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Giuseppe Allegro
La considerazione di questi elementi caratterizzanti l’opera teologica abe-
lardiana, qui delineati in estrema sintesi, assieme alla semplice constatazione del
particolare interesse di Abelardo per la logica aristotelica, del quale egli stesso è
specialista ed interprete, autorizzano a pensare alla
theologia abelardiana come a
una disciplina la cui strutturazione (il suo “statuto epistemologico”, si direbbe oggi)
ricorda assai da vicino alcuni connotati tipici della scienza aristotelicamente inte-
sa; l’impostazione metodologica del nuovo “sapere sacro” può insomma in qualche
modo permettere un accostamento
ai parametri della episteme teorizzata da Aristo-
tele nei
Secondi Analitici. Si tratta, in particolare, della procedura argomentativa
con la quale viene elaborata la conoscenza scientifica e, più specificamente, dei ca-
ratteri delle premesse sulle quali, aristotelicamente, essa si edifica: anteriorità, im-
mediatezza, verità, indimostrabilità; caratteri che possono in qualche modo essere
ravvisabili anche nella concezione abelardiana della
summa fidei e nel conseguente
procedimento argomentativo che procede, a partire da essa, a discutere e a confutare
le
obiectiones. Criteri in qualche modo analoghi a quelli della scienza aristotelica,
che precedono di fatto un’impostazione che diverrà patrimonio acquisito e condivi-
so dalla comunità dei teologi e dei filosofi medievali solo più tardi, nella cosiddetta
“scolastica matura”.
Tuttavia una serie di considerazioni rendono problematico questo accostamen-
to fra la concezione abelardiana del sapere teologico e quella aristotelica di scienza.
L’acquisizione dei nuovi testi logici di Aristotele – la cosiddetta
logica nova, e in
particolare i
Secondi Analitici – i quali resero disponibili agli autori medievali gli
strumenti concettuali che permisero di collocare il sapere teologico fra le conoscenze
di carattere scientifico avvenne qualche tempo dopo; ma su questo le ricerche non
hanno ancora raggiunto risultati certi e, ancor meno, definitivi. È possibile ipotizzare
che Abelardo abbia avuto modo di venire a contatto con tali opere aristoteliche o che,
almeno, ne abbia avuto una indiretta ma essenziale conoscenza mediata da un altro
autore suo contemporaneo? I dati sui quali basarsi per avanzare delle ipotesi convin-
centi non sono né chiari né univoci. Uno dei punti ancora problematici riguarda la
datazione. Non c’è consenso unanime circa il momento esatto nel quale furono ef-
fettuate le prime traduzioni in latino dei testi logici aristotelici non ancora conosciuti
all’Occidente latino. Né è ancora possibile determinare in quale preciso momento
essi cominciarono a essere letti e utilizzati dalla comunità scientifica di allora. Di
solito si tende a ritenere che le traduzioni aristoteliche siano posteriori, anche se di
poco, rispetto alla data della morte di Abelardo. Ma la questione rimane aperta.
19
logia Summi boni, 2, 28, ed. E. M. Buytaert - C. J. Mews, in p
etri
a
BaelarDi
Opera theologica III.
Corpus Christianorum,
Continuatio Mediaevalis 13,
Turnholti 1987).
19
Sulla questione è utile consultare C. J. M
ews
,
On Dating the Works of Peter Abelard, in «Ar-
chives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge» 52 (1985), pp. 73-134; S. e
BBesen
,
Echoes of
the Posterior Analytics in the Twelfth Century, in M. l
utz
-B
acHMann
- A. F
iDora
- P. a
ntolic
(eds.),
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Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio
Teologia e mistica. incomprensibilità e ineffabilità di Dio
Lo stesso Abelardo, che elabora questo progetto di un nuovo sapere teologico,
ci presenta pagine dal significato inequivocabile circa la limitatezza della razionalità
umana nei riguardi del mistero divino. L’eccedenza del mistero trinitario rispetto ai
limiti della ragione umana è affermata da lui chiaramente e senza incertezze:
20
non
vi è alcuna possibilità per la umana ragione, con le sole proprie forze, di rendere in
qualche modo comprensibile quegli enunciati. Essi sono appunto delle espressioni
di fede, e come tale sono fuori dalla possibilità della dimostrazione per via razio-
nale. Abelardo non esita a ricorrere al celebre detto di Gregorio Magno secondo il
quale
nec fides habet meritum, cui humana ratio praebet experimentum.
21
Nessuno,
in questa vita, può accostarsi a una così elevata conoscenza (
ad celsitudinem illam
intelligentiae acceditur, non quidem pervenitur, quamdiu scilicet in hac mortali car-
ne vivitur).
22
La visione di Dio è riservata solo alla futura beatitudine (
ipsa quippe
visio divinitatis ipsa est futura beatitudo, de qua dicit apostolus: Nunc videmus per
speculum in enigmitate, tunc autem facie ad faciem). Se Dio stesso non si manifesta,
la nostra natura è incapace di vederlo (
nisi enim seipse deus manifestet, nec tunc na-
tura nostra eum videre sufficiet). Perciò i mortali, che non sono in grado neanche di
analizzare se stessi, né la natura di qualsiasi cosa, non debbono tentare di compren-
dere ciò che è incomprensibile attraverso i loro “piccoli ragionamenti”:
nedum nunc
mortales[…] ratiunculis suis comprehendere incomprehensibilem nitantur, qui nec
seipsos nec quantulecumque naturam creature discutere ratione sufficiunt).
Oltretutto, la comprensibilità di Dio mediante le umane
ratiunculae ed espri-
mibile con la lingua dei mortali sarebbe cosa assai sconveniente per la fede:
Quae
etiam maior indignatio fidelibus habenda esset quam eum se habere deum profiteri
quem ratiuncula humana possit comprehendere aut mortalium lingua disserere?).
Rafforza queste convinzioni la raccolta delle testimonianze, come quella del
Timeo,
molto nota ai latini: «È così difficile scoprire l’artefice e il padre dell’universo, quan-
to è impossibile parlarne degnamente, una volta che lo si sia scoperto», e quella tratta
dal commento di Macrobio al
Sogno di Scipione di Cicerone: «egli non osò dire
Erkenntnis und Wissenschaft.
Probleme der Epistemologie in der Philosophie des Mittelalters, Berlin
2004, pp. 69-92.
20
Tuttavia, questo non contraddice l’asserto abelardiano secondo il quale la rivelazione trinita-
ria raggiunge non solo gli ebrei, mediante l’intervento dei profeti, ma anche i gentili, che sono pervenuti
alla conoscenza della Trinità proprio grazie alla ragione (
diuina inspiratio et per prophetas iudeis et
per philosophos gentibus dignata est reuelare: (P
etRi
a
BaeLaRDi
Theologia Summi boni, 1, 5, ed. cit.).
Sapere che Dio è Trinità, e non solo uno, non significa ancora, ovviamente, comprenderne pienamente
l’essenza.
21
G
reGorio
M
aGno
, Homiliarum in Evangelia libri duo.
Hom. 26, 1 (PL 76, 1197C).
22
Per questo e
i passi successivi si veda p
etri
a
BaelarDi
Theologia Summi boni, cit., 2, 11-24.