Biblioteca dell’officina di studi medievali



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Manuela Girgenti
intellettuale e, quindi, un efficace strumento di educazione e di edificazione.
La Legge richiede, in quanto tale, di essere compresa ed apprezzata, obbedita 
e messa in pratica. In particolare, Maimonide distingue nei precetti tre finalità: prin-
cipi di utilità e giustizia sociale per il conseguimento di una collettività civile, princi-
pi di bontà e di amore del prossimo per lo sviluppo di una personalità etica e, infine, 
principi di perfezione intellettuale per una vera conoscenza ed esperienza di Dio.
Per Maimonide, dunque, il perfezionamento materiale e il miglioramento del 
livello della socialità sono indispensabili per il raggiungimento del livello ultimo della 
perfezione spirituale, perché se non c’è una pace sociale, se non c’è una società ordi-
nata e pacifica, l’individuo non può concentrasi e acquisire la conoscenza metafisica.
La riscoperta dei testi aristotelici, grazie ai commentari dei filosofi arabi e al 
non indifferente apporto della filosofia ebraica, seppur guardati con sospetto dalla 
Chiesa per il timore che il loro contenuto potesse contaminare il pensiero cristiano, 
favorì una ripresa degli studi politici con una prospettiva più attenta al sociale rispet-
to al passato. In questa ottica, Tommaso D’Aquino, in particolare, cercò di cogliere 
il rapporto determinante fra ragione umana e principi di diritto naturale, un rapporto, 
fra l’altro, finalizzato alla ricerca di una armonia universale nella quale i due termini 
di paragone, anziché entrare in conflitto, tendessero a coincidere. Sotto questo par-
ticolare aspetto, è innegabile che il pensiero di Tommaso non abbia subito l’influsso 
di Aristotele, ma, come abbiamo già visto, anche quello di Maimonide.
D’altra parte non può essere diversamente, se consideriamo che l’aristoteli-
smo napoletano, nel cui ambito si formò Tommaso D’Aquino è maimonideo, men-
tre quello parigino, dove nella maturità si sarebbe formato l’Aquinate, è averroista. 
Basterebbe ricordare che Mosè da Salerno, il primo commentatore del capolavoro 
filosofico di Maimonide, La guida dei perplessi, fu in rapporto con Pietro d’Irlanda, 
domenicano, professore nello Studium di Napoli e maestro di Tommaso.
Come se non bastasse, l’Aquinate cita più volte Maimonide nei suoi scritti, nei 
quali si trovano ben ventiquattro rimandi. In ogni caso, all’interno della teologia cri-
stiana, è merito di Tommaso il tentativo di dare nuova dignità all’uomo cittadino, ca-
lato in un mondo che non necessariamente debba essere il regno del male; tutt’altro. 
Tommaso, infatti, è dell’idea che la ricerca della felicità naturale, anche se imperfetta 
e non una vera e propria beatitudine, possa essere un obiettivo non riprovevole.
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Ciò scaturisce dalla convinzione che la legge che regola l’universo è emana-
zione della volontà di Dio, che ordina ogni cosa in vista del meglio. Ora gli uomini, 
in quanto forniti di ragione, partecipano dell’eterna legge divina, di cui quella natu-
rale è il riflesso. La legge naturale, dunque, di per sé prescrive tutto ciò che giova a 
conservare la vita dell’uomo e proibisce tutto ciò che va contro questo fine, per cui 
56
 t
oMMaso
 D’a
quino
Summa Theologiae, a cura di R. Coggi, ed. Studio Domenicano, Bolo-
gna 1996, I-II, q.5, a.3.


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Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale
«le sue prescrizioni sono finalizzate al bene comune […] essa prescrive di fare il 
bene e di evitare il male; di non fare del male a coloro con i quali viviamo; di tendere 
a una vita in cui si realizzi la natura razionale dell’uomo».
57
Tommaso, però, non ignora che nell’uomo possano anche albergare bassi istinti 
e che le passioni, la cupidigia o anche una semplice forma di egoismo possano allon-
tanarlo dalle azioni virtuose, ostacolando, così, la sua visione teleologica, secondo la 
quale la ragione e la volontà operano costantemente per realizzare nel mondo terreno 
forme più perfezionate di convivenza e forme istituzionali, capaci di assicurare la 
giustizia, la pace sociale e di garantire, quindi, la realizzazione della felicità terrena 
dell’uomo. Gli Stati, il diritto e le leggi, in quest’ottica, servono proprio ad evitare che 
le passioni o gli istinti più bassi dell’uomo possano prendere il sopravvento.
Lo Stato, quindi, non è, come per Agostino, un male inevitabile, conseguente 
al peccato originale, ma una istituzione che rientra nei fini imperscrutabili di Dio. 
Esso ha il compito di educare gli uomini alla virtù, di favorire la loro crescita spi-
rituale e di orientare ogni loro singola azione verso il bene comune. La legge, di 
conseguenza, è finalizzata non a vantaggio di un singolo o di pochi, ma all’utilità di 
tutti i cittadini. Interviene, inoltre, per dare il giusto castigo a quanti ostacolano il 
processo teleologico della realtà nella piena convinzione di una giustizia che deve 
dare a ciascuno il suo. Ogni società – sostiene l’Aquinate – deve avere «un principio 
unificatore, perché una massa di individui in cui ognuno pensasse a procurarsi ciò 
che va bene per sé si sfalderebbe, se non ci fosse anche qualcuno che si interessasse 
del bene della moltitudine».
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 E più oltre aggiunge: «se colui che la governa la ordi-
na comunque al bene di tutti avremo un governo retto e onesto […] al contrario se 
il governo è ordinato non al bene comune della società, ma agli interessi privati di 
colui che comanda, si attuerà un regime ingiusto e perverso».
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Compito dello Stato, in sintesi, è quello, non solo di assicurare ai cittadini una 
sufficiente quantità di beni materiali, senza i quali non ci sarebbero condizioni di vita 
serena, e di adoperarsi per un continuo miglioramento degli stessi, ma anche di edu-
carli ad una vita virtuosa, finalizzata «ad un fine superiore che consiste nel godere di 
Dio».
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 Ma se un sovrano dovesse calpestare le leggi e più che al bene comune mo-
strasse di curare il proprio vantaggio, quale dovrebbe essere la reazione del popolo? 
Qui la posizione dell’Aquinate risulta particolarmente ambigua.
Da un lato sostiene che la ribellione sarebbe giusta, ma dall’altro è del parere, 
escludendo in ogni caso l’uccisione del despota, che sarebbe meglio non ribellarsi 
al fine di evitare disordini sociali che potrebbero portare mali peggiori. In una tale 
57
 s. P
etRuCCiani
Modelli di filosofia politica, Torino 2003, p. 69.
58
 t
oMMaso
 D’a
quino
De regimine principum, in Opuscoli politici, a cura di L. Perotto, Bolo-
gna 1997, libro I, cap.1, pp. 32-33.
59
 Ibid., libro I, cap. 2, p. 36.
60
 Ibid., libro I, cap.15, pp. 93-94.


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