S giovanni bosco


XXVI. I Guelfi ed i Ghibellini



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XXVI.
I Guelfi ed i Ghibellini (105).

(Dall’anno 1205 all’anno 1240)


Di mano in mano che i barbari dimorando in Italia deponevano la loro ferocia, cessava l’influenza degli stranieri nei nostri paesi,: e: questa nostra Penisola si andava consolidando in parecchi Stati diversi. Se voi portate gli occhi sopra una carta geografica dell’Italia del medioevo, vedrete che i principali regni di quel tempo erano quello di Napoli, fondato dai figli di Tancredi d’Altavilla; il patrimonio di S, Pietro, di cui vi è nota l’origine, ma notevolmente aumentato dall’eredità di una contessa di Toscana, chiamata Matilde. Ed infine le repubbliche di Venezia e di Pisa, le quali per l’estensione del commercio e pel numero dei vascelli erano divenute potenze assai ragguardevoli.

In capo all’Italia vedevasi la Lombardia, quella ricca provincia, ove sorgeva un gran numero di città importanti, come Milano, Pavia, Bergamo, Piacenza, Cremona; e la Toscana, di cui Firenze e Lucca erano le principali. Quelle città per la maggior parte ricche e popolate, situate sotto al più bel clima del mondo, erano circondate da bastioni, sormontate da alte torri, e difese da profonde fosse, delle quali cose scorgesi ancora traccia in parecchie di esse, Quelle vecchie torri che vediamo in Torino ce ne somministrano una rimembranza,

Mentre le città italiane andavano così consolidando il loro governo, spesso erano molestate dai re ed imperatori stranieri, i quali pretendevano qualche diritto sopra l’Italia. Intanto che si discutevano i diritti colle ragioni e colle armi alla mano, gli uomini più religiosi d’Italia e di Germania pigliarono la parte del Papa, gli altri presero la parte di alcuni sovrani. Dal nome di due illustri famiglie tedesche i partigiani di quei re e di quegli imperatori si denominarono Ghibellini; quelli del sommo Pontefice Guelfi, Ogni città, ogni provincia, ogni terra, e per poco ogni famiglia conteneva nel proprio seno Guelfi e Ghibellini, che si odiavano a morte. Queste maledette discordie durarono più secoli, e fecero spargere molto sangue,

Durante le lunghe contese tra i Papi e gl’imperatori di Germania, Enrico VI, figliuolo di Federico Barbarossa, togliendo in moglie la figliuola di Guglielmo re delle Due Sicilie, aveva unito tutto quel regno all’impero di Germania,

Enrico sesto dopo un regno poco onorevole, morì, lasciando un figlio di quattro anni, conosciuto sotto al nome di Federico secondo. Costanza di lui madre, trovandosi al punto di morte, affidò la cura del giovane Federico al sommo Pontefice che allora chiamavasi Innocenzo Terzo. Fatto adulto mandò a vuoto ogni sollecitudine del sommo Pontefice, e malgrado ogni promessa e giuramento di proteggere la religione egli volse tutte le sue mire ad estendere i suoi stati e a soggiogare le varie città d’Italia, che governavansi indipendenti a guisa di repubbliche.

In quei tempi in alcuni comuni si tentava di introdurre le signorie, specie di tirannidi. Venivano innalzati alle maggiori cariche uomini molto potenti e per ricchezze e per partigiani; costoro mentre esercitavano i più alti uffizi procuravano di accrescere ognora più il loro partito; di maniera che offrendosi una qualche occasione facevansi acclamare signori.

Fra cotesti ambiziosi v’ebbe un certo Ezzelino, che per giungere al suo intento fecesi capo dei Ghibellini d’Italia. Quindi, aiutato da Federico II, si rese padrone di Verona e di alcune altre città, su cui esercitò vera tirannia. Egli fu uno dei principali strumenti di cui si servì Federico II per combattere la seconda Lega Lombarda, che si formò fra le città di Torino, Alessandria, Vercelli, Milano, Bologna, Brescia, Mantova, Piacenza, Vicenza, Padova, Ferrara, Treviso, Crema e il Marchese di Monferrato, per opporre una valida resistenza all’imperatore. E poiché comune era il pericolo, comune fu altresì giudicata la difesa. Ma il Papa vedendo che trattavasi di venire a grave spargimento di sangue tra soldati e soldati italiani, si adoperò per modo, che riuscì a sedare gli animi a condizioni vantaggiose per l’imperatore e per le città alleate.

