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Nuova Secondaria - n. 4 2016 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582

C

on Gentile, senza dubbio, il pensiero torna a far ri-



suonare in Italia la voce primigenia del progetto

filosofico occidentale. Certo, gli esiti dell’attuali-

smo dovevano indurre la filosofia a mettere radicalmente

in questione, se non a ribaltare, le prospettive additate dal

coro dei pensatori che per oltre due millenni, suscitando

una sfida senza precedenti, si erano dati battaglia intorno

all’essere. Ma Gentile non avrebbe mai misconosciuto la

serietà del compito speculativo richiamato dai Greci e

l’inevitabilità della sua assunzione, dal momento che fare

filosofia gli sarebbe sempre apparso come lo stesso farsi

uomini, ossia esserlo.

Per il pensatore siciliano, infatti, cercare l’essere e la ve-

rità che costringeva l’assenso dell’uomo sarebbe equi-

valso a cercare se stessi, sprigionando il divenire di una

realtà sottratta all’inerzia delle cose e consegnata alla

dialettica del soggetto, viva della concretezza mortifi-

cata dalle astrazioni realistiche e dagli schemi intellettuali.

Gentile si avviava perciò a percorrere in modo originale

il sentiero che in Europa, muovendo da Cartesio e Kant,

sarebbe stato imboccato dalla fenomenologia di Husserl

e, non senza notevoli variazioni sul tema, dalla ontologia

di Heidegger, fin nelle sue versioni esistenzialistiche, ma

anche a far risuonare, a suo modo, le note persistenti del

dominio mistico di Wittgenstein. Che il mondo è. La ri-

conduzione gentiliana dell’essere all’esperienza attuale

esortava così l’uomo a onorare il fieri della verità, “con-

templazione insieme e creazione”, suscitando lo scarto

che egli, essendo, sarebbe stato eternamente chiamato a

colmare, dovendo essere.

L’attualismo, una filosofia della prassi

L’attualismo assumeva quindi le sembianze di una filo-

sofia della prassi che, anche enfatizzando la tesi marxiana,

alle prese con Feuerbach, doveva tradursi in una cele-

brazione dell’incessante trasformazione del mondo affi-

data tuttavia alla sovrana unicità dello spirito come atto

puro. E occorre allora non trascurare il fatto che Antonio

Gramsci, dando suo malgrado una particolare coloritura

attualistica al proprio approccio, non esitasse a conside-

rare la “filosofia dello spirito” crociano-gentiliana (ma è

a Benedetto Croce, l’altro grande protagonista della filo-

sofia italiana del Novecento, che egli guarda con parti-

colare attenzione) come una fondamentale “ritraduzione

in linguaggio speculativo dello storicismo realistico” sca-

turito dal ribaltamento marxiano di Hegel. Il progetto

gramsciano di un non rinviabile “Anti-Croce” – da asso-

ciare tuttavia a un “Anti-Gentile” capace di dare il giusto

risalto ai tratti di quella che Augusto Del Noce ricorda

come «la prima filosofia dopo Marx che sia sorta nel

mondo facendo inizialmente i conti col marxismo» –

avrebbe infatti consentito a una parte consistente del

nuovo marxismo italiano di affrontare le questioni capi-

tali del realismo e dell’immanentismo storicistico con

una consapevolezza ignota altrove. Si sarebbe trattato

cioè di rendersi conto di come l’autentica “filosofia della

prassi” trovasse nel “divenire in atto” di Gentile un alleato

formidabile al quale, con il rinvio alla crociana distinzione

di teoria e prassi e all’ambiguo realismo che a suo parere

ne conseguiva, poteva essere ricondotta anche l’ammis-

sione di Gramsci relativa a una possibile storicizzazione

del marxismo. Per questo verso, in Italia, contrastare

Croce, andando incontro a Marx, avrebbe significato av-

vicinare (o anche incrociare) Gentile, in vista di una più

attendibile emancipazione dall’hegelismo, libera dal-

l’ipoteca del positivismo e dello scientismo oltrepassati

dal neoidealismo italiano. 

Ora, moralità del conoscere, prassismo e storicità del-

l’essere, coniugando temi e questioni che consentono di

collocare l’attualismo nella compagine della grande filo-

sofia europea del XX secolo, evidenziavano i tratti pecu-

liari di una prospettiva che il pensiero italiano del Nove-

cento avrebbe provveduto a perfezionare, esaltando la

specificità di un approccio che si sarebbe potuto ricono-

scere in alcuni profili speculativi accomunati dal tentativo,

non improvvisato o rituale, di “oltrepassare Gentile”:

problematicismo, filosofia neoclassica (ma anche spiri-

tualismo cristiano) e, dirò così, nuovo parmenidismo. Si

tratta, naturalmente, di indicare una traiettoria, chiamando

a raccolta qualche nome tra quelli destinati a giocare un

ruolo significativo sulla scacchiera della filosofia italiana

del Novecento, non esente, anche sul versante marxista,

Gentile e la filosofia italiana 

del Novecento

Davide Spanio

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da uno sconcertante (ma per altri versi comprensibile)

oblio, quasi una rimozione, del tema crociano e gentiliano.

