S giovanni bosco



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XXXVIII.
Il Conte Verde (117).

(Dall’anno 1340 all’anno 1390).

Amedeo VI in età di 14 anni comparve un giorno ad una giostra solenne, bandita in Ciamberì, per fare anch’egli prova della sua destrezza. Vestiva di verde panno, e questo colore più non dismise, talché il popolo gli pose il nome di Conte Verde. In Piemonte sostenne più guerre contro al marchese di Monferrato ed al principe di Acaia, ricuperando molte terre stategli tolte. Instituì l’Ordine del Collare di Savoia, ora detto della SS. Annunziata, il quale componevasi di quindici cavalieri, ad onore dei quindici misteri del Rosario.

La più celebre delle sue imprese fu una spedizione in Oriente. Sedeva in Costantinopoli imperatore d’Oriente Giovanni Paleologo, travagliato dai Turchi, anzi obbligato a contrarre lega con essi. Disperando di ogni altro aiuto, mandò ambasciatori a Papa Urbano V, supplicandolo di aiuti e lusingandolo che avrebbe riunito alla Santa Sede la Chiesa scismatica greca. Il sommo Pontefice, tremando al pericolo che sovrastava alla fede cristiana pei continui progressi dei Turchi, procacciò d’indurre il re di Francia, il re di Cipro, l’imperatore, Amedeo VI, ed altri potentati a riunire le loro armi, a fine di respingere i Turchi già prossimi a Costantinopoli. Ma tutti fallirono; a chi mancavano genti, a chi danari e ad altri il coraggio. Amedeo VI fu il solo soccorritore del greco impero: radunò galere, accattò danaro, raccolse genti, e nel 1366 salpò con tutta la sua armata da Venezia.

Ma i Turchi possedevano la città di Gallipoli, che guarda lo stretto dei Dardanelli, canale detto anticamente Ellesponto, e che unisce l’Arcipelago al mare di Marmara, dagli antichi appellato Propontide. Perciò Amedeo si accinse ad espugnarla, e dando gagliardo assalto alle mura, la ebbe. Così la sua armata poté liberamente entrare nello stretto e giungere a Costantinopoli, dove fu accolto come liberatore. In quel tempo Giovanni Paleologo, desideroso di sollecitare in persona i soccorsi del re d’Ungheria, erasi da lui recato, ma nel ritorno il re dei Bulgari, favorevole ai Turchi, lo aveva sorpreso, e tenevalo prigioniero in Varna. Tosto Amedeo conduce i suoi sotto questa città, e la stringe di assedio. Il re dei Bulgari impaurito alle forze ed alla fama militare dei Savoini, viene agli accordi e rimette in libertà il Paleologo. Ma fredde furono le imperiali testimonianze di gratitudine verso il prode Amedeo e più di parole che di fatti; ei non pensò a ristorarlo delle spese in suo pro sostenute. Continuò il Conte ad espugnare alcune piccole fortezze occupate dai Turchi; poi, come spirava l’anno, per cui eransi stipulati gli accordi delle navi e delle milizie, fece di nuovo accatto di danari per pagare le une e le altre, partì di Costantinopoli e ritornò in patria.

Per conservare la memoria di questa onorevole spedizione fu nell’anno 1853 innalzata in Torino, davanti al palazzo municipale, la statua in bronzo del Conte Verde, che colla spada in alto si avventa contro ai Bulgari, mentre calpesta i già prostrati (*).


[(*) Bello sarebbe questo monumento, se l’artefice avesse saputo allontanare dall’animo di chi lo contempla il ribrezzo, che sempre si prova al vedere calpestare un uomo prostrato, ancorché sia nostro nemico (a)].
Giunto in Italia, dovette adoperare la sua spada contro ai Visconti di Milano. Questa città fin dal 1250 non era più governata a maniera di repubblica. Una famiglia detta Visconti la dominò per lo spazio di trecento (**) anni [(**) Leggi: duecento.*]. La maggior parte di quei Visconti per mantenere la loro sovranità usarono prepotenze ed oppressioni, ed uno di essi radunò buon numero di soldati con animo di estendere il suo dominio sul Monferrato, che è una parte del Piemonte a voi molto nota per la sua fertilità e per la squisitezza dei suoi vini. Amedeo non tardò a marciargli contro; e dopo alcuni sanguinosi attacchi mise in fuga i Milanesi, rimanendo così pacifico possessore dei suoi Stati.

La rinomanza, a cui questo principe era salito, lo rese arbitro d’intricatissime contese insorte tra i vari prìncipi di Europa. I Veneziani, come si è detto, da molto tempo erano in guerra coi Genovesi. Ora rimanevano superiori gli uni, ora gli altri, ma sempre con immenso danno e con grande spargimento di sangue da ambe le parti. Finalmente quelle due repubbliche, stanche di distruggersi a vicenda, ricorsero al Conte Verde, lasciandolo arbitro dei loro litigi. Esso pose fine a così micidiale guerra con un trattato stipulato in Torino nel 1381.

