumi. Quelli che invasero le provincie romane al tempo di Decio abitavano quel tratto di paese ch’è tra la Vistola, fiume che nasce nelle montagne della Slesia e va a scaricarsi nel Baltico, e l’Elba, il quale ha la sorgente nel monte dei Giganti nella Boemia e va a mettere le sue acque nell’Oceano. Osservate questi luoghi sopra una carta geografica e vi tornerà di non poco aiuto a ritenere i fatti che sono per raccontarvi.

Que’ barbari erano divisi in cinque grandi tribù, ovvero grandi famiglie, conosciute sotto il nome di Vandali, Longobardi, Gepidi, Ostrogoti e Goti d’Occidente. Ciascuna tribù aveva un capo, da cui tutti dipendevano, ed al primo segno di lui si mettevano in cammino, ordinati in grandi colonne, traendosi dietro le mogli ed i figliuoli su carri e facendo lunghissimi tratti di strada.

Appena Decio seppe che que’ barbari avevano traversato il Danubio e si avanzavano nelle provincie romane con orrendi guasti, si affrettò ad andarli a combattere con parecchie legioni. In sul principio ebbe molto favorevole la sorte delle armi, e giudicava già quasi sua la vittoria; ma essendosi inconsiderata mente inoltrato in una palude, fu oppresso dalla folla dei combattenti e perì insieme colla maggior parte delle sue genti.

Allora le legioni sparse qua e là si radunarono ed elessero imperatore un generale chiamato Gallo. Questi, desideroso di por fine alla guerra co’ barbari, con chiuse con loro un trattato di pace, in forza di cui: 1° permetteva che essi portassero seco tutto il bottino che avevano fatto e conducessero in ischiavitù tutti i prigionieri; 2° si obbligava di pagare loro ogni anno una grossa somma di danaro. A queste condizioni i Goti soddisfatti acconsentirono di ritirarsi dall’altra parte del Danubio. Ma non tardarono molto a ritornare nelle provincie Romane e cagionarvi gravissimi disastri.

XIV.
Scompiglio del Romano Impero (60).

(Dall’anno 252 all’anno 284 dopo Cristo).


Di mano in mano che il Vangelo spandeva la benefica sua luce nelle varie parti del mondo, il Romano impero andavasi sfasciando e si stabiliva così il cristianesimo sulle rovine dell’idolatria. Roma, per tanto tempo capitale del Romano Impero, si preparava a divenire la città eterna e la capitale del mondo cattolico.

Da Gallo a Diocleziano havvi una rapidissima successione d’imperatori, il cui regno fu di corta durata, perché l’uno dopo l’altro trucidati. Gallo fu ucciso da Emiliano, trucidato il quale venne proclamato imperatore Valeriano.

Valeriano si adoperava per ristabilire la disciplina nei soldati, ma si lasciò ingannare dai sacerdoti dei falsi Dei i quali lo persuasero a distruggere il cristianesimo se voleva vincere in una guerra coi Persiani. È questa l’ottava persecuzione, in cui, fra molti altri, riportarono glorioso martirio il diacono S. Lorenzo, che fu bruciato vivo sopra una graticola, e S. Sisto II papa, il quale fu decapitato l’anno 261.

Valeriano intanto intraprese la guerra, ma con esito infelicissimo, perciocché in una battaglia ebbe la peggio e cadde in mano di Sàpore, re di Persia, il quale poselo in catene e lo sottomise a grandissime umiliazioni. Si dice che quando montava a cavallo il costringesse a curvarsi dinanzi a lui, e ponendogli il piede sul dorso, se ne servisse come di staffa per salire in sella. Per ultimo fu scorticato vivo, provando così prima di spirare in grande parte i tormenti che egli aveva fatto patire ai cristiani.

Gallieno, figliuolo di Valeriano, prese le redini del governo. Questo principe, invece di occuparsi del regno, davasi tutto al lusso ed ai passatempi; perciò i Persiani, i Goti ed altri barbari poterono assalire da varie parti il Romano impero. In tempi tanto disastrosi molte provincie, non potendo altrimenti provvedere alla loro difesa, pensarono di eleggersi per capo qualche nobile personaggio, cui diedero pure il nome d’imperatore, e, cosa non mai udita, si videro trenta imperatori contemporanei, ai quali la storia diede il nome di trenta tiranni. L’indolente Gallieno governò l’Italia per mezzo di un suo rappresentante di nome Tetrico.