Tuttavia Federico, solito a violare le promesse, corrispose al Papa colla massima ingratitudine. Diedesi a perseguitare gli ecclesiastici spogliandoli ed esiliandoli; impose alle chiese ed ai monasteri gravissime contribuzioni, e giunse fino a sollevare i Ghibellini di Roma contro alla persona del Pontefice. Allora il Papa si unì alla Lega Lombarda, e fatta causa comune coi Veneziani e coi Genovesi, tutti si preparavano contro al comun nemico.

Federico risolse di combatterli e di opprimerli tutti. A questo fine si pose alla testa di forte e numeroso esercito composto di Tedeschi, di Saraceni e di fuorusciti Ghibellini, che in gran numero andavano a congiungersi colle sue genti. Così per la prima volta fu veduta guerra aperta tra Guelfi rappresentati dalla Lega Lombarda, dal Papa, dai Veneziani e dai Genovesi, e tra Ghibellini sostenuti dal formidabile Federico. Riesce difficile il descrivere i saccheggi, le oppressioni, le stragi, le carneficine e lo spargimento di sangue, di cui questa lotta fu cagione da ambe le parti. Finalmente l’imperatore, ora vittorioso, ora vinto, marciò con tutte le sue forze contro alla città di Parma, dove i suoi avevano toccato una grave sconfitta.

I Parmigiani si opposero valorosamente agli assalitori. La città fu stretta di assedio; terribili furono gli assalti accompagnati da orrende barbarie: terribile fu la difesa per due anni. Ciò non ostante quel popolo, minacciato dagli orrori della fame, vedeva avvicinarsi il fatale momento di doversi arrendere, quando un mattino sopraggiunge un grande numero di alleati. Allora facendo una sortita i Parmigiani assalgono improvvisamente l’esercito imperiale, di cui fanno tale un macello, che quelli i quali non sono uccisi sono costretti a darsi a precipitosa fuga.

Dopo questo memorabile avvenimento Federico, pieno di vergogna, si ritirò nel suo regno di Napoli, dove pel rammarico delle toccate sconfitte, pel rincrescimento che suo figliuolo Enzo fosse caduto prigioniero in mano dei Bolognesi, ed anche agitato dai rimorsi di essersi ribellato contro alla propria religione, finì di vivere.

Dopo Federico, sostenne qualche tempo la causa dei Ghibellini Corrado IV, di lui figliuolo e successore, finché venne avvelenato per arte di suo fratello Manfredi, il quale ambiva succedergli. Corrado lasciò per solo erede dell’impero e del regno di Sicilia un fanciulletto di tre anni anche di nome Corrado, ma per la sua giovanile età chiamato Corradino.

Credo che non abbiate ancora dimenticato come i Normanni nello stabilirsi in Italia eransi dichiarati vassalli del Papa, la qual cosa rendevali a lui dipendenti; e nessun altro poteva entrare al possesso di quel regno, senza il consenso del Papa medesimo. Innocenzo IV, che allora regnava in Roma, vedendo il regno di Napoli senza legittimo sovrano; offerì di cederne il possesso a quello tra i prìncipi d’Europa, che volesse riconoscersi suddito e protettore della Chiesa, come fatto aveva Roberto l’Intrepido.

Lo zio di Corradino, quel medesimo Manfredi che aveva procurato la morte a Corrado IV, gran guerriero, ma d’indole feroce ed irreligioso, sotto al pretesto di sostenere i diritti del nipote, sostenne altresì accanitamente il partito dei Ghibellini per aprirsi una strada al trono. Il giovane Corradino poi era allevato in Germania e viveva tuttora sotto gli occhi di sua madre, quando si sparse la voce che il real fanciullo era morto di malattia.