Acquetò eziandio le discordie sorte tra Lodovico II d’Angiò e Carlo Durazzo, i quali si contendevano colle armi il regno di Napoli. A chiarezza della storia dovete notare che Roberto, re di Napoli, morendo lasciava il regno a Giovanna sua nipote. Non avendo questa figliuoli, il regno avrebbe dovuto passare a Carlo Durazzo; ma per odio che a lui portava, ella aveva adottato a figliuolo e successore il fratello del re di Francia, detto Lodovico II. Perciò Carlo Durazzo, dopo di aver fatto soffocare la regina Giovanna, contese colle armi il regno di Napoli contro Lodovico. Il Conte Verde fu quegli che valse ad acquetare cotali sanguinose discordie. In quella occasione gli Angioini, vale a dire i discendenti di Carlo d’Angiò, i quali dopo la morte di quel principe avevano continuato a regnare in Napoli, ed erano anche padroni di una parte del Piemonte, cedettero questo tratto di paese al Conte Verde, il quale così estese notabilmente il suo dominio.

Infine l’anno 1383 questo gran guerriero, essendo andato con duemila soldati in soccorso di Lodovico per rappacificare le cose di Napoli, giunto nel paese degli Abruzzi fu colto da grave malore, che in pochi giorni lo tolse di vita. Egli era buon principe, perciò la sua morte fu compianta da tutti: era valoroso, ma pio assai, e nutriva special divozione verso la Beata Vergine.

L’ultimo conte di Savoia fu Amedeo VII, detto il Conte Rosso, dotato dalla natura delle più belle qualità, e degno figliuolo del Conte Verde. Egli fu di grande aiuto al re di Francia contro agl’Inglesi e contro ai Belgi. Durante il suo governo continuò la guerra tra Lodovico d’Angiò e Carlo Durazzo, padrone del contado di Nizza Marittima. I Nizzardi, stanchi per quelle interminabili discordie, passarono sotto al paterno e soave dominio dei conti Sabaudi.

Mentre regnava Amedeo VII, Gian Galeazzo Visconti di Milano estese considerevolmente i suoi dominii, e colle sue conquiste resesi terribile a tutta l’Italia. Egli tentò d’impadronirsi della Toscana, e forse sarebbevi riuscito, se non fosse stato sopraggiunto dalla morte. Fu esso il primo dei signori di Milano a portare il titolo di duca nel 1395, che aveva comprato da Venceslao imperatore di Germania. Gian Galeazzo era dotato di parecchie virtù, apprezzava gli uomini di genio militare, e sapeva all’uopo servirsene; proteggeva i dotti, promoveva le arti; e fra le sue opere merita special menzione la fondazione del Duomo di Milano, che forma oggidì il più bell’ornamento di quella città. Ma queste virtù furono oscurate da molti vizi, per cui non lasciò di sé buona memoria. Egli moriva di peste nel 1402.



XXXIX.
Il Conte di Carmagnola e il duca Amedeo di Savoia (118).

(Dall’anno 1400 all’anno 1450).


In una fertile pianura, a distanza di undici miglia da Torino e due dalla destra del Po, avvi la città di Carmagnola. Questa città era già stata eretta in marchesato sul principio del Secolo XIII, e fu patria di molti personaggi illustri per virtù, scienza e valore guerriero, tra cui si annovera Francesco Bussone, più conosciuto nella storia sotto il nome di conte di Carmagnola.

Egli nacque nel 1390 da genitori poveri e guardiani di armenti; i quali ben presto lo destinarono al mestiere di guardiano di porci. Crescendo negli anni, si mostrava di aperto, ma terribile ingegno. Egli si segnalò fra la gioventù carmagnolese, allora quando il governatore di Genova, detto Bucicaldo, collegato coi Francesi, voleva opprimere la patria di Bussone; e per cura specialmente di lui i nemici ebbero la peggio, e dovettero allontanarsi.

Un capitano di ventura passato per questa città si abbattè in Francesco, e vedutone il fiero aspetto e conosciutane l’indole guerresca, il condusse con lui in qualità di fante, ossia garzone d’armi. A ventidue anni entrò come semplice soldato nell’esercito di Filippo Visconti, duca di Milano.