Immaginatevi a quanti disastri andò soggetto il Romano impero in questo scompiglio di cose! Tuttavia que’ mali non durarono lungo tempo; Gallieno fu ucciso in Milano, ed i trenta tiranni senza venire a spargimento di sangue, cessarono l’un dopo l’altro di vivere. A Gallieno succedeva Claudio II, principe buono, il cui regno fu assai breve, e morì di peste, lasciando la corona ad Aureliano. Questi si adoperò per ristorare i mali da tutte parti piombati sopra i suoi sudditi. Diede grandi esempi di valore nel combattere i Vandali ed altri barbari che erano penetrati in Italia; portò le armi in Oriente contro ai Persiani; assalì Palmira, città famosa nell’antichità, fondata dal re Salomone sotto il nome di Tadmor. Questa città era la sede di Zenobia, donna di eroico valore, la quale per molte conquiste da lei fatte si gloriava del titolo di regina d’Oriente. Era costei di nascita e di religione ebraica, e quando ebbe cognizione del Vangelo favorì molto il cristianesimo, e desiderava di farsi istruire per abbracciarlo; ma sgraziatamente cadde in cattive mani, cioè ebbe a maestro un eretico il quale invece di guidarla alla verità, la condusse all’errore.

Dopo lunga resistenza i cittadini di Palmira dovettero arrendersi, e Zenobia, fatta prigioniera, fu condotta dinanzi ad Aureliano. Questi le domandò con piglio severo, come mai avesse osato muovere guerra agli imperatori romani. Zenobia diede questa schietta risposta: «In voi ravviso un imperatore, perché sapete pur vincere, ma i vostri predecessori non mi sembrano degni di questo titolo augusto». L’imperatore trattò questa regina con tutti i riguardi dovuti ad un grande infortunio, e le assegnò per dimora una casa di campagna vicino a Tivoli, dove ella terminò tranquillamente i suoi giorni come dama romana.

Aureliano nei primi anni del suo regno non era contrario ai cristiani, ed aveva gran rispetto pel sommo Pontefice. I cristiani d’Antiochia ricorsero a lui perché desse il suo parere intorno alla dottrina dell’eretico Paolo, maestro di Zenobia, che turbava quella città. Il principe ordinò che ognuno dovesse stare a quanto giudicherebbe il vescovo di Roma; fin da quei tempi riconosciuto capo della cristianità. Ma qualche tempo dopo Aureliano sottoscrisse un terribile editto, col quale fulminava la pena di morte a tutti quelli che fossero conosciuti per cristiani. Questa fu la nona persecuzione, la quale per altro non fu molto lunga, perciocché Aureliano fu dal proprio segretario ucciso nel 278.

Dopo la morte d’Aureliano niuno più osando addossarsi il peso dell’impero, il Senato elesse un senatore chiamato Tacito, il quale di mal animo accettò una dignità divenuta tanto pericolosa; e in fatti a capo di alcuni mesi fu ucciso.

Allora l’esercito proclamò imperatore Probo, generale degno di questo nome. Durante il suo regno, che fu di sei anni, tenne lontani i barbari e gli altri nemici dalle provincie romane. Egli morì, come quasi tutti i suoi antecessori, ucciso dai soldati. (Anno 283).

Caro parve degno di succedergli nel trono, ma poco dopo la sua esaltazione fu colpito dal fulmine. Carino e Numeriano, di lui figliuoli, appena riuscirono a salire sul trono, che furono trucidati. (Anno 284).

Vedete, miei cari giovani, quanto sia vero che le cariche e gli onori del mondo non fanno la vera felicità. L’uomo può soltanto reputarsi felice quando pratica la virtù.



XV.
Diocleziano e l’èra dei martiri (61).

(Dall’anno 284 all’anno 312 dopo Cristo).