A quella notizia i Ghibellini incoraggiarono Manfredi a prendere il titolo di re delle Due Sicilie; ed egli che sommamente desiderava quel titolo pomposo vi acconsentì. Ma appena fu incoronato, ebbe notizia che la voce sparsa della morte di Corradino era falsa; ed anzi erano giunti ambasciatori in Napoli, chiedendo istantemente che a Corradino fosse restituito lo scettro che aveva appartenuto a suo padre. Ma i superbi colgono volentieri le occasioni che possono esaltarli, e rifuggono da tutto ciò che li potrebbe umiliare; perciò Manfredi fece venire gli ambasciatori tedeschi al suo cospetto, e rispose che egli era salito sul trono, e non voleva più discenderne per cedere il posto a suo nipote: che per altro dopo la sua morte avrebbe lasciato Corradino erede unico de’ suoi Stati.

Cotesta risposta mosse a sdegno l’imperatrice; lo stesso romano Pontefice minacciò Manfredi della scomunica, se non rinunciava a quel trono, che per nessun titolo gli apparteneva. In simile frangente essendo l’Italia minacciata dai Tedeschi di fuori, da Manfredi e dai suoi seguaci al di dentro, il Papa giudicò bene di ricorrere ad un principe francese, di nome Carlo, conte d’Angiò, fratello di S. Luigi re di Francia.



XXVII.
Carlo d’Angiò ed i Vespri Siciliani (106).

(Dall’anno 1238 all’anno 1285).

Carlo d’Angiò era un principe valoroso, che desiderava acquistarsi gloria; perciò di buon grado acconsentì di trasferirsi in Italia, a fine di sedare il tumulto cagionato dai Ghibellini, e così impadronirsi del regno di Napoli.

Viene pertanto in Italia con numerosa cavalleria e fanteria, entra nel regno di Napoli, e va ad incontrare Manfredi, il quale erasi eziandio apparecchiato a resistergli. Ma l’avvicinarsi dei Francesi aveva sparso il terrore nei suoi baroni; e quando Manfredi intimò alle sue genti di porsi in atto di battaglia, si accorse con dolore che molti di essi tremavano di spavento.

Tuttavia i due eserciti vennero alle mani e s’incontrarono sulle rive del fiume Calore, a poca distanza dalla città di Benevento: qui si appiccò un sanguinoso conflitto, nel quale Manfredi fece prodigi di valore; ma col ribellarsi contro al Vicario di Gesù Cristo rendendosi indegno della protezione del cielo, ogni suo sforzo tornò vano; i suoi baroni lo abbandonarono, e quasi tutto il suo esercito sbandato si diè alla fuga. Allora egli disperato si getta dove più ferve la mischia, e dopo aver atterrato ed ucciso una moltitudine di nemici, cade egli stesso sotto ai colpi dei Francesi, i quali attoniti di trovare tanto coraggio in un semplice cavaliere, lo uccisero senza conoscerlo.

Il partito dei Ghibellini, indebolito per la morte di Manfredi, si rivolse al giovane Corradino, il quale nell’età di appena sedici anni dava già indizio di possedere sublimi qualità. I Ghibellini lo riguardavano come l’unico loro sostegno e lo invitarono a venire in Italia. La madre di Corradino era desiderosa di vedere un giorno più corone sul capo di suo figliuolo; Corradino stesso non vedeva l’ora di assicurarsi il regno, cui giudicava aver diritto.

Inoltre i più illustri Ghibellini di Pisa, di Napoli e di altre città d’Italia sollecitavanlo a venir presto in Italia, assicurandolo che al suo avvicinarsi tutti sorgerebbero per esterminare i Guelfi.

Corradino acconsentì; i più potenti signori della Germania ed un grande numero di illustri guerrieri corsero sotto le sue bandiere per aiutarlo coi loro formidabili squadroni, ma fra tutti era insigne Federico, duca d’Austria, già segnalatosi in molte guerresche imprese.