Francesco esercitando le cariche più basse della milizia, giunse presto al grado di generale di un esercito. In seguito fu posto da quel duca alla testa di diecimila fanti e quattrocento cavalli. Con questo esercito egli combatté tutti i nemici del duca, e gli acquistò molte città sì in Toscana, come in Lombardia. In premio del suo valore e dei servigi prestati il duca gli conferì la carica di consigliere di Stato con titolo di maresciallo e di conte, dandogli eziandio per moglie una sua parente.

Ridotta così la Lombardia sotto al dominio del duca Filippo, Francesco vago com’era di maggior gloria radunò una forte banda di fuorusciti, e si mosse verso Genova, che reputavasi la più potente repubblica di quei tempi. Nel suo cammino passò per Savona, città poco distante da Genova, e posta eziandio sulle rive del Mediterraneo. Si affaticò per prenderla, ma era così gagliardamente difesa da’ suoi cittadini, che tutti gli sforzi riuscirono inutili.

Partitosi di là andò a porre l’assedio a Genova, e battendola da tre lati con grosse artiglierie, costrinse il doge ad arrendersi e ritirarsi col Senato in Sarzana, città posta sui confini del Genovesato verso la Toscana. Allora il Carmagnola restò governatore di Genova, e vi abitò qualche tempo con riputazione non meno di eccellente politico che di egregio capitano. Qui a nome del duca di Milano fece allestire una flotta a favore del Papa contro al re di Sicilia e di Aragona. Ma la fortuna del Carmagnola doveva ricevere una violenta scossa dagli invidiosi. Alcuni capitani, mossi da invidia, vizio perniciosissimo, si diedero a screditare il Carmagnola, rappresentando al duca come la fama di quel capitano avrebbe oscurata la gloria di lui. Per questo invece del Bussone alla testa di quella flotta fu spedito un altro capitano di nome Guido. Poco dopo il Carmagnola vide un altro mandato a governare la città di Genova in sua vece, ordinando al Bussone che licenziasse le trecento lance della sua compagnia. Erano questi i più cari compagni del Carmagnola, che combattendo sotto ai suoi ordini lo avevano sollevato ad alto grado, e che egli teneva per sua guardia.

Immaginatevi lo sdegno di un capitano, che si vede rimosso dalla carica, interrotto a metà delle sue imprese guerresche, separato dai propri soldati, da cui era teneramente amato! Partì immediatamente alla volta di Milano per abboccarsi col duca e per discolparsi; ma per quanto si adoperasse non poté nemmeno avere udienza; laonde, pieno d’ira e di rammarico, venne in Piemonte, si presentò al duca di Savoia, ch’era Amedeo VIII, e dimostrandogli i pericoli che gli sovrastavano dall’ambizione del duca di Milano, lo persuase dell’opportunità di unirsi con Venezia e con Firenze, a fine di opporsegli e di atterrarlo.

Il conte Amedeo era nipote del Conte Verde, prode della persona e savio reggitore dei suoi popoli. Egli venne onorato dall’imperatore Sigismondo, il quale nel 1416 passando per Ciambéri eresse in ducato la contea di Savoia. Così Amedeo fu il primo a portare il titolo di duca, che di poi passò nei suoi successori.

Il Carmagnola, prima di partire dal Piemonte volle portarsi ad abbracciare il vecchio suo genitore, e in quella occasione dimostrò che era un buon cittadino pieno del vero amor di patria. Fra le altre sue belle opere si annoverano copiose largizioni fatte per costruire la chiesa degli Agostiniani in Carmagnola. Diede anche molti segni di filiale affezione al suo buon genitore, a cui comprò alcuni campi, acciocché in compagnia dei fratelli e di altri parenti li coltivasse e se li godesse tranquillamente. Dato sfogo alle tenerezze di figlio ed alla carità di cittadino, di consenso col duca di Savoia, superando nel cammino i più gravi pericoli, andò a Venezia.

Da prima i Veneziani esitavano a fidarsi delle proferte del Carmagnola, ed erano sul punto di ricusare ogni suo servigio. Quando poi seppero che il duca di Milano lo aveva deposto dal suo grado e condannato a morte, tentando inoltre di farlo avvelenare, non fu più alcun dubbio della sincerità della sua missione. Pertanto nella primavera del 1425, mentre il duca Amedeo si preparava a marciare colle sue genti verso Milano, il Carmagnola fu creato generale in capo degli eserciti della Repubblica di Venezia e di Firenze. Sparsasi la voce che esso si avanzava verso Milano, il duca Filippo si pentì, ma tardi, della sua ingratitudine. Per opporre una valida resistenza a sì formidabile rivale, concentrò le sue genti nella pianura di Maclodio.

