D
ANIELE
M
AGGI
1502
Ṛgvedasaṃhitā
7
– e ammettendo sempre il rischio di una datazione troppo bassa
piuttosto che troppo alta – fra il 1200 e l’800.
Se l’ipotesi dell’identificazione fra il Kātyāyana dei Vārttika e il Kātyāyana del
Prātiśākhya è stata ripresa in tempi più recenti,
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resta l’assoluta vanità del tentativo
di tradurre fasi letterarie in estensioni cronologiche; già Renou, riferendosi a
Müller, osservò che il suo tentativo di cronologia, pur non essendo il più
“avventuroso”
aveva il solo torto […] di attribuire uno sviluppo progressivo a movimenti
che possono essere simultanei e, a dire il vero, di porre un problema in
termini in cui, in India, non si pone.
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Il punto è che il livello cronologico più alto raggiungibile incrociando tradizioni
storiografiche resta troppo basso rispetto all’estensione della letteratura vedica,
che sfugge in grandissima parte al di sopra di quel livello raggiungibile – per una
parte tale, che anche la fissazione di un terminus ante quem riuscirebbe di scarso
significato
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–; ma poco più di trenta anni dopo la History di Müller, Hermann
Jakobi tentò il colpo di situare l’aggancio cronologico, sia pur larghissimamente
approssimativo, all’interno della RVS stessa, servendosi di un argomento
straordinario, la precessione degli equinozi.
L’impiego di calcoli astronomici per determinare l’età del Veda aveva invero dei
precedenti: nel 1801, dunque addirittura all’alba della filologia indiana, già
Colebrooke
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aveva cercato di desumere una data da un passo estratto dalla “copia
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D’ora in poi siglata RVS.
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Thieme, 1937/1938; cfr. Renou, 1956, p. 54, n. 1 (“Thieme […] ha dimostrato l’identità fra il vārttika-
kāra e l’autore del Prātiśākhya”), che non esclude neppure l’ulteriore identità con l’autore del Sūtra;
Staal, 1982, pp. 14, 22 s.
9
Renou, 1928, p. 20. Trad. dall’orig. francese.
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La possibilità di un aggancio cronologico più alto, al livello delle Upaniṣad antiche, è stata ampiamente
argomentata da Horsch, 1966, sulla base di una sincronia fra il Buddha, Pāṇini (di non molto posteriore
al Buddha, secondo Horsch sulla scorta di Agrawala, poiché registra per la prima volta termini
caratteristici del buddhismo; cfr. tuttavia Mylius, 1970, pp. 83-84) e lo Yājñavalkya che compare come
protagonista di Bṛhadāraṇyakopaniṣad III-IV (all’incirca contemporaneo di Pāṇini secondo l’informazione
desunta, grazie a un’intuizione interpretativa già di Weber ripresa su basi più salde da Horsch, dal
vārttika 1 a Aṣṭādhyāyī IV, 3, 105): lo Yājñavalkya più importante fra i diversi maestri vedici che si celano
sotto lo stesso nome si collocherebbe così, insieme con Pāṇini, alla metà del V sec. a.C. (la cronologia
assunta per buona da Horsch per il nirvaṇa del Buddha è la cosiddetta cronologia lunga; assumendo,
viceversa, quella breve, con la sincronizzazione sostenuta da Horsch collimerebbe anche la tradizione
che fa Pāṇini e Kātyāyana a loro volta contemporanei di un re Nanda e di Candragupta e che Horsch
deve invece accogliere solo per quanto riguarda Kātyāyana, distanziandolo di “qualche generazione”
rispetto a Pāṇini, cfr. qui sopra, n. 3. Per la questione della cronologia del Buddha ci limitiamo qui a
ricordare che uno dei suoi maggiori e più recenti studiosi, Heinz Bechert, è stato, dopo Horsch,
sostenitore della cronologia breve, cfr. Bechert, 1982; idem, 1986, con argomenti che sono stati tuttavia
contestati da Mylius, 1997; cfr. inoltre, ancora più recentemente, Norman, 1999; Yamazaki, 2002). Anche
con questo, tuttavia, continuano a restare cronologicamente ‘scoperti’ i Brāhmaṇa e le Saṃhitā, per una
datazione dei quali Horsch finisce con il procedere all’indietro congetturando non dissimilmente da
Müller – e arrivando del resto anche a date analoghe.