All’avvicinarsi dell’esercito tedesco i Saraceni di Sicilia, quei medesimi che avevano già fatto tanto male all’Italia, fedeli amici di Manfredi, e tutti i Ghibellini della Lombardia presero le armi per unirsi a lui. La notizia di quella immensa rivolta empiè di spavento Carlo d’Angiò, il quale era stato colto quasi all’improvviso, essendosi eseguiti i preparativi di guerra colla massima segretezza.

Corradino si avanzò a Roma, d’onde il Papa era partito precipitosamente per ricoverarsi in una città vicina. Allora i Ghibellini di Roma offersero al principe tedesco un buon numero di soldati e quei tesori che il Papa nella sua fuga aveva dovuto abbandonare nelle chiese. Questo modo di operare, miei cari giovani, era un triste presagio; e vorrei che stesse ben impresso nelle vostre menti come il disprezzo della religione ci tira addosso l’ira del cielo. Corradino adunque, giunto al confine del regno di Napoli, seppe che Carlo gli veniva incontro con un esercito più debole del suo, e si rallegrò sulla speranza di un avvenimento felice, che doveva decidere del suo destino. Ma furono vane le sue speranze.

I due eserciti non tardarono a trovarsi di fronte in una vasta pianura, che si estende intorno ad una città detta Aquila, a poca distanza dal lago Fucino: colà si agitarono per l’ultima volta le sorti degli imperatori di Germania tra i Guelfi ed i Ghibellini. L’ardente valore di Corradino non valse contro la consumata esperienza del principe francese; egli ebbe il dolore di vedere il suo esercito posto in rotta e distrutto dai soldati di Carlo; ed egli stesso avviluppato dai fuggiaschi col valoroso Federico d’Austria, cadde nelle mani del suo rivale.

Egli è certamente una grande gloria per un guerriero il saper vincere, ma è da uomo glorioso e magnanimo il valersi con moderazione della vittoria. La qual cosa non fece Carlo d’Angiò: egli invece di tener rinchiusi quei due prìncipi o assicurarsi altrimenti della loro persona, fece radunare alcuni giudici, cui indusse a pronunciare contro di loro la sentenza di morte.

Il giovane Corradino giuocava agli scacchi col duca Federico, quando si andò loro ad annunciare la sentenza, che li condannava a perdere la vita; la quale sentenza fu immediatamente eseguita. Giunto Corradino sul palco del patibolo, si tolse da se stesso il manto reale, e dopo di aver fatto in ginocchio una breve preghiera, si rialzò esclamando: O madre mia, mia povera madre! che trista nuova stai per ricevere!

Ma nemmeno Carlo d’Angiò appagò la comune aspettazione. Appena si vide tranquillo possessore del suo regno, ne divenne in mille maniere l’oppressore, disprezzando lo stesso romano Pontefice, che lo aveva invitato a portare soccorso ai popoli di Sicilia e di Napoli, e di cui erasi costituito rispettoso vassallo. Per 17 anni aveva regnato Carlo sugli abitanti delle Due Sicilie, e per altrettanti anni quei popoli erano stati avviliti e spogliati dai commissari reali; cosicché il giogo straniero era divenuto insopportabile. Il malcontento divenne generale a segno che scoppiò una ribellione in Palermo per un accidente che sono per raccontarvi.

Fra i molti oppressi da Carlo fu un certo Giovanni da Procida, cui erano stati confiscati i beni per ordine del re. Egli era un dotto e nobile cittadino di Palermo che, altamente sdegnato di vedere i popoli di Sicilia oppressi dalla tirannia dei Francesi, eccitò Pietro re di Aragona, che aveva sposata una figliuola di Manfredi, e lo risolvè a venire alla conquista del regno di Sicilia. Molti baroni ed altri nobili personaggi aspettavano solamente qualche novella occasione per dar principio alla rivolta, e l’occasione non tardò molto a presentarsi.