Il Carmagnola, sebbene assai inferiore di forze, assalì Brescia, s’impadronì di tutte le fortezze che i Milanesi avevano nel Bresciano, e venne a battaglia campale con quattro dei più celebri generali che fossero a quei tempi in Italia, e che uniti combattevano a difesa del Visconti. Il nome di quei prodi era Francesco Sforza, Piccinino, Angelo della Pergola e Guido Torello. Si fecero prodigi di valore da una parte e dall’altra; ma il Carmagnola riportò compiuta vittoria. Questo avvenimento è noto nella storia sotto al nome di Battaglia di Maclodio, la quale fu illustrata con eleganti versi da Alessandro Manzoni.

La pace ottenuta per questa vittoria assicurò alla repubblica di Venezia il conquisto di Brescia, di Bergamo e della metà del Cremonese.

Ma qui doveva finire la gloria di Francesco. Egli nel trasporto della gioia per la riportata vittoria diede la libertà a tutti i prigionieri che aveva fatto. Di più in una guerra nuovamente insorta non impedì, forse potendolo, una sconfitta che toccò la flotta Veneziana, né procurò di riparar quel danno. Queste cose fecero sospettare al senato di Venezia, che il Carmagnola avesse tradito i Veneziani; perciò sotto apparenza di volerlo consultare in cose di guerra, fu chiamato a Venezia, venne accolto con pompa straordinaria nel senato, gli fu dichiarata l’affezione e la gratitudine della repubblica; ma appena i soldati di lui partirono, egli fu messo in ferri, gittato in oscura prigione, e un mese dopo gli fu tagliata la testa nella pubblica piazza. Prima di condurlo sul luogo del patibolo gli misero un bavaglio alla bocca, Affinché non potesse rimproverare l’ingiustizia del sospettoso senato innanzi alla moltitudine, che si trovò presente al miserando spettacolo (5 maggio 1432).

Più felice sorte toccò al duca Amedeo. Dopo la battaglia di Maclodio il duca Filippo fu costretto a dimandargli pace, e fra le altre cose dovette cedergli tutto il Vercellese. Amedeo, dopo di aver considerabilmente ampliati i suoi Stati, rivolse la sua cura alla formazione di buone leggi, e compilò un codice, noto sotto il nome di Statuta Sabaudiae, cioè Costituzioni della Savoia. Questo codice, o miei cari, è reputato un capo d’opera, e meritò all’autore il soprannome di Salomone.

Ma le prosperità mondane non valgono a soddisfare pienamente l’uomo virtuoso. Amedeo, felice in ogni impresa, vincitore d’ogni suo nemico, volle anche vincere se stesso. Nel desiderio di procacciarsi gloria dinanzi a Dio, rinunziò al trono in favore di suo figliuolo Lodovico, si ritirò nel monastero di Ripaglia vicino a Ginevra, ed abbandonando ogni umana grandezza, si vestì da romito per passare il rimanente dei suoi giorni con sei cavalieri, decisi al par di lui di menar vita solitaria.

Se non che un curioso avvenimento andò a turbare la quiete di questo principe. La Chiesa cattolica era allora travagliata da gravi discordie a segno, che molti prelati e molti cardinali, radunati a concilio in Basilea, città della Svizzera, elessero a sommo Pontefice il duca Amedeo, mentre un altro Papa di nome Eugenio IV regnava a Roma. Pertanto dopo cinque anni di vita romitica, nel desiderio di poter sedare le discordie che agitavano la Chiesa, accettò la carica offerta, e fu salutato Papa, sotto il nome di Felice V. In seguito a questa elezione ricevette gli ordini sacri, e celebrò la sua prima Messa servita da’ suoi proprii figliuoli (1446).

Frattanto morì Eugenio IV, ed essendo stato eletto suo successore Nicolò V, che senza contrasto occupò la sede pontificia, Felice con ispontanea rinunzia volle por fine ad una discordia, che cagionava alla Chiesa cattolica grave danno ed afflizione. Fatto perciò radunare un altro concilio di prelati, depose le insegne papali, rinunziò al pontificato, e fece ritorno alla diletta solitudine di Ripaglia. Colà unicamente intento alle cose di spirito, passò ancora un anno e mezzo, finché placidamente finì di vivere nel 1450.

Meno glorioso fu il regno di suo figlio Lodovico. Questi tenne quindici anni il trono paterno ed ebbe molto a soffrire per parte de’ suoi sudditi e dello stesso suo figliuolo quintogenito, chiamato Filippo. Tuttavia il nome di questo principe è assai celebre nella storia, perché durante il suo regno i duchi di Savoia ricevettero il titolo di re di Cipro, che ritengono ancora oggidì.



