Biblioteca dell’officina di studi medievali



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Manuela Girgenti
forza vincolante deriva dall’essere radicate in una tradizione».
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Nella realtà, il concetto di una giustizia intesa come una qualità dell’anima 
che, rispettata la comune utilità, accorda a ciascuno la sua dignità, pur affiorando 
nell’antichità,  come  abbiamo  già  visto,  in  qualche  pensatore  illuminato,  stentava 
ad affermarsi. Il problema non era semplice, poiché occorreva distinguere tra chi 
concepiva la legge non in sé, ma in riferimento ad altro, e tra coloro, invece, che 
concepivano la legge in sé, considerandola solamente uno strumento di giustizia e di 
progresso sociale. Sotto questo aspetto, ma sempre con le dovute cautele, un clima 
nuovo sembrò potersi respirare a Roma nel periodo repubblicano, quando le decisio-
ni delle assemblee della plebe vennero parificate a quelle dei più antichi ed aristo-
cratici comizi curiati e centuriati, equiparando con ciò le leges ai plebiscita. «Questo 
sistema di assemblee – rileva Maglio – rendeva di fatto possibile un vero e proprio 
controllo popolare anche allo scopo di impedire che le supreme cariche dello Stato 
romano superassero i confini della legalità, trasformandosi in organi autoritari».
39
 
Ma, quando Roma cominciò ad allargare i suoi confini e di conseguenza si impose 
la necessità di legiferare con immediatezza e senza vincoli formali, l’importanza 
delle assemblee popolari diminuì sino a ridursi a un valore di carattere simbolico. 
Spegnendosi la forza propulsiva del periodo repubblicano,
la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si tradusse anche 
nella concentrazione delle fonti di produzione del diritto […] la lex diventa 
sempre più espressione del volere dell’imperatore, figura ormai affrancata da 
limiti giuridici e soggetta a deboli influenze politiche, anche per la decadenza 
dell’autorità del Senato.
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Ora, seppure non si può negare che furono proprio le istituzioni romane a get-
tare le basi per lo sviluppo del pensiero politico e a vedere nell’ordinamento giuridi-
co e, quindi, nel diritto  la centralità dello Stato, dall’altro è pur vero che nella realtà 
siamo ancora lontani da una comunità politica dove le ingiustizie e le disuguaglianze 
sociali siano state debellate. Anzi, sia pure con una sommaria e superficiale lettura 
della storia romana, appare vero il contrario.
Fu solo con l’affermarsi del cristianesimo che la dignità di ogni singolo indi-
viduo, in quanto creato da Dio, acquistò un valore assoluto e infinito. In tal senso, 
oltre al discorso della montagna di Gesù, apparvero rivoluzionarie le parole di Paolo: 
«non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né 
donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».
41
38
 n. B
oBBio
Stato, governo, società,  Torino 1985, p. 87.
39
 G. M
aGLio
L’idea costituzionale nel Medioevo, cit., p. 14.
40
 Ibid., pp. 16-17.
41
 P
aoLo
Lettera ai Galati, a cura di D. Manetti - S. Zuffi, Mondadori, Milano 2006, 3, 28.


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Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale
Ma anche il cristianesimo, ad eccezione di alcune eccellenze o santità, nel mo-
mento in cui cominciò ad imporsi come potere politico, oltre che religioso, e quindi 
a doversi rendere disponibile ai gravi compromessi cui l’esercizio della politica co-
stringe la spiritualità, disilluse ben presto i suoi fedeli. Paolo, infatti, la più brillante 
intelligenza politica del cristianesimo delle origini, dapprima lanciò un nuovo mes-
saggio di amore e carità sociale, capace di fare breccia fra le masse di emarginati, ma 
contemporaneamente si preoccupò di non urtare le istituzioni.
Ciascuno – scrive Paolo – stia sottomesso alle autorità costituite; perché non 
c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi 
chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si 
oppongono si attireranno addosso la condanna […] perciò è necessario stare 
sottomessi.
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In sintesi, malgrado le parole di speranza in un mondo più umano, i cristiani 
dovevano continuare a rassegnarsi ad essere servi o schiavi, a vedere calpestati i loro 
diritti umani e a sopportare le ingiustizie. Anzi, che offrissero a Dio le loro soffe-
renze, le umiliazioni e i soprusi, perché Dio li ricompenserà nell’altra vita, quando 
entreranno di diritto in un regno che non è di questo mondo.
La posizione di Agostino di Tagaste non si discosta molto da quella paolina. 
Secondo quest’ultimo, infatti, la dipendenza di un uomo da un altro uomo e l’ingiu-
stizia che riscontriamo spesso in questo mondo sono una conseguenza del peccato 
originale e della natura corrotta di ogni singolo individuo. «Si deve capire – scrive 
Agostino – che a buon diritto la condizione servile è stata imposta all’uomo pecca-
tore […] Il Padrone di tutti dice: Chiunque commette peccato è schiavo del peccato; 
per questo molti fedeli sono schiavi di padroni ingiusti ma non liberi perché ciascuno 
è aggiudicato come schiavo a colui dal quale è stato vinto».
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Lo schiavo, dunque, accetti con rassegnazione il suo stato, offrendo a Dio le 
sue pene nell’ottica di una sofferenza in un corso di cammino che lo eleverà moral-
mente e spiritualmente. 
Perciò l’Apostolo consiglia anche che gli schiavi siano sottomessi ai loro pa-
droni e che prestino loro servizio in coscienza con buona volontà. Così, se non 
possono essere lasciati in libertà, essi stessi rendano libera la propria schiavitù, 
non prestando servizio con perfida paura, ma con affetto leale perché abbia 
fine l’ingiustizia e siano privati di significato la supremazia e il potere umano, 
e Dio sia tutto in tutti.
44
42
 Ibid., Lettera ai Romani, 13, 1-6.
43
 a
Gostino
La città di Dio, Città Nuova, Roma 2000, p. 1057.
44
 Ibid., p. 1058.


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