Nel giorno 30 marzo del 1282, che era la seconda festa di Pasqua, un soldato francese fu tanto insolente e villano da porre le mani addosso ad una fanciulla, che si avviava modestamente alle nozze; il fidanzato, ossia lo sposo, venuto alle mani col francese, lo uccise. Questo insulto infiammò gli animi già commossi dei Siciliani, e il desiderio di vendicarlo si propagò in un momento fra i molti parenti degli sposi; sicché da tutte parti si gridò: Muoiano i Francesi. Palermo intera levossi in armi, il popolo si precipitò sui Francesi, e ne menò orribile strage; lo stesso fecero altre città della Sicilia. Tale strage fu denominata i Vespri Siciliani, perché quando la gente cominciò a gridare all’armi! all’armi! suonava appunto la campana del vespro.

Alla notizia di questa sommossa il re Carlo corse con numeroso esercito per acquetare i tumulti; ma essendovi sopraggiunto Pietro d’Aragona, i Siciliani si diedero a lui, e Carlo dopo molti infortunii, col dolore di aver interamente perduto il regno di quell’isola, si dice che abbia finito col darsi volontariamente la morte l’anno 1285.

Pietro d’Aragona venne riconosciuto re di Sicilia, e con un governo paterno riparò in parte i mali che i re antecessori avevano cagionato. In mezzo a quelle terribili stragi un solo francese di nome Guglielmo, governatore di una città, scampò all’eccidio dei suoi concittadini. Esso aveva sempre operato con umanità e giustizia, e per questi suoi meriti ebbe salva la vita a se stesso e alla famiglia. Ricordatevi, giovani miei, chi fa male trova male, al contrario gli uomini dabbene sono sempre rispettati anche fra i maggiori disordini, perché chi fa bene trova bene.

Alla morte di Corradino, i Ghibellini stanziati in Firenze ne furono cacciati. Ma invece della pace, che si sarebbe potuto godere, si suscitarono nuove contese fra le più alte classi dei cittadini ed il popolo; e questo essendo molto più numeroso prevalse.

Allora tutti i cittadini dati alle arti principali si radunarono per eleggere i capi della repubblica. Coloro che vennero nominati si chiamarono Priori delle arti, che dovevano durare in uffizio solamente due mesi, dopo i quali se ne eleggevano degli altri; quegli poi, che aveva il comando dell’esercito, prendeva il nome di Gonfaloniere: oltre alla dignità di generale, egli era anche incaricato di far eseguire le condanne che si davano nei tribunali di giustizia. In questo modo fu introdotta in Firenze una nuova forma di governo che durò quasi tre secoli.



XXVIII.
La Repubblica di Genova ed i Pisani (107).

(Dall’anno 1268 all’anno 1288).

Genova era già molto rinomata al tempo dei Romani e mediante l’operosità dei suoi cittadini essa divenne poco per volta una città importantissima. In mezzo alle invasioni dei barbari i Genovesi eransi quasi sempre conservati indipendenti. Quando poi Carlomagno venne ad impadronirsi dell’Italia, anche Genova se gli sottopose; ma dopo la morte di quell’imperatore continuò a reggersi in forma di repubblica, come facevano le città di Venezia e di Pisa. Per lo spazio di cinquecento anni Genova, rimasta libera da ogni influenza straniera, poté divenire rinomatissima pel suo commercio e per l’industria dei suoi abitanti.

Siccome non sapete forse ancora bene che cosa sia commercio, tenterò di darvene un’idea. Nei tempi antichi non eravi ancora l’uso delle monete, ma fra i primi uomini, come vi ho raccontato nella Storia Sacra, gli uni si davano a coltivare la terra, gli altri a custodire il gregge ed alla caccia degli animali selvaggi. L’agricoltore, che non aveva abito per coprirsi, andava a trovare il cacciatore od il pastore suo vicino e gli proponeva di cangiare una certa quantità di grano contro una pelle di bestia, od alquanta lana di pecora o di montone, a fine di farsene una veste per l’inverno. Di buon grado corrispondevano il cacciatore, od il pastore, perché con quel poco di grano si provvedevano di cibo per una parte dell’anno. Questo cambio di prodotti, che da prima si faceva da ognuno al minuto per le sue particolari necessità, prese man mano a praticarsi in grande da alcuni per professione e per amor di guadagno. Quindi anche nazioni intere ne fecero loro principale occupazione. Ritenete dunque a mente che colui il quale cangia i prodotti delle sue terre, delle sue mandre o della sua caccia con altre robe, esercita il commercio, e si chiama mercante. Ma guari non andò che l’oro e l’argento furono scelti come rappresentanti generali di tutte le merci. Già dai tempi di Abramo questi metalli si adoperavano ridotti in verghe e lamine, dalle quali si tagliavano pezzi più o meno lunghi, che si pesavano sulle bilancie, secondo la maggior o minor somma che si doveva pagare. Solamente al tempo di Tullo Ostilio il popolo Romano cominciò ad usare monete coniate. Dopo che fu inventato l’uso delle monete si ebbe molta agevolezza nel commercio, perciocché esse facilmente si cangiano con qualsiasi merce.