XL.
Le bande di Braccio di Montone, di Muzio Sforza, di Piccinino e di Colleoni. - La famiglia dei Foscari (119).
Molti guerrieri, specialmente nel tempo che i Papi dimoravano in Avignone, facevano da luoghi lontani scorrerìe in Italia, a fine di saccheggiarla, arricchirsi de’ suoi tesori, di poi tornare nei loro paesi. Fu pertanto mestieri che gli Italiani si raccogliessero essi pure in compagnie per difendersi dagli iniqui assalitori. Questi avventurieri combattevano pel danaro e per l’onore, e perciò chi loro porgeva maggior danaro o maggiore speranza di gloria li aveva a suo servizio. Per dare importanza alla propria persona prendevano nomi i più pomposi. Spaccamonti, Animanegra, Rodimonte, Fracassa, Invincibile erano nomi di alcuni di quei venturieri.

È celebre la banda di Andrea, soprannominato Braccio di Montone, nato in Perugia, città dello Stato Romano.

Braccio di Montone aveva appena diciotto anni, quando cominciò a militare con quindici cavalieri. In occasione di sommossa avvenuta in sua patria egli fuggì, e andò sempre combattendo ora pel re di Napoli, ora pei Milanesi o per altri che lo avessero chiamato, segnalandosi ovunque per valore e per coraggio: ma egli ebbe la viltà di combattere contro la propria patria, la quale soggetto e fece capitale di un suo dominio.

Per estendere maggiormente il suo potere portò le armi contro di Aquila, città forte del Regno di Napoli. La città era ben difesa da altri condottieri di ventura, e tra questi da un certo Muzio soprannominato lo Sforza, venuto in soccorso di quella. Costui ancora giovinetto stava lavorando le poche terre di suo padre presso Cotignola, città di Romagna, quando alcuni soldati di ventura guidati da Alberico, conte di Barbiano (*), passarono colà e gli proposero di arruolarsi con loro.


[(*) Alberico conte di Barbiano fu il primo a riunire insieme una grossa compagnia di ventura composta di soli Italiani. Questa compagnia prese il titolo di s. Giorgio, e si rese soprattutto celebre combattendo vittoriosamente per papa Urbano VI, contro di una compagnia di Bretoni che assediava Roma (a)].
Muzio dato di piglio alla vanga, di cui servivasi, la gittò tra i rami di un albero dicendo: Se rimane sospesa ci verrò. La vanga vi rimase, ed egli tosto partì. I suoi modi violenti, il suo coraggio, la sua gagliardia gli acquistarono il soprannome di Sforza, che passò a’ suoi figliuoli; e quel Francesco Sforza, che erasi segnalato nella battaglia di Maclodio contro al Conte di Carmagnola, era figliuolo di Muzio.

Il suo ingegno, il suo valore lo condussero presto ai primi gradi della milizia, e quindi a divenire gran Contestabile del regno di Napoli, cioè capo di tutte le milizie di quel regno. A Napoli eransi nuovamente suscitate discordie tra la casa Durazzo e quella di Angiò. Ladislao Durazzo era riuscito a cacciare Lodovico II; ma nel mezzo dei suoi trionfi morì lasciando il regno a Giovanna sua figliuola, la quale si adottò per successore Alfonso re di Aragona. Essendosi questi inimicato con Giovanna, fu da lei rivocata l’adozione, e adottato in vece di lui Luigi III d’Angiò.

Lo Sforza adunque capitanava gli eserciti della regina Giovanna, e a nome di lei marciava contro a Braccio, che sosteneva Alfonso; ma nel guadare il fiume Pescara lo Sforza si annegò.

Per questo fatto Braccio da Montone reputavasi quasi certo della vittoria, quando venendosi a battaglia gli assediati fecero una sortita, ed assalirono con grand’impeto i nemici. Braccio colla voce e coll’esempio fece quanto può farsi da un uomo di grande forza e di gran coraggio, finché ravvisandolo un fuoruscito di Perugia si pose tosto a gridare: Tu dunque mi priverai per sempre della patria? Così dicendo con un colpo di spada il getta mortalmente ferito a terra: poco dopo spirò.

Per la disfatta di Braccio, che combatteva per Alfonso, il regno di Napoli rimase a Giovanna; ma dopo dieci anni essendo morta, il re Alfonso tentò nuovamente di impadronirsene, e questa volta, dopo essere stato fatto prigione presso Gaeta dal duca Filippo Maria, ed esserne stato poco dopo dal medesimo liberato, ne divenne assoluto padrone vincendo gli Angioini.

Così il regno di Napoli passò alla casa d’Aragona.

Un compagno di Braccio da Montone, quel Giacomo (*)[(*) Leggi: Nicolò] Piccinino, che erasi già molto segnalato nella battaglia di Maclodio, raccolse i soldati qua e là dispersi, e scorgendo impossibile il condurre e buon esito quella guerra, andò ad arruolarsi sotto gli ordini del duca di Milano.

