Biblioteca dell’officina di studi medievali



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Manuela Girgenti
in quanto la prima è l’arte dell’anima e la seconda è ciò che la cura,
16
 ne consegue 
per Platone che solamente i filosofi potranno guidare al meglio uno Stato, in quanto 
gli unici capaci di soffocare ogni vocazione totalizzante e di educare il popolo all’ac-
quisizione della virtù e della felicità.
Non è abbastanza naturale o almeno ragionevole – sostiene Platone – che si 
conferisca il potere a colui che sa distinguere il bene e il male, la verità e 
l’errore, ciò che è reale e l’apparenza? Non è forse più ragionevole lasciare al 
filosofo la direzione dell’educazione dei giovani, la selezione e la formazione 
della classe dirigente, la scelta e l’educazione dei futuri governanti della città. 
Il sapere ha forse meno diritto d’influenzare la direzione dei pubblici affari di 
quanto ne abbia il coraggio, la ricchezza e il talento oratorio?
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Che, dunque, i filosofi debbano essere i governanti di uno Stato è l’idea di 
fondo della Repubblica di Platone, ma successivamente, di fronte agli sviluppi sto-
rici della sua epoca e ad altre esperienze personali, Platone si rese conto che le idee 
politiche da lui delineate nella Repubblica difficilmente avrebbero potuto trovare 
pratica attuazione, poiché – a suo dire – molto spesso la struttura ontologica della 
corporeità si oppone all’azione ordinatrice e razionale della divinità, consentendo, 
così, il male e il disordine.
Infatti – sostiene Platone – in principio la divinità ha realizzato il cosmo
in modo più preciso; alla fine, invece, in modo più fiacco: causa di questo è 
la sua parte corporea che vi è nella mescolanza, che è la proprietà congenita 
della natura di un tempo, poiché partecipava di un grande disordine prima di 
giungere all’ordine attuale. Tutto il bene di cui è provvisto lo possiede in virtù 
di colui che lo ha escogitato: ma da quella sua condizione di un tempo riceve 
tutte quante le difficoltà e i difetti che sono nel cielo, e le riproduce negli ani-
mali viventi.
18
Poiché, dunque, la natura umana si oppone alla sapienza ordinatrice del De-
miurgo, rendendo, così, utopistico il governo dei filosofi, Platone ripiega su un asset-
to politico-istituzionale che quanto meno sorga ad imitazione di quello ideale, ma, 
soprattutto, capace di elaborare un sistema legislativo che garantisca la giusta misura 
e che sia eticamente orientato al rispetto della volontà divina.
«Conoscere la giusta misura – scrive Platone – è proprio dei grandi legislatori»
19
 
e «quando in un uomo si vengono a trovare la massima forza, unita all’intelligenza 
16
 P
Latone
Gorgia, a cura di G. Reale, Bombiani, Milano 2001, 464b.
17
 a. K
oyRè
Introduzione a Platone, cit., p. 69.
18
 P
Latone
Politico, a cura di E. V. Maltese, Newton, Roma 2005, 273b-c.
19
 i
D
Leggi, cit., III, 691d.


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Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale
e alla saggezza, allora nascono la migliore forma di costituzione e le leggi migliori, 
altrimenti non può nascere nulla di tutto questo».
20
 Ma c’è una difficoltà, a questo 
punto, non certamente marginale. Per Platone, infatti, non tutti gli uomini possono 
dedicarsi all’attività politica, «poiché la scienza che si occupi del potere che viene 
esercitato sugli uomini è la più difficile e la più importante da procurarsi»,
21
 così 
come tra mille o duemila persone è difficile trovare un individuo che eccella nel 
giuoco degli scacchi. A questo punto, come rileva opportunamente il Ferrari, la lo-
gica conclusione è che, poiché «le costituzioni umane, sia monarchiche che demo-
cratiche, rischiano inevitabilmente di servire gli interessi di chi governa a scapito 
dell’intera comunità, solamente un governo in cui il potere provenga dalla divinità, 
e sia dunque eteronomo rispetto alla comunità umana, garantisce il raggiungimento 
della felicità e del benessere collettivo».
22
Ora, pur sorvolando sull’altalenante scelta di campo di Platone in merito alla 
sua preferenza su un governo autonomo o eteronomo o sulla difficile possibilità di 
potere imbattersi in “un uomo regale, sapiente ed assennato”, evento che conside-
ra assolutamente fondamentale per potere realizzare uno Stato quanto più possibile 
perfetto, tanto che, sostiene, «anche se una legge comprendesse perfettamente ciò 
che è migliore e nello stesso tempo più giusto per tutti, non sarebbe mai in grado di 
dare gli ordini migliori senza la forza dell’uomo regale assennato»,
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 un fatto appare 
chiaro fra le sue tormentate riflessioni: conoscendo la natura umana, con la precisa 
coscienza che gli ostacoli contro cui lotta sono insormontabili,
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 sembra quasi sep-
pellire ogni possibilità di buon governo o di un corpus giuridico che nasca sotto i 
dettami della retta ragione. E con un pessimismo, neppure eccessivamente velato, 
conclude: «in verità, le faccende umane non sono meritevoli di gran cura; tuttavia è 
necessario occuparsi con passione di esse; il che non è facile».
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Anche Aristotele, pur mostrando, rispetto a Platone, una visione ben più pra-
tica della società, non affronta in maniera chiara ed univoca il problema dell’ingiu-
stizia e dell’intimo rapporto tra potere ed autorità. Ma di questo indubbiamente non 
possiamo farcene una colpa. Nel V secolo, infatti, l’aspetto etico occupa una posizio-
ne centrale nel pensiero politico dei greci, tanto che
le leggi – rileva opportunamente Maglio – riflettono sostanzialmente precetti 
morali e non emerge ancora l’individuazione del concetto di obbligatorietà 
giuridica distinto dall’obbligatorietà che discende dall’imperativo etico. Anche 
20
 Ibid., IV, 712a.
21
 i
D
., Politico, cit., 292d.
22
 F. F
eRRaRi
 (a cura di), I miti di Platone, Milano 2006, p. 189.
23
 P
Latone
Politico, cit., 294a-b.
24
 G. C
oLLi
Platone politico, Milano 2007.
25
 P
Latone
Leggi, cit., VII, 803b.


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