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sterebbe irraggiungibile all’attività del soggetto. E il soggetto po-
trebbe sprofondarvisi negando se stesso e immedesimandosi im-
mediatamente col suo oggetto: e in ambedue i casi rinunziando
al conoscere. Il quale è possibile per ciò che l’oggetto non solo
si oppone al soggetto; e gli si oppone assolutamente, in guisa da
farlo uscire dalla sua immediata soggettività; ma, oltre ad op-
porsi, si riconcilia col soggetto e concorre al suo divenire, onde
il soggetto cessa di essere soggetto immediato e particolare, si
media e universalizza, realizzandosi effettivamente come spirito
(che non è immediatezza, bensì riflessione)».
Ora, l’intuizione geniale di Gentile sta tutta nella lucida
messa a tema della trascendentalità e quindi dell’intra-
scendibilità (o inoltrepassabilità) dell’orizzonte del pen-
sare. Teorema incontrovertibile, certo, ma solo se retta-
mente inteso, cioè solo se inteso come posizione
dell’orizzonte trascendentale della manifestazione di tutto
ciò che è. Impossibile, infatti, porre qualcosa al di là del
pensare, perché, ponendolo, lo si pensa.
Meno interessante, anche se più impressionante, la forte
valorizzazione gentiliana di quel che dalla trascendenta-
lità del pensare è strutturalmente implicato: ossia il “dia-
lettismo” o la “mobilità”. Si tratta in fondo di un’eredità
hegeliana. Ma poi è da dire che è propriamente la salda-
tura delle due figure (trascendentalità e dialetticità), il vero
colpo di genio gentiliano. Anche perché la “mobilità”
del pensare consta e rafforza perciò, di rimando, la tra-
scendentalità, che invece andrebbe argomentata (elen-
ctice), pur essendo un che di immediato. Certo, la mobi-
lità, se rafforza la prima intuizione, è poi nell’attualismo
la parte meno difendibile, se intesa, come Gentile pur-
troppo la intende, in termini di “produzione” dell’og-
getto reale o di una sua “creazione”. La quale, invece, non
consta affatto. Semmai, consta la nostra “impotenza” di
pensanti rispetto all’oggetto reale pensato: entra ed esce,
l’oggetto reale, dallo specchio della manifestazione senza
chiedere permesso alcuno.
Per chiudere questo giro di discorso (anticipato nella mia
scheda introduttiva all’insieme di questi interventi): la co-
niugazione della teorematicità del primo assunto (l’intra-
scendibilità del pensare) con la nota esperienziale del se-
condo (la mobilità o il dialettismo) – il colpo di genio del
Gentile – fu forse, per contrappasso, anche responsabile
del terzo assunto appena richiamato, ossia dell’assunto
della “produttività” o “creatività” trascendentale dell’atto
(né teorematica né esperienziale). Questo però non si in-
tenderebbe senza il richiamo alla storia della modernità fi-
losofica: alle spalle di Gentile c’era quel tratto di filoso-
fia tedesca (da Kant a Hegel) che aveva iniettato
gradualmente nell’io (trascendentale) gli attributi una
volta predicati dello strato teologico dell’Intero dell’es-
sere.
Critica della dialettica gentiliana
Formulazione speculativamente geniale, ma errata, quella
di Gentile. Perché errata? Ecco, a me pare che il nucleo
fondamentale dell’errore gentiliano nel concepire il dia-
lettismo dell’atto come mobilità (divenire) creativo della
realtà, altro non sia che l’effetto della trascendentalizza-
zione (indebita) del toglimento di una certa alterità del-
l’essere al pensare: quell’alterità che, durante tutto il No-
vecento, era, da tanti pensatori – passati per le pagine
hegeliane di critica al kantismo –, bollata con l’etichetta
di “presupposto naturalistico” o di “naturalismo presup-
posto” (= la realtà originariamente intesa come “altra” o
“esterna” al pensiero; intesa come “cosa in sé”). Quel to-
glimento, che era, come ogni toglimento di un errore, un
che di empirico (l’errore, una volta riconosciuto come
tale, si mette da parte, e basta), era invece divenuto un
compito ossessivamente e continuamente perseguito.
Gentile in Italia era l’erede, come ho appena ricordato, di
quella tradizione. Che altrove aveva preso invece altre vie,
pur con risultati simili. Alludo qui soprattutto alla feno-
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Nuova Secondaria - n. 4 2016 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582
Anonimo, Kant portrait, 1790.