In quel tempo si continuava la guerra tra i Veneziani ed i Milanesi; e mancando ai Veneziani il Carmagnola, che avevano fatto crudelmente decapitare, affidarono il governo delle loro genti ad un certo Bartolomeo Colleoni, già compagno d’armi di Braccio da Montone, che da lui era passato al servizio di un altro generale assai reputato, di nome Giacomo Caldora.

Tutti lodarono in quella guerra la sapienza del Colleoni, il quale, per soccorrere la città di Brescia assediata dai Milanesi, con nuovissimi ordigni fece trasportare le barche dal fiume Adige sulla cima di un monte, facendole poi di là calare con universale ammirazione nel lago di Garda. Ivi le allestì e le armò. Con questa Bottiglia creata all’improvviso costeggia, difende le terre amiche, assicura a Brescia il passaggio de’ viveri; e così la salva dal cadere in mano delle soldatesche del duca di Milano.

Ciò non ostante per lo scarso numero de’ combattenti fu costretto a chiudersi in Verona, donde poté tener fronte a un numero assai maggiore di Milanesi ed a Giacomo Piccinino loro esperto condottiere. Questi, siccome era arditissimo, un bel dì s’inoltrò fra le prime squadre venete, che stavano a guardia delle mura, e colla lancia in mano, altri ammazza, altri pone in fuga, e si apre la strada fin dentro la città. Invano si tenta di pigliarlo, ché egli ben sa col valor suo allontanare ogni nemico. Ma col calarsi d’una cataratta, ovvero di una porta che si chiude dall’alto in basso, gli fu precluso il passaggio, e Piccinino restò in mano dei nemici.

L’ardimento del soldato incognito e la stranezza del caso andarono di bocca in bocca, e lo stesso Colleoni andò sul luogo del fatto. Giacomo Piccinino, conosciuto che ebbe nel Colleoni il generale in capo, invocò la sua magnanimità, perché non dal valore dei soldati, ma dalla sorte era stato preso. «Il tuo ardire, i tuoi fatti, rispose Colleoni, ti fanno degno del mio rispetto; il valor tuo ti merita la mia amicizia. Nessun uomo ti ha vinto, né io oso prenderti. Perciò rimani libero e torna al tuo campo».

Il Piccinino commosso a tanta benignità voleva per gratitudine baciare la mano al Colleoni; ma questi da generoso lo bacia in volto; poi, datagli una spada: «Prendi, gli dice, accetta il premio del tuo coraggio. Uomo meritevole di miglior fortuna, possa tu eseguire imprese che onorino te e l’Italia!». Colleoni fece accompagnare Piccinino fino al campo dei Milanesi; poscia, voltosi ad un ufficiale, esclamò: «Piacesse al Cielo che io avessi mille soldati simili a costui».

Noi dobbiamo, o miei cari, ammirare la virtù del Colleoni, che trattò con tanta generosità un suo nemico sfortunato.

I Milanesi, accortisi che sarebbero tornati inutili tutti i loro sforzi contro i Veneziani, finché non fossero guidati dal Colleoni, gli fecero vantaggiose proposte, ed egli passò al servizio di Filippo Visconti di Milano. Ma per una calunnia impostagli fu messo in prigione, ove languì un anno intero, sempre incerto della sua vita. Intanto, morto il duca, Colleoni fu tosto messo in libertà e fatto generale delle genti Milanesi. Segnalò il suo valore vicino alla città di Alessandria, dove per due volte venne a battaglia, e per due volte sconfisse i nemici. Questo accadde nel 1448.

Narrano alcuni storici, il Colleoni essere stato il primo che sapesse usar bene in campo aperto le artiglierie, le quali erano allora di novella invenzione, e si tenevano solo appostate nelle fortezze. Solamente qualche tempo dopo furono adoperate le colubrine, le spingarde, i moschetti, gli archibugi e le altre armi da fuoco.

Avanzandosi in età, stanco dal lungo guerreggiare, il Colleoni risolse di ritirarsi in un castello vicino a Brescia, per condurre il rimanente de’ suoi giorni nella tranquillità e lontano dal rumore delle armi. Colà per esercizio del corpo camminava due ore ogni mattina, e sebbene vecchio, non dormiva giammai dopo sorto il sole. Il suo vitto era senza paragone frugale, la sua casa sempre aperta ai poverelli, e si compiaceva molto di conversare, con loro. Visse in onorata vecchiaia fino all’età di settantaquattro anni, e morì nel 1475. La città di Bergamo sua patria gli innalzò per monumento una cappella magnifica, la quale ancora oggidì rende gloriosa testimonianza di quel valoroso guerriero.

