Dicembre 2016 e ditoriale



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E

SAMI DI

S

TATO

2016

ria denominazione. Che cosa scriverà chi si soffermi sul con-

cetto di «potere immateriale» attribuito alla tradizione let-

teraria? Concorderà perfettamente con Eco, che assimila

quel potere, pur distinguendo, ai valori spirituali e anche alle

radici quadrate? E come risponderà alla domanda cruciale

«a che cosa serve questo bene immateriale che è la lettera-

tura»? Eco non si limita a porre la domanda, ma la sua ri-

sposta, che comprende sia il concetto generale di “bene im-

materiale” sia l’uso che se ne può fare, è tagliata dagli

ispettori ministeriali e rimandata in toto al maturando. Sarà

per questo, o forse anche per questo, che la prova di tipo-

logia A non è stata, a quanto mi risulta, se mi risulta bene,

svolta da molti candidati. «A che cosa serve» leggiamo

«questo bene immateriale che è la letteratura? […]». Alla

letteratura, si potrebbe rispondere, si è chiesto di tutto, che

cosa fosse e a che cosa servisse. Ecco una considerazione

in proposito di Cesare Garboli nell’Avvertenza al volume di

saggi La stanza separata (Scheiwiller, Milano 2008, p. 31):

Da Sainte-Beuve in poi, dall’idea di letteratura come analisi e

critica della vita, chi potrebbe memorizzare tutte le definizioni

che ci sono state offerte di quest’oggetto volatile? Ma si farebbe

più presto a contare i numeri, o a cercare di baciare le proprie

labbra, che a chiedersi “che cos’è la letteratura”. Ieri era impe-

gno, domani è già contemplazione del niente. Oggi è sinonimo

di “menzogna”, ieri l’altro lo era di “vita”. Ma comunque lo si

rigiri, in termini moderni la letteratura è sempre concepita

“come”, cioè come qualcosa, come negazione di se stessa. Io ar-

rivo solo a una tautologia. La letteratura è la letteratura ...

Peccato sia stata tagliata, nel testo proposto ai maturandi,

la risposta di Eco in Su alcune funzioni della letteratura:

la letteratura è «un bene che si consuma gratia sui e dun-

que non deve servire a nulla». Ma c’è un modo di servire,

per dir così, involontario e quindi non strumentalizzabile,

non orientabile verso uno scopo precostituito. Ecco un

passo del saggio riportato nell’abregé:

La letteratura tiene anzitutto in esercizio la lingua come patri-

monio collettivo. La lingua, per definizione, va dove essa vuole,

nessun decreto dall’alto, né da parte della politica, né da parte

dell’accademia, può fermare il suo cammino e farla deviare

verso situazioni che si pretendano ottimali. […] La lingua va

dove vuole ma è sensibile ai suggerimenti della letteratura.

Senza Dante non ci sarebbe stato un italiano unificato.

Grazie a questo passo, inserito nel contesto, i maturandi

possono cavarsela meglio di fronte a questa richiesta

montata su un’affermazione di Eco «“La letteratura, con-

tribuendo a formare la lingua, crea identità e comunità”;

spiega e commenta il significato di tale affermazione». È

evidente che l’esercizio della letteratura implica la ne-

cessità di una lingua comune. Chi parla (esiste anche una

letteratura orale) o scrive ha bisogno di un referente che

intenda quel che gli viene detto o scritto. Di conseguenza

l’esercizio della letteratura produce, coltiva e affina una

comunità linguistica. Possiamo aggiungere, come svi-

luppo dell’affermazione di Eco, che questo avviene anche

quando la lingua in cui si scrive non sia quella in cui si

parla. Ciò vale, a parte gli inizi (ma che inizi: la Vita Nova

e la Divina Commedia!) sostanzialmente per tutta la let-

teratura italiana, compresi Manzoni e Svevo, entrambi ci-

tati nel settore 2.2 della Analisi del testo richiesta ai ma-

turandi: Manzoni sapeva meglio il francese e il dialetto

milanese dell’italiano, in seguito identificato nella parlata

della borghesia fiorentina, mentre Svevo conosceva bene

il tedesco e il dialetto triestino, ma si mostra ancora in-

certo nell’italiano dei romanzi e delle opere teatrali.

L’interpretazione complessiva 

Lo svolgimento della prima prova si conclude con una ri-

chiesta finale: «Sulla base dell’analisi condotta, proponi

un’interpretazione complessiva del brano e approfondi-

scila con opportuni collegamenti ad altri testi e autori del

Novecento a te noti. Puoi anche fare riferimento alla tua

personale esperienza e percezione della funzione della let-

teratura nella realtà contemporanea». Povero maturando!

Ricordiamo che la prova dura in tutto sei ore: dopo tutto

quello che gli è stato prescritto di trattare, occorre non solo

un’«interpretazione complessiva» del brano, di fatto già

compiuta, anche se a puntate, rispondendo ai vari quesiti

e richieste proposti, ma addirittura l’«interpretazione

complessiva» va rideclinata su «testi e autori del Nove-

cento» noti a chi sta giungendo stanco a quella che

avrebbe dovuta essere una conclusione, non una ripropo-

sizione con ulteriore sviluppo in area novecentesca dei

temi già svolti. E se avanzasse un po’di tempo, magari una

decina di minuti, si può «anche fare riferimento alla tua

personale esperienza e percezione della funzione della let-

teratura nella realtà contemporanea». Qui forse i dieci mi-

nuti sarebbero anche troppi. Povera letteratura e soprat-

tutto povera «nella realtà contemporanea». E dove si è

rifugiata la letteratura in questa realtà? Cosa direi, chiedo

a me stesso, in proposito se avessi dovuto svolgere io il

tema? Io che, oltreché docente universitario, sono stato

per una quarantina d’anni almeno, critico letterario del

«Mondo», del «Corriere della sera», del «Giornale» di

Montanelli, della «Rivista dei libri», della «Repubblica»?

Esiste ancora la letteratura? E dove s’è cacciata? Mi torna

in mente la conclusione di una delle più belle poesie di

Giorgio Caproni, riferita alla madre: «Anima mia, sii

brava/e va in cerca di lei./Tu sai cosa darei/se la incon-

trassi per strada».



Giuseppe Leonelli

Università Roma Tre

Nuova Secondaria - n. 4 2016 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582

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