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menologia husserliana, che poi tanto successo ebbe in am-
bito europeo, durante la seconda metà del Novecento.
Ora, la corretta conseguenza del toglimento del presup-
posto naturalistico è, come tutti sanno oramai da gran
tempo, la semplice restituzione dell’essere alla relazione
sua originaria con il pensiero. Dove, però, l’essere resta
tale rispetto al pensiero, cioè resta il suo altro “mate-
riale” o “reale” o il suo “contenuto intenzionale”. L’iden-
tità di essere e pensiero è, infatti, un’identità solo formale
(il pensiero si identifica con la forma dell’oggetto, ossia
prende la forma dell’oggetto come forma propria), men-
tre resta la diversità ontologica o reale sua rispetto al-
l’oggetto. Sempre all’interno del rapporto intenzionale. La
fenomenologia meglio comprese questa conseguenza (so-
prattutto lo Husserl delle Ricerche logiche), mentre l’at-
tualismo gentiliano finì per persuadersi della necessità che
l’esito del toglimento del presupposto naturalistico do-
vesse essere determinato come la posizione dell’identità
assoluta (ontologica) di essere e pensiero, di soggetto e
oggetto; la quale, non potendo restare da sola nello spec-
chio dell’esperienza, perché veniva a precipitare in una si-
tuazione “astratta”, era necessariamente destinata a ri-
produrre permanentemente la posizione dell’alterità
dell’oggetto (del pensiero medesimo) come toglimento,
appunto, della nuova astrazione. Da identificare poi di bel
nuovo con il soggetto. E così all’infinito.
Ora, se è vero che l’essere, una volta posto come di là dal
pensiero, vien trattato inevitabilmente come il suo asso-
luto opposto (è il non-pensato, infatti), non è vero però che
il suo concreto relarsi al pensiero, cioè alla presenza o alla
manifestazione che il pensiero è in sé e per sé, implichi
inevitabilmente il suo diventare identico al pensiero. Sic-
ché nell’atto sintetico della relazione dei due non altro vi
sia che il pensare in atto. Consta, infatti, che ciò che è pre-
sente al pensiero non è pensiero, ma altro dal pensiero e
nel contempo interno al suo orizzonte (albero, gatto,
uomo, stella, …). Il pensiero, cioè, non è una sorta di
Mida, che tramuta in oro(-pensiero) tutto ciò in cui si im-
batte. Anzi, esso propriamente non induce nulla nelle o
sulle cose in cui si imbatte o che vengono a esso o che da
esso si congedano. Ed è proprio per questo che può di-
ventare «in qualche modo tutte le cose» (Aristotele, De
Anima, l. III). Il pensiero è il non di ogni determinatezza,
e prende forma, si diceva, dalla determinatezza che volta
a volta manifesta. Nella tradizione gnoseologica clas-
sica, alla sequela dei Greci, si usa dire che, nell’atto del
conoscere (manifestare) qualcosa, conoscente e cono-
sciuto sono “formalmente” uno; ma due “materialmente”.
Questa relazione intenzionale (il conoscere) come unità
formale e differenza materiale purtroppo restò sempre al
Gentile (e forse a tutto o a gran parte dell’idealismo) un
che di… sconosciuto. Gentile ebbe sempre in mente l’op-
posizione (“astratta”) di soggetto e oggetto, da togliere in
una unità (“concreta”) come identità assoluta dei due.
Che, però, in quanto tale, è inevitabilmente, a sua volta,
un che di astratto, come si è ricordato, e deve tornare a op-
porsi a un oggetto, che essa stessa peraltro pone come a
sé opposto. Essa stessa lo pone, perché quell’unità è in
ogni senso intrascendibile. Impensabile perciò qualcosa
che sia in essa che non sia nel contempo intesa come da
essa prodotta. L’errore gentiliano, appunto.
Da correggere accedendo a una corretta “logica della
presenza”. Come usava dire G. Bontadini, Gentile va
«mandato in sé» per diventare un buon compagno di
strada. Cioè: va depurato dalle scorie immanentistiche e
produzionistiche (le seconde conseguenza delle prime) e
restituito alla sua vera “intenzione” speculativa, che è la
posizione dell’originario manifestare trascendentale come
punto di partenza della possibilità della costruzione di un
rigoroso (e inevitabile) trascendimento dell’esperienza
storica immediata.
Carmelo Vigna
Università Ca’ Foscari, Venezia
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Jacob Schlesinger, Bildnis des Philosophen Georg Wilhelm
Friedrich Hegel, 1831, Alte Nationalgalerie, Berlino.
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