Non così fortunata fu la fine del suo rivale Giacomo Piccinino. Dopo di aver resi importanti servigi al duca di Milano, egli fu innalzato ai più grandi onori ed ebbe in moglie la figliuola del medesimo duca. Ma egli fu vittima d’un tradimento nel modo che sono per raccontarvi. D’accordo col duca si trasferì a Napoli per assestare col re alcuni affari e conchiudere gli accordi della pace. Vi fu ricevuto come l’eroe d’Italia, e il suo arrivo fu celebrato con una solennità, che durò ventisette giorni: ma il ventesimo ottavo, il re sotto colore di volergli conferire speciali onori il condusse nel suo palazzo, ove lo fece arrestare con suo figliuolo, e poco dopo fu strangolato nella prigione.

Dopo la morte di Giacomo Piccinino avvenuta nel 1465, le sue milizie si disciolsero per non riunirsi mai più. Così ebbe fine la famosa compagnia detta Braccesca, perché in origine era stata ordinata e capitanata da Braccio conte di Montone.

Intorno a questo tempo avvenne la tragica fine della famiglia dei Foscari, di cui spesso vi accadrà di udire ragionare. Come già vi dissi, in Venezia il tribunale dei Dieci aveva concentrato in sé ogni autorità, e talora abusò anche del suo potere. Fra le vittime di questo misterioso tribunale fu la famiglia dei Foscari. Il doge Francesco Foscari dopo aver molto lavorato per la sua patria, ebbe il dolore di vedere l’unico suo figliuolo Giacomo per false accuse due volte torturato, e due volte condannato all’esilio. La seconda volta fu sì crudele la tortura, che appena giunto Giacomo all’isola di Candia in esilio, morì. Poco dopo aver ricevuta la nuova del doloroso infortunio, il padre, essendo già più che ottuagenario, venne deposto dalla sua carica di Doge, dopo averla gloriosamente tenuta per trentaquattro anni. Mentre poi udiva suonare le campane per la elezione di un altro doge, egli provò tale dolore, che cadde svenuto e spirò. Intanto che questi fatti compievansi, i Turchi, di cui sono per parlarvi, avevano obbligato i Veneziani a lunga e pericolosa guerra, ed avevano chiuse molte vie del loro commercio con grave danno di quella repubblica.


XLI.
Caduta di Costantinopoli. - I Turchi in Italia (120).

(Dall’anno 1453 all’anno 1481).

Un nuovo genere di combattere i nemici in guerra e di atterrare le più robuste mura era stato ritrovato mercé l’uso della polvere da fuoco. Un monaco di Magonza, città della Germania, chiamato Roggero Bacone, trovò che questa polvere già in uso presso alcuni popoli era composta di zolfo, di carbone e di salnitro (specie di sale grigiastro che si forma sulle muraglie dei luoghi umidi), e vide che era un combustibile atto a produrre effetti maravigliosi. Erano già scorsi oltre a trecent’anni, da che alcuni popoli facevano uso della polvere, ma solamente sul finire del secolo decimo quarto fu scoperto come una certa quantità di essa rinchiusa in un lungo e stretto tubo di metallo, accesa da una scintilla di fuoco, ne usciva fuori con violenza e con terribile strepito, a segno che poteva scagliare lontano palle di ferro e di pietra di un peso sufficiente per isgominare anche forti mura. A quei tubi di ferro o di bronzo fu dato il nome di cannoni; e tutto il corredo necessario per valersi di quelle macchine micidiali si appellò artiglieria.

L’ingegnosa applicazione della polvere al cannone, o miei cari, è dovuta agli Arabi, i quali unitisi ad altri popoli sotto la condotta di Maometto, fondatore della religione detta Maomettismo, furono poi appellati Turchi. Costoro poco per volta eransi già resi padroni di parecchi regni, e quasi tutto l’antico Romano Impero d’Oriente era caduto nelle loro mani. Ma non potevano avanzarsi verso l’Europa, senza prima impadronirsi di Costantinopoli, quella sì illustre e forte città fondata da Costantino il Grande.

Un principe dei Turchi, chiamato Maometto II, acceso di sdegno perché una città cristiana (i Turchi sono inimicissimi del cristianesimo) sorgesse ancora quasi in mezzo ai suoi Stati, decise di volersene a qualunque costo impadronire. Terribili furono gli apparati; un esercito di trecentomila combattenti, di cui centomila di cavalleria, immense macchine da guerra, straordinario numero di cannoni marciavano contro a Costantinopoli.