Problematicismo e filosofia della presenza 

Che nell’attualismo fossero la filosofia e il suo destino a

parlare, era ciò che fin da subito doveva apparire chiaro

a Ugo Spirito e a Guido Calogero, allievi della scuola ro-

mana di Gentile. Spirito, affacciando le sembianze del

“problematicismo”, avrebbe contestato al maestro il ri-

pristino di un momento teorico chiamato a garantire

l’identità attuale di teoria e prassi. Se tutto diveniva e non

c’era realtà che non si traducesse in una ricerca scienti-

fica priva di presupposti, come poteva giustificarsi il

rinvio a un divenire dell’atto intellettualisticamente con-

dannato a ribadire se stesso, eterno e immutabile? La teo-

ria del divenire (la “teoria generale dello spirito come atto

puro”), sottratta alla prassi, tornava cioè a postulare l’esi-

stenza dell’oggetto assoluto sul quale la filosofia era

stata chiamata semplicemente a mettere gli occhi. In

questo senso, Spirito sosteneva che la riforma gentiliana

della dialettica di Hegel non fosse bastata a svincolare

l’essere da ogni struttura “sopranuotante”, in direzione

della dialettica autentica. Ma se Gentile aveva mancato

il bersaglio, era certamente con il suo arco e le sue frecce

che occorreva fare i conti, non essendo possibile di-

sporre di un’arma migliore. La ricerca gentiliana della so-

luzione, divenuta soluzione, se dava luogo a una “con-

traddizione”, era cioè una contraddizione inevitabile, un

ponte di passo in direzione dell’“assoluto adialettico” di

cui la dialettica avrebbe tuttavia dovuto rappresentare il

vestibolo. 

Se il “problematicismo” di Ugo Spirito, lacerato dall’an-

tinomica consistenza del “non so”, lamentava l’assenza di

una soluzione irriducibile ai sistemi pregressi della filo-

sofia, la “filosofia della presenza” di Guido Calogero in-

vitava ad apprezzare nell’attualismo l’estenuazione del

tema dialettico sortita dalla “conclusione della filosofia

del conoscere” finalmente destituita di fondamento. Ai

suoi occhi, la riproposizione gentiliana della triade arte,

religione e filosofia, ma anche la costruzione di una “lo-

gica dell’astratto” governata dai tradizionali principi del

sapere, irrigidivano in un coerente quadro gnoseologico

l’orizzonte attuale che, come “coscienza e volontà”, do-

veva ormai rinviare alla consistenza inoggettivabile del di-

venire e della temporalità. Per questo verso, il gentiliano

“sistema di logica come teoria del conoscere” e la “vita

come ricerca” di Ugo Spirito, con l’enfatizzazione del

dramma problematicista, dovevano apparire a Calogero

come un passo indietro inaccettabile, preda di una no-

stalgica ambizione pseudofilosofica.

Ora, è evidente come fosse la dialettica dell’attualismo a

suscitare le maggiori riserve degli interpreti e non ciò che

l’attualismo, sgombrando il campo per l’essere, aveva

contribuito a ripristinare. Lungo questa via, sulla scorta

del programma della neoscolastica milanese, era allora

Gustavo Bontadini a far tesoro della lezione gentiliana,

ma per ridare slancio e solidità agli argomenti della teo-

logia razionale di stampo aristotelico-tomista. La pecu-

liarità dell’approccio bontadiniano sarebbe tuttavia con-

sistita nell’assestamento speculativo del concetto

attualistico di “esperienza pura”, in ragione della figura

aristotelica dell’intenzionalità, cavallo di battaglia della

fenomenologia husserliana. Senza velare affatto l’essere,

il pensiero al contrario lo svelava, come ritraendosi per

consentire la sua irruzione, a lungo impedita dal frain-

tendimento gnoseologico moderno. Ne usciva così l’im-

magine di un Gentile collocato interamente all’interno

della vicenda filosofica post-cartesiana, a rappresentarne

il culmine e l’emancipazione, con un piede tuttavia al di

qua della soglia, nella misura in cui la demolizione del-

l’oggetto presupposto dell’esperienza avrebbe dovuto in-

durlo a rinunciare alla produttività del soggetto che di

quell’oggetto, in effetti, costituiva la controparte. Bonta-

dini provvedeva così a inverare l’“idealismo gnoseolo-

gico” dell’attualismo nel “problematicismo situazionale”

(o aperto alla soluzione) che egli vedeva all’opera, non

senza imbarazzi e ripensamenti, negli scritti di Ugo Spi-

rito. Stando al filosofo cattolico, la dottrina gentiliana,

scongiurata l’ipoteca moderna e ricollocato l’essere nel

cuore della coscienza come esperienza, taceva proble-

maticamente sulle sue sorti, ripristinando tuttavia le con-

dizioni per tornare a individuarle, sulla scia dei grandi

pensatori della tradizione classica, da Talete in poi. La

chiave di volta dell’operazione bontadiniana, prodiga

della “inferenza metempirica”, argomento e sostegno per

la dimostrazione dell’esistenza del Creatore trascendente,

doveva però consistere in un motivo teorico essenziale, di-

rimente per gli esiti della scommessa “neoclassica”. Si

trattava cioè di comprendere come, dopo Gentile, fosse

l’essere di Parmenide, eterno e immutabile, prima che ari-

stotelicamente identico e non contraddittorio, a salire sul

palcoscenico della coscienza attuale. L’esito metafisico

proveniva allora dalla impossibilità che l’essere, appa-

rendo e scomparendo, preda del divenire, fosse origina-

riamente limitato dal non essere, dato che il non essere

non era, e dalla necessità che, consegnato dall’esperienza

al proprio limite, l’essere invocasse il dominio limitante

di uno strato ontologico sottratto alla limitazione, in virtù

della creazione. La disequazione dell’essere, indiveniente

e diveniente, stringeva allora creatore e creatura in una

sintesi a priori per molti versi inedita, alla quale Bontadini

assegnava il ruolo della soluzione invano cercata dal pro-

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