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Manuela Girgenti
Quella di Agostino appare come una politica sociale particolarmente aneste-
tizzante. Se è la giustizia divina che ha diviso il mondo terreno fra padroni, schiavi
e servi, in seguito alla caduta del peccato originale e all’uomo peccatore, anche la
povertà, così, nell’ottica della morale cattolica svolge una funzione etica, poiché, sen-
za il povero, il ricco non potrebbe guadagnarsi alcun merito. Ecco, quindi, il ruolo
privilegiato del povero all’interno della società. Quest’ultimo, simile al Cristo, pur
nelle sue quotidiane sofferenze, tiene in mano le chiavi del paradiso con le quali potrà
consentire al ricco, attraverso le elemosine, di guadagnarsi il regno celeste. Ma, nel
contempo, raccomanda ai sovrani, ai ricchi e ai potenti di non lasciarsi prendere dalla
brama del signoreggiare, «ma dal dovere di provvedere, non nell’orgoglio dell’im-
porsi, ma nella compassione del premunire».
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Quello che, dunque, deve prevalere in
ogni uomo, per Agostino, sia esso padrone o servo, è il senso della giustizia, che con-
siste nel dare a ciascuno il suo. Di un comportamento contrario, ogni uomo ne rispon-
derà a Dio, che tutto vede e a tutto provvede. «Qualsiasi male si infligge dai potenti
ingiusti non è per i giusti pena di un delitto, ma prova della virtù. Quindi, la persona
onesta, anche se è schiava, è libera; il malvagio, anche se ha il potere, è schiavo e non
di
un solo individuo, ma, che è più grave, di tanti padroni quante sono le passioni».
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Se manca la giustizia, se non viene rispettata dai governanti, che cosa sono gli
Stati – sostiene Agostino – se non delle grandi bande di ladri? Non sono forse anche
le bande dei briganti dei piccoli Stati?
È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è
vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della con-
venzione. Se la banda malvagia aumenta con l’aggiungersi di uomini perversi
tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette po-
poli, assume più apertamente il nome di Stato che gli è accordato ormai nella
realtà dei fatti, non dalla diminuzione dell’ambizione di possedere, ma da una
maggiore sicurezza nell’impunità.
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A tal proposito, ricorda la risposta data ad Alessandro il Grande da un pirata
che era stato fatto prigioniero. Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa per
infestare il mare. E il pirata con franca spavalderia: «la stessa che a te per infestare
il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo
naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta».
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Ma se gli Stati non
assicurano la giustizia, se il succedersi degli imperi nel corso della storia si macchia-
no di atroci delitti contro l’umanità, come, ad esempio, l’impero romano, le cui con-
45
Ibid.,
p. 1056.
46
Ibid., p. 171.
47
Ibid.
48
Ibid.
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Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale
quiste non furono solamente una conseguenza del valore dei suoi soldati, ma anche
una politica senza scrupoli che non arretrava nemmeno davanti allo sterminio totale
di popolazioni pacifiche, come può alla lunga l’uomo continuare a nutrire fiducia
nella provvidenza divina? La risposta per Agostino è semplice. L’operare divino
nella storia trascende i nostri disegni e la provvidenza divina prevede e oltrepassa
le intenzioni degli uomini. Nella lotta tra il bene e il male, tra la c
ivitas terrena e la
c
ivitas Dei quel che veramente conta è il cammino verso la meta ultraterrena.
Quel che noi, in sintesi, chiamiamo progresso o divenire della storia non av-
viene a caso o ad opera di alcuni uomini, ma attraverso un processo diretto da Dio. In
questo senso la grandezza degli imperi è solo un aspetto transitorio, per cui, ad esem-
pio, la vera grandezza della Roma imperiale fu quella di mantenere la pace sulla terra
come condizione per la diffusione del Vangelo. In questo senso, dunque, «il progres-
so non è altro che un interminabile pellegrinaggio verso un fine ultraterreno».
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Ma,
quel che è peggio in questa
peregrinatio, che educa attraverso il dolore e che non
ci permette di potere cogliere il senso dello sviluppo voluto da Dio, è il concetto
agostiniano – a meno che non si preferisca il caos – della necessità di dovere spesso
ingannare il popolo per il suo bene e, soprattutto, di convincerlo che sia ragionevole
ciò che precedentemente era stato introdotto senza ragione. In poche parole, con un
machiavellismo
ante litteram, che al disordine sociale sia preferibile l’ingiustizia.
Da un lato, quindi, un pensiero cristiano che fa appello ad una diversa conce-
zione della vita e della storia dell’uomo, ma dall’altro per opportunismo politico lo
stesso pensiero si pone come garante, nei confronti del potere laico, di una stabilità
politica e sociale, attraverso un accecamento delle coscienze. Ma, da un lato, va pure
rilevato che il processo di divinizzazione del potere imperiale e, dall’altro, la progres-
siva affermazione del cristianesimo con la sostanziale svalutazione delle istituzioni
terrene, concorsero a marginalizzare la trattazione dei rapporti fra lo Stato e i cittadini.
Il
cristianesimo dei primi secoli, infatti, animato dall’ansia ultraterrena e dalla
convinzione che il Regno di Dio non è di questo mondo, fu dell’idea che «la salvezza
dell’anima deve essere la vera occupazione del cristiano, perché la libertà vera non
può esistere nel tempo, ma solo nella comunione dei Santi».
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In attesa, dunque,
della venuta del Regno di Dio e per una sostanziale ripugnanza per le cose di questo
mondo, si registra nel pensiero cristiano, come naturale conseguenza, una sorta di di-
stacco e di scarso interesse per il diritto. Sotto questo aspetto, appare più interessante
e ricco di stimoli speculativi, pur nella sua apparente semplicità, il pensiero ebraico
e, in particolare, quello maimonideo che, seppure volutamente ignorato, non man-
cò di influenzare grandi pensatori cristiani come, ad esempio, Tommaso d’Aquino.
Essenzialmente ottimista, l’ebraismo non vede nel mondo il male e non crede che la
49
K. L
oWitH
,
Significato e fine della storia, Milano 1972, p. 195.
50
G. M
aGLio
,
L’idea costituzionale nel medioevo, cit., p. 20.