11
Colebrooke, 1801, pp. 200-202 (nota B., a cui si rinvia da p. 169).
Astronomia indiana e datazione del Veda
1503
di Á
PASTAMBHA
dello Yajurvéda usualmente denominato Yajush bianco” –
menzionato cursoriamente dapprima da Jones – in cui sono enumerati i nomi dei
mesi per ognuna delle sei stagioni: i mesi trarrebbero i loro nomi dalle costellazioni
con cui la luna piena si trova in congiunzione e le indicazioni così ricavabili
sarebbero sostanzialmente in accordo con un dato sulla posizione dei coluri non
vedico ma ritenuto non troppo distante cronologicamente. Colebrooke, il cui
intento era in realtà quello di abbassare la datazione che faceva risalire il Veda
all’inizio del Kaliyuga, giudicò peraltro egli stesso il suo argomento “vago e
congetturale” e Müller decretò che “nel presente stato degli studi sanscriti non
dovesse essere più citato”.
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Un altro tentativo, di Bentley,
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si basava
sull’etimologia del nome di una costellazione, víśākhā-, di cui il minimo che si può
dire è che non permette nessun aggancio all’epoca di composizione dei testi, e su
leggende tarde, nientemeno che purāṇ iche, sui nomi dei pianeti;
è tuttavia
interessante il fatto che Bentley, sulla via dell’etimologia di víśākhā-, giunse a
fissare l’equinozio di primavera nelle Kṛttikā, proprio quella costellazione, cioè,
che, come non sfuggì a Müller,
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occupa nelle liste vediche, fin da
Atharvavedasaṃhitā (
Śaunaka) XIX, 7, 2 e Taittirīyasaṃhitā IV, 4, 10, 1, il primo posto.
Müller negò, invero, alla sua osservazione alcun valore probativo, ma è forse
proprio movendo da questa che, pur senza citarla, Jacobi prese lo spunto per l’idea,
come si vedrà, in cui Oldenberg acutamente riconobbe la pietra angolare di tutta la
sua costruzione.
La questione, tuttavia, che per un certo tempo tenne banco sopra tutte nel
periodo precedente agli articoli di Jacobi e alla polemica che suscitarono fu quella
relativa al dato sostiziale offerto dal Jyotiṣavedāṅga, smilzo trattatello di astronomia
appartenente alla letteratura vedica tardiva e tramandato in una recensione
rigvedica e una yajurvedica. Si dibatté a lungo se, sulla base del Jyotiṣavedāṅga, si
dovesse datare l’età del Veda al 1181 o al 1391 a.C., come sostenne Colebrooke nel
1805,
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ma in realtà si sarebbe trattato di far scivolare prima dell’una o dell’altra
data la massa della letteratura vedica, di cui il Jyotiṣavedāṅga non è che uno degli
ultimi prodotti; e se tale conseguenza non fu chiara agli occhi di tutti prima che la
History di Müller potesse offrire un comodo, se pur schematico, quadro della
relativa antichità delle opere, Müller stesso, preoccupato innanzitutto di una
cronologia prudente – come già Colebrooke –, si incaricò di bollare per vana tutta
la questione, sollevando due obiezioni principali:
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1) “questo trattato [il
Jyotiṣavedāṅga] fu scritto non per fini astronomici, ma per dichiarare i principi in
base ai quali fissare ore, giorni e stagioni degli antichi sacrifici”; dunque il dato
sostiziale da esso offerto, lungi da essere il risultato di un’osservazione
contemporanea, rappresenterà più probabilmente la conservazione di una
memoria antica, dovuta alla fissità delle tradizioni liturgiche. 2) L’accuratezza delle
12
Rig-veda-sanhita, 1862, p. XIX.
13
Bentley, 1823.
14
Rig-veda-sanhita, 1862, pp. XXXI-XXXII. L’indicazione data da Müller “Atharva-veda (I. 19, 7)”
sembra un errore materiale.
15
Colebrooke, 1805, pp. 106-110, partic. 109-110.
16
Rig-veda-sanhita, 1862, pp. XIX ss.