Gli abitanti di Genova per maggior parte marinai od artigiani, favoriti dalla loro posizione sul Mediterraneo, portavano i loro prodotti nei più lontani paesi e ne riportavano in cambio seta, gemme, incenso, pepe, cannella ed altri aromi dell’India e dell’ Arabia. La coltura del gelso bianco, che Ruggero Guiscardo recò in Sicilia, fu altresì una sorgente di ricchezze per Genova e per tutta l’Italia; perciocché l’introduzione di questo utile albero e l’educazione del baco da seta resero comuni i prodotti preziosi, che prima si andavano a cercare con grandi spese in varie regioni dell’ Asia. Peraltro in mezzo alle sollecitudini del commercio i Genovesi non tralasciavano di impugnare le armi e dar segni di prodezza e di coraggio qualora fossene il bisogno.

Poco lungi dal Genovesato stava la città di Pisa, emula di Genova sì nel commercio per mare, e sì nel procacciar di assoggettare al suo dominio altre città e terre. Eransi i Pisani appropriate alcune terre possedute dai Genovesi nell’isola di Corsica; e i Genovesi, i quali non potevano vedere senza invidia la prosperità sempre crescente dei Pisani, colsero questa occasione per dichiarare ad essi la guerra. Spedirono pertanto una flotta per impadronirsi della loro città; ma questi, che da gran tempo desideravano di misurarsi coi Genovesi, apparecchiarono un numero quasi uguale di galere, sulle quali imbarcarono una grande quantità di soldati e di marinai.



XXIX.
La Battaglia della Meloria ed il Conte Ugolino (108).
In questi apparecchi guerreschi i Genovesi avevano per capi due principali signori della loro repubblica, chiamati Doria e Spinola, ambedue illustri per coraggio e per l’importanza delle loro famiglie. Fra i Pisani si distinguevano il Podestà Morosini ed il conte Ugolino della Gherardesca, il quale divenne prestamente celebre nella storia. Le due flotte s’incontrarono nel mare vicino ad una isoletta, appellata Meloria, a poca distanza da Pisa, dove si appiccò fiera battaglia fra quelle armate composte di marinai insigni del pari per bravura e perizia nell’arte di navigare.

Egli fu terribile a vedersi quel combattimento fra due nemici, in quel tempo i più pratici del mare, i quali pugnavano con valore eguale e con eguale abilità. Per un buon pezzo la vittoria rimase incerta, ed i Genovesi cominciavano già a disperare dell’esito di quella lotta accanita, quando il conte Ugolino, come se fosse stato atterrito dagli sforzi dei nemici, lasciò a precipizio il campo di battaglia, traendo seco la maggior parte delle galere pisane. I capitani di Pisa, i quali ad esempio di Morosini continuavano a combattere contro ai Genovesi, trovatisi di fronte a nemici di gran lunga superiori pel numero, non tardarono ad essere sopraffatti per modo, che tutti coloro i cui vascelli non furono mandati a fondo, caddero in mano dei vincitori insieme col Morosini stesso e collo stendardo della repubblica.

I Genovesi condussero nel loro porto oltre a diecimila prigionieri, ed il mare rigettò sulle rive vicine i cadaveri di un gran numero d’infelici morti in battaglia. La disfatta della Meloria, cari giovani, è un avvenimento ragguardevolissimo, perché esso fu il primo crollo dato alla potenza di Pisa, di cui i primi cittadini colle discordie affrettarono la rovina.

