Aleksandr I



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Aleksandr I. Solzenicyn - I metodi della repressione staliniana
La sistematica repressione staliniana colpì membri degli alti gradi dell’esercito e del partito, tecnici e scienziati, intellettuali e cittadini comuni; tutti imputati, spesso attraverso false accuse o delazioni interessate, di tramare contro il regime e di tradire l’URSS. Le dimensioni di questa operazione di terrore politico furono enormi: anche se non si dispone di cifre sicure, le stime più attendibili indicano in circa due milioni i deportati nei gulag, i campi di concentramento staliniani, dislocati prevalentemente in Siberia, alla fine del 1938. L’esperienza del gulag attraversò tutta l’attività letteraria di uno dei massimi scrittori sovietici, Aleksandr Solzenicyn; nel seguente brano egli ci ha fornito una drammatica ricostruzione dei metodi di indagine usati dalla polizia politica di Stalin.
Se agli intellettuali di Cechov, sempre ansiosi di sapere cosa sarebbe avvenuto fra venti-quarant’anni, avessero risposto che entro quarant’anni ci sarebbe stata in Russia un’istruttoria accompagnata da torture, che avrebbero stretto il cranio con un cerchio di ferro, immerso un uomo in un bagno di acidi, tormentato altri, nudi e legati, con formiche e cimici, cacciato nell’ano una bacchetta metallica arroventata su un fornello a petrolio (“marchio segreto”), schiacciato lentamente i testicoli con uno stivale, e, come forma più blanda, suppliziato per settimane con l’insonnia, la sete, percosso fino a ridurre un uomo a polpa insanguinata, non uno dei drammi cechoviani sarebbe giunto alla fine, tutti i protagonisti sarebbero finiti in manicomio. E non soltanto i personaggi cechoviani, ma nessun russo normale dell’inizio del secolo, ivi compresi i membri del Partito socialdemocratico dei lavoratori (bolscevichi), avrebbe potuto credere, avrebbe sopportato una tale calunnia contro il luminoso futuro. Quanto si addiceva ancora allo zar Aleksej Michajlovic, e pareva oramai barbarie sotto Pietro, [...] tutto questo, nel pieno fiore del grande secolo ventesimo, in una società ideata secondo un principio socialista, negli anni quando già volavano gli aerei, erano apparsi il cinema sonoro e la radio, fu perpetrato non da un unico malvagio, non in un unico luogo segreto, ma da decine di migliaia di belve umane appositamente addestrate, su milioni di vittime indifese. [...]

Oggi la leggenda scritta e verbale attribuisce esclusivamente all’anno ’37 la prassi delle colpe inventate di sana pianta e delle torture.

Non è giusto, non è esatto. Nei vari anni e decenni, l’istruttoria basata sull’art. 58 non è QUASI MAI stata fatta per appurare la verità, ma è consistita soltanto in una inevitabile sporca procedura: la persona poco prima libera, a volte fiera, sempre impreparata, doveva essere piegata, trascinata attraverso una stretta conduttura dove i ganci dell’armatura le avrebbero dilaniato i fianchi, dove le sarebbe mancato il respiro, tanto da costringerla a supplicare di uscirne all’altra estremità, e questa l’avrebbe gettata fuori come indigeno bell’e pronto dell’Arcipelago, della terra promessa. (Lo sprovveduto si ostina immancabilmente, crede che esista anche una via di ritorno dalla conduttura.)

Più passano gli anni privi di documenti scritti e più è difficile raccogliere le sparse testimonianze dei superstiti. Essi ci dicono che processi fasulli furono intentati fin dai primi anni dell’esistenza degli organi, perché fosse sentita la loro insostituibile, incessante opera salutare, altrimenti, con il calo dei nemici, gli Organi – non sia mai detto! – si sarebbero atrofizzati. [...]

Elenchi mandati dall’alto, il primo sospetto, la delazione d’un informatore o anche una lettera anonima portavano all’arresto e all’immancabile imputazione. Il tempo assegnato all’istruttoria era impiegato, non per investigare sul delitto, ma, nel novantacinque per cento dei casi, a stancare, estenuare, fiaccare l’accusato e farla finita, anche a colpi d’ascia pur di far presto. [...]

È più giusto, parlando del 1938, dire questo: se fino a quell’anno per l’applicazione delle torture era richiesta qualche formalità, un’autorizzazione per ogni istruttoria (anche se era facile ottenerla), nel 1937-38, data la situazione d’emergenza (bisognava far passare attraverso l’apparato istruttorio individuale, entro il breve tempo assegnato, i preventivati milioni di arrivi nell’Arcipelago; se n’era fatto a meno nel caso delle fiumane di massa, quella dei kulaki e quella dei nazionalisti), le violenze e le torture furono autorizzate senza porvi limiti e lasciate alla discrezione dei giudici istruttori a seconda di quanto esigeva la mole di lavoro e il termine fissato. Non vennero specificati nemmeno i tipi di torture, qualsiasi ingegnosità era ammessa.

Nel 1939 tale generale e ampia autorizzazione fu ritirata, occorse di nuovo un permesso scritto, forse non tanto facile da ottenersi (del resto le semplici minacce, il ricatto, l’inganno, il logorio mediante l’insonnia e il carcere duro non furono mai vietati). Ma già dalla fine della guerra e negli anni immediatamente successivi furono definite determinate categorie di detenuti per i quali si permetteva in anticipo una vasta gamma di torture. Erano i nazionalisti, in particolare ucraini e lituani, e soprattutto i casi in cui esisteva o era immaginata una catena clandestina e bisognava dipanarla tutta, estorcere tutti i cognomi da chi era già stato catturato. [...]

Così, sviluppandosi in una spirale, le deduzioni della scienza giuridica d’avanguardia tornarono alle vedute anteriori all’antichità classica e a quelle del Medioevo. Come i boia medioevali, i nostri giudici istruttori, procuratori e magistrati acconsentirono a vedere la prova decisiva di colpevolezza nella sua ammissione da parte dell’accusato. [...]



È entrata in gioco anche un’altra circostanza: come sempre, Stalin non pronunziava l’ultima parola, i sottoposti dovevano intuire da soli, mentre lui si lasciava un pertugio da sciacallo per poter ritirarsi e scrivere: «Troppi successi montano la testa». Dopo tutto il supplizio pianificato di milioni di persone era stato intrapreso per la prima volta nella storia dell’umanità e, per quanto forte fosse il suo potere, Stalin non poteva essere assolutamente sicuro del successo. Fatta su di un materiale enorme, l’esperienza avrebbe potuto dare esiti imprevisti. Poteva avvenire un’imprevista esplosione, un movimento tellurico o per lo meno una divulgazione su scala mondiale. Qualunque cosa accadesse, Stalin doveva rimanere in paludamenti angelicamente puri.
A. I. Solzenicyn, Arcipelago Gulag, A. Mondadori, Milano 1984.
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