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E
SAMI DI
S
TATO
2016
conda della sensibilità degli autori. Ne scrive D’Annun-
zio nelle Faville del maglio, con il suo taglio di rottura con
la tradizione religiosa, riscrivendo la parabola senza un ri-
torno al padre, ne scrive Rilke nei Quaderni di Malte Lau-
rids Brigge (pubblicati nel 1910) auspicando una ideolo-
gia della dispersione mentale quanto fisica, appresso alla
parcellizzazione del reale che caratterizzerà la nostra
epoca.
Anche lo scrittore francese André Gide torna significati-
vamente alla immagine evangelica nel breve testo apparso
per la prima volta in rivista nel 1908: cinque scene e al-
trettanti dialoghi tra il prodigo e gli altri personaggi del
racconto, a cui l’autore de L’immoraliste aggiunge una
madre e un fratello minore. La voce dell’autore si inseri-
sce direttamente una sola volta nei dialoghi, a proposito
del momento culminante, quello dell’abbraccio descritto
nel quadro di De Chirico.
Una evocazione che nasconde un sentimento di parteci-
pazione, di immedesimazione: «Dio mio, come un ra-
gazzo m’inginocchio oggi davanti a voi col viso intriso di
lacrime. Immagino l’abbraccio del Padre; al calore di un
tale amore il mio cuore si fonde».
Le scene che compongono la breve opera si dirigono
però su un altro piano. Il prodigo resta al fine nella casa
del padre, dopo il ritorno, per debolezza e rassegnazione.
Quell’abbraccio non genera una vita nuova nel tempo
quotidiano dell’esistenza. Consegna al fratello minore il
messaggio che ha imparato nei giorni della lontananza:
fuggire sempre e comunque, essere diverso a ogni costo,
abbattere tutte le convenzioni.
Ne I ritorni Salvatore Quasimodo immagina, nella splen-
dida notte romana, sulle panchine di piazza Navona, di ri-
leggere alla madre lontana il racconto del Figliol prodigo
Sotto il capo incrociavo le mie mani
e ricordavo i ritorni:
odore di frutta che secca sui graticci,
di violaciocca, di zenzero, di spigo;
quando pensavo di leggerti, ma piano,
(io e te, mamma, in un angolo in penombra)
la parabola del prodigo,
che mi seguiva sempre nei silenzi
come un ritmo che s’apra ad ogni passo
senza volerlo.
In un’altra lirica, scrive «In povertà di carne, come sono,
eccomi Signore», verso che, diversamente dalla atmosfera
metafisica, in fine dei conti distaccata, come di fronte a
una vetrata che impedisca un sentimento forte, di De
Chirico, rimanda al seicentesco capolavoro di Rembrant,
con il padre quasi cieco ma le cui mani esprimono, con
l’espressione del volto, la tenerezza del perdono, l’ab-
braccio della gioia di fronte a quell’eccomi di umiltà.
Lì dovevamo essere, commenta alcuni passi del Vangelo
Guido Morselli, quando Cristo raccontava e abbracciava
i peccatori, con le sue mani sporche di polvere, la stan-
chezza nel viso.
Del resto il Novecento, non solo italiano, si apre con la
metafora della orfanità, in quella suggestiva e drammatica
convergenza di motivi stilistici, poetici e biografici che si
intravedono nell’opera di Giovanni Pascoli.
Nostalgia da una parte, dunque, con la relativa difficoltà,
a partire da questa morte personale e filosofica, conflitto
dall’altra, quello sottolineato in modo esemplare dalla let-
tera di Kafka e in tutta l’opera di uno dei più grandi pro-
satori della modernità letteraria: Federico Tozzi. Nelle sue
novelle e nei suoi romanzi, in cui assistiamo letteral-
mente a una castrazione, l’ombra pesante e oppressiva del
padre ha la consistenza dei nuovi valori della società
della produzione e del consumo: i soldi e il sesso (dunque
il potere, i nuovi dei come li definirà Eliot). La sensibi-
lità artistica e spirituale dei figli, le loro legittime aspira-
zioni vengono brutalmente emarginate o tollerate come
stravaganti o frutto di inettitudine.
Giovanni Testori ha suggestivamente considerato l’opera
maggiore del teatro contemporaneo I sei personaggi in
cerca d’autore di Pirandello
come una espressione su-
prema di nostalgia dell’alterità, unendo in un unico bina-
rio i due solchi di nostalgia e ribellione citati in prece-
denza.
Accostando la figura del Figlio ad Amleto (due archetipi
della modernità nel segno del padre) il dramma pirandel-
liano viene recepito nella centralità del rifiuto di superare
l’abbandono nel quale l’autore ha lasciato i personaggi in
quella che con Moravia potremmo definire la realtà che
non convince di esistere. Non si tratta propriamente di un
autore drammatico quello cercato dai sei: proprio la tra-
gedia finale, atroce, non può essere giustificata con il pe-
rimetro unico del metateatro, che semmai è la tecnica per
la quale si arriva a quel punto culminante. Vi è una spro-
porzione abissale, da spiegare, nell’ottica testoriana, solo
con l’evidenza che «dentro l’autore, si nasconde, lui,
Dio». Così il colloquio straziato della Figliastra con la so-
rellina, la morte di quest’ultima e il suicidio del Giovinetto
rendono testimonianza a una ricerca più alta, dalla notte
all’alba, dove, riconosciuto l’Autore, Verità e Realtà pos-
sano coincidere, nel grido del Padre. Non a caso l’itine-
rario dello scrittore si conclude sotto il segno della Carità,
del perdono, con la traduzione della paolina Lettere ai Co-
rinti.
Fabio Pierangeli
Università Roma Tor Vergata
Nuova Secondaria - n. 4 2016 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582
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