Pisa era al colmo dei mali: priva di uomini, di navi, di danaro e di commercio, aveva eccitati contro di sé tutti i Guelfi di Toscana, cioè i Fiorentini, i Pavesi, i Lucchesi ed altri popoli istigati massimamente dai Genovesi. Essendo Pisa una città ghibellina, che aveva maltrattato alcuni cardinali e vescovi, non osava ricorrere agli aiuti del sommo Pontefice; laonde si rivolse direttamente a Genova, chiedendo pace; ma le condizioni ne erano talmente dure, che gli stessi Pisani tenuti colà in prigione sconsigliarono di conchiudere una pace cotanto vergognosa. Respinta dai Genovesi, Pisa si indirizzò ai Fiorentini, e questi promisero dl proteggerla, a condizione che per l’avvenire seguisse la parte guelfa, cedesse loro alcune terre e li lasciasse padroni di Porto Pisano, che oggidì chiamiamo Livorno.

Il conte Ugolino, che aveva trattati questi affari, seppe approfittarne per sé, e dopo di aver cacciato i Ghibellini da Pisa ottenne di essere fatto padrone della città per anni dieci. Siccome colle dubbiezze e colle iniquità aveva occupato il dominio di Pisa, così con eguali arti si guadagnò l’amicizia dei Fiorentini e dei Lucchesi, cedendo loro alcuni castelli e alcune terre: quindi invece di difendere la patria, ne diveniva il traditore. Il podestà tentò di frenare quell’abuso di potere, ma non fu più a tempo, perciocché Ugolino lo mandò tosto in esilio, e così divenne padrone assoluto della repubblica. Volgendosi un dì con animo temerario a non so qual cittadino gli disse: E bene, che cosa mi manca adesso? - Nulla, rispose l’altro, fuorché la collera di Dio.

Ugolino colle sue prepotenze erasi inimicati i più ragguardevoli Pisani, fra cui l’arcivescovo Ruggieri; nemmeno curavasi di affezionarsi i minori cittadini, i quali opprimeva con insopportabili gabelle. Un suo nipote fu abbastanza coraggioso di esporgli i lamenti e la miseria del popolo. Sapete qual fu la risposta di Ugolino?.. una pugnalata. Un parente dell’arcivescovo accorso per difendere quello sventurato da nuovi colpi, fu sul medesimo istante trucidato. Era impossibile che un uomo reo di tante nefandità potesse a lungo regnare, anzi vivere. Infatti non passò molto tempo che i Pisani si sollevarono, combatterono i seguaci del tiranno, appiccarono il fuoco al palazzo ove egli risiedeva, e preso Ugolino con due suoi figliuoli e con due piccoli nipoti li chiusero in una prigione.

Sebbene il conte Ugolino fosse colpevole di molti misfatti, tuttavia i suoi figli e i suoi nipoti erano innocenti, e sarebbe stata giustizia il risparmiarli. Ma quei cittadini nel trasporto del loro sdegno gettarono le chiavi della prigione nel fiume Arno, e li fecero perire tutti e cinque di fame. Ugolino fu prima straziato dal miserando spettacolo dei figliuoli e dei nipoti, i quali ad uno ad uno sfiniti dalla inedia gli caddero morti ai piedi; ed egli poscia venne meno dal digiuno. Questa orrenda scena ci è narrata in sublimi versi da un poeta fiorentino, detto Dante Alighieri, di cui presto avrò a parlarvi.

Sui fatti che vi ho di sopra esposto, miei cari giovani, noi dobbiamo fare un profondo riflesso sopra quella grande Provvidenza di Dio che veglia continuamente sul destino e sulle azioni degli uomini. Fu già un tempo che i Pisani assoggettarono Amalfi ad orribile saccheggio, ed ora sono eglino stessi costretti a vedere la loro città in preda ai maggiori disastri. Il conte Ugolino fu crudele verso la patria, e aveva fatto perire in carcere molti de’ suoi concittadini, ed egli stesso prima di morire dovette provare tutti gli orrori di una rabbiosa fame. Quanto sono terribili i giudizi di Dio!



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