Erano per compiersi tre secoli, da che il cristianesimo veniva da tutte le parti del romano impero terribilmente combattuto. Diocleziano mosse contro ai cristiani la decima persecuzione, che di tutte le precedenti fu la più sanguinosa. Questo principe nato di bassa condizione, soltanto per via delle armi giunse a conseguire il trono. Non potendo da solo governare l’estesissimo suo impero, fece suo figliuolo adottivo e creò Augusto un generale di nome Massimiano, e gli affidò il governo dell’Italia e di altri paesi, riserbando a sé il governo dell’Oriente, cioè della Grecia, della Macedonia, dell’Asia fino al Tigri e dell’Egitto, e stabilì sua dimora in Nicomedia, oggi dì Isnikmid, città dell’ Asia Minore. Massimiano poi andò a stabilirsi in Milano. Questi imperatori, chiari ambedue per valor militare, non avevano altro di mira che l’ambizione e la vanagloria. D’indole barbara, dissimulatori, crudeli, si adoperavano di comune accordo per distruggere i cristiani, da essi considerati come nemici dell’impero, unicamente perché disapprovavano la viziosa loro condotta, e ricusavano di adorare le false divinità per adorare il solo vero Dio Creatore del cielo e della terra. Città intere, i cui abitanti erano cristiani, furono arse e distrutte. Una legione detta Tebea, composta si oltre seimila uomini, fu tutta passata: a fil di spada nel Vallese, vicino a quel monte che al presente si appella Gran S. Bernardo. Questi martiri avevano alla testa, S. Maurizio loro generale, che fino all’ultimo respiro animò i suoi compagni a dare coraggiosamente la vita per la fede.

Mentre l’Italia era bagnata di sangue cristiano, l’impero fu assalito dai barbari, e perturbato da sollevazioni di parecchi sudditi; perciò furono creati due Cesari, cioè due luogotenenti ed eredi dei due imperatori. Il primo fu Costanzo Cloro, principe commendevole e degno per le sue virtù di essere il padre di Costantino il Grande; il secondo fu Galerio, uomo superbo, intrattabile e di pessima condotta. Il governo di questi due Cesari unitamente a quello dei due imperatori suole denominarsi tetrarchia, ossia governo di quattro.

Galerio fece tutto quel male che poté alla religione cristiana, obbligò Diocleziano a rinunziare all’impero e a condur vita privata. Diocleziano si ritirò a Salona, piccola città sulle sponde del mare Adriatico, dove fu assalito da una malattia che lo faceva dare nelle più violente smanie. Si percuoteva da se medesimo, si voltolava per terra, mettendo spaventevoli grida; al fine bramando di terminare una vita così infelice, si lasciò morire di fame.

Non meno funesta è stata la morte di Galerio. Egli aveva anche costretto Massimiano a rinunciare all’impero, e così poté con tutta libertà fare alla nostra Italia tutto il male che un tiranno sa immaginare. Ma la vendetta del Cielo venne eziandio a colpire questo scellerato con orribile malore.

Mi è impossibile dirvi gli eccessi di rabbia e di collera in cui dava il feroce Galerio. Il suo corpo era una sola piaga, che metteva vermi continuamente, e nell’eccesso del furore faceva strozzare tutti i suoi medici. Tuttavia ve ne fu uno, il quale coraggiosamente lo avvisò, che quella malattia non poteva guarirsi con rimedi ordinari: Vi ricordi, o principe, gli disse, quanto faceste patire ai cristiani, e cercate il rimedio de’ vostri mali in ciò che ne fu la cagione.

Allora Galerio confessò per vero il Dio de’ cristiani, e andava gridando che farebbe cessare la persecuzione. Ma le sue promesse non erano sincere, e non fu esaudito. Laonde fra i rimorsi e la disperazione spirò dopo un supplizio di ben diciotto mesi.

Così la divina Provvidenza faceva provare a quei persecutori grande parte dei tormenti che eglino stessi avevano fatto patire ai cristiani. Ma le morti funeste di quei tiranni fecero sì, che più bello e più luminoso comparisse l’impero del grande Costantino, per la cui opera il cristianesimo doveva godere di una pace non mai per lo innanzi provata.


XVI.
Battaglia di Torino. - Costantino a Roma (62).

(L’anno 312 dopo Cristo).


Costanzo Cloro governava col suo coraggio e colle sue virtù la Gallia, la Spagna e la Gran Bretagna. Invece di perseguitare i Cristiani, come Galerio e Diocleziano, egli si era loro mostrato sempre favorevole, animato a ciò da sua moglie Elena. Questi due consorti si diedero ogni cura per ben allevare il loro figliuolo Costantino, e lo affidarono ad un savio maestro cristiano, chiamato Lattanzio. Questo giovane principe, educato così nella mansuetudine del Vangelo, acquisto fermezza di carattere, cuor grande e liberale, costumi puri e illibati. Siffatte doti presero sempre maggior incremento in Costantino, perché aveva egli fin dalla giovinezza avversione all’ozio, e con assiduità erasi applicato allo studio, seguendo la massime del suo maestro. Suo padre morendo lo aveva eletto successore, e tutto l’esercito con unanimi applausi approvò e riconobbe il novello imperatore, il quale allora era in età di anni trentadue.

Mentre i vari imperatori guidavano i loro eserciti dispersi nelle varie parti dell’impero, Massenzio, figliuolo di Massimiano, si fece in Roma proclamare Augusto dal popolo.

né guari andò che per la sua crudeltà incontrò l’odio dei Romani, i quali perciò si volsero a Costantino, che allora dimorava nelle Gallie. La pietà ch’egli sentiva pei Romani, ed il sapere che Massenzio disegnava di muovergli guerra, indussero Costantino a calare in Italia, traversando il Monginevra. Giunto a Susa, la trovò ben fortificata e ben difesa. Non volendo perdere tempo nell’assediarla comandò che le si appiccasse il fuoco alle porte e si desse la scalata alle mura. Vi entrò vittorioso; ma, clemente, ne impedì il saccheggio. Poi si avviò verso Torino; ma presso a Rivoli incontrò possenti schiere nemiche; laonde egli dividendo in due parti il suo esercito, le prese in mezzo, le assalì e sconfisse. Invano i fuggiaschi cercavano di ricoverarsi in Torino; questa città loro chiuse le porte, e non le aprì che a Costantino.

Questi primi successi mossero altre città a spedirgli deputati per protestargli ubbidienza, talché senza ostacolo alcuno entrò in Milano, donde si condusse sopra Verona. In questa città si erano raccolte quelle soldatesche di Massenzio, che andavano ritirandosi coll’avanzarsi di Costantino. Pompeiano, generale di Massenzio, ne uscì per opporglisi, ma fu pienamente sconfitto, e vi perdette la vita. Costantino allora s’inoltrò fin sotto Roma, donde Massenzio non era mai uscito, perché i suoi astrologhi gli avevano predetto che se ne usciva sarebbe perito. Egli confidava nel suo esercito, di gran lunga superiore a quello del rivale; confidava nell’oro, con cui sperava di poter corrompere le genti di Costantino; ma erano diversi i disegni del Cielo, che voleva finalmente liberare la sua Chiesa dalle persecuzioni.

La battaglia era inevitabile, e doveva decidere a chi rimarrebbe l’impero. Posto in tale cimento Costantino, che più non credeva alla follia del paganesimo, ma non era ancora fermo credente in Cristo, si rivolse, come egli disse dipoi, al Dio creatore del cielo e della terra, con vivo desiderio di conoscerlo. Fu esaudito. In sul mezzodì egli, non meno che l’esercito tutto, vide in aria una croce splendida, sulla quale stavano scritte queste parole: Con questo segno vincerai. Perplesso dubitava ancora, quando nella seguente notte Cristo gli apparve, dicendogli che con quelle bandiera vincerebbe. Tostamente Costantino fece porre sopra uno stendardo il monogramma, ossia la cifra di Gesù Cristo (così fatta xP) e con questo animosamente ingaggiò battaglia contro al tiranno. I soldati romani e gli italiani, ansiosi di essere liberati dalla tirannia di Massenzio, tosto piegarono, gli altri combatterono valorosamente, ma in fine, rotta la cavalleria, tutto il campo voltò le spalle per rifugiarsi in Roma. I più annegarono nel Tevere, dove lo stesso Massenzio precipitò col cavallo e miseramente perì. Allora Costantino fu dal Senato e dal popolo accolto con grande onore e fra mille applausi condotto trionfalmente in città.

Se mai, o giovani, vi accadesse di recarvi a Roma, a poca distanza da un maestoso monumento detto Colosseo, voi troverete un alto e magnifico arco trionfale, appellato Arco di Costantino. Quest’arco fu innalzato dal Senato e dal popolo romano in memoria della segnalata vittoria riportata da Costantino sopra Massenzio. L’iscrizione ivi apposta dice precisamente che la vittoria è dovuta alla potenza di Dio. Costantino fece innalzare una statua, ordinando fosse posta nel luogo più bello di Roma. In mano la statua teneva una grande croce con questa iscrizione: «Con questo segno di salute, stendardo della vera potenza, ho liberato la vostra città dall’oppressione dei tiranni, e ristabilito il Senato ed il popolo nell’antico loro splendore». Finalmente, abolito il supplizio della croce, volle che, invece di essere segno d’infamia, fosse sul diadema imperiale segno di onore.



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