Dal canto suo l’imperatore di Costantinopoli, che si chiamava Costantino XII Paleologo, si preparava alla più valida difesa. Quell’imperatore aveva invocato l’aiuto dei principi d’Europa; ma da più secoli l’impero greco viveva nello scisma, cioè separato dalla Chiesa cattolica. È vero che i prelati greci col loro imperatore in un concilio generale radunato nella città di Firenze professarono di volersi tenere uniti al romano Pontefice; ma tornati in Grecia ricaddero quasi tutti negli errori di prima. La qual cosa fu cagione che i cristiani non si mostrarono molto solleciti di andare a soccorrere Costantinopoli.

Tuttavia i Veneziani e più ancora i Genovesi, che erano già stati molto danneggiati dai Turchi, mandarono parecchie galere capitanate da un loro generale di nome Giovanni Giustiniani, che dimostrò il suo coraggio con prodezze degne di miglior esito. O fosse lo sterminato numero de’ Turchi o fosse il picciol numero de’ Greci; fosse il timore, da cui fu sorpreso il Giustiniani, che non ardì più combattere; oppure (come pare più certo) fosse scritto negli immutabili divini decreti, che quell’impero pagasse la pena meritata per tanti misfatti commessi contro la santa religione di Gesù Cristo; il fatto fu, che, dopo cinquantacinque giorni di sanguinosi ed accaniti combattimenti, la vittoria fu pei Turchi. L’imperatore, da mille colpi trafitto, cadde sopra un mucchio di cadaveri da lui uccisi; tutta la città venne in mano de’ Turchi; tutto fu messo a fuoco, a sangue, a strage.

Così nell’anno 1453, duemila centocinquantacinque anni dalla fondazione di Roma (*)[(*) Correggi: 752 + 1453 = 2205], mille cento ventitre dacchè Costantino il Grande vi trasferì la sede dell’impero, regnando un altro Costantino, cadde la città di Costantinopoli. Caduta terribile che trasse quelle coltissime nazioni in tetra barbarie, sicché coloro, i quali non vollero conoscere la legittima autorità del successore di S. Pietro, dovettero sottomettersi alla barbara oppressione e alla dura schiavitù degli infedeli.

Maometto II, fattosi ardito di questi prosperi successi, deliberò di ridurre tutto il cristianesimo alla credenza ed in potere dei Turchi. S’impadronì con facilità della Grecia, della Macedonia, della Dalmazia, e già si avanzava a grandi passi verso l’Italia. Tutti tremavano. Il Papa allora pubblicò una crociata contro a quei nemici del genere umano, e se ne pose egli stesso alla testa, ma giunto in Ancona, cadde infermo e poco dopo morì.

Intanto i Turchi stavano per versarsi in Italia dalla parte del Friuli e della Carniola, provincie poste alla estremità del golfo Adriatico,ove il passo delle Alpi avrebbe spaventato chicchessia, fuorchè Maometto. Egli aveva comunicato il suo furore e la sua ferocia ai suoi compagni d’armi; onde strascinati carri, cavalli e bagagli alla cima delle Alpi, per discendere al piano non vedendo che orridi precipizi, punte di scogli, enormi macigni, senza punto inorridire e tornare indietro, si affrettarono di precipitarsi giù in qualunque maniera. Sospendono i loro cavalli a funi, e dalle cime delle montagne li calano sui primi scaglioni di quell’anfiteatro, e così via via fino al fondo. Colà rimontano in sella precipitandosi ancora giù per tali declivi, a cui i più esperti montanari non possono ascendere se non aggrappandosi ai sassi od ai virgulti.

Alla vista di quell’immensa folla di sterminatori, che parevano piovuti dal cielo, i soldati italiani posti a custodia dei passaggi si diedero alla fuga, e da tutte le parti si mandavano grida di terrore e di desolazione. Tuttavia vi fu un guerriero abbastanza coraggioso da opporsi. a quei feroci assali tori. Certo Carlo da Montone, capitano dei Veneziani, mediante prudenza e coraggio riuscì a metterli in confusione costringendoli a ritirarsi al di là delle Alpi. Ma tutti sapevano che quella fuga sarebbe seguita da nuova invasione, e che sarebbero presto ritornati in maggior numero ad invadere quei paesi, donde erano stati cacciati; sicché ognuno tremava per la incertezza del futuro suo destino.

Il timore era pur anco accresciuto da segni insoliti, che ora qua, ora là si rendevano manifesti, e parevano presagire gran flagello. Uragani terribili e terremoti spaventosi facevansi orribilmente udire. Fra Siena e Firenze neri ed orrendi nugoloni agitati da venti portavano via i tetti delle case, radevano le muraglie, estirpavano i grossi tronchi degli alberi, avvolgendo in aria uomini ed animali. In tutto il regno di Napoli la terra tremò in sì violenta guisa, che buon numero di case e di chiese furono atterrate. Vicino alla città di Rossano la terra si spalancò in voragine profonda, e tosto comparve un vasto lago, dove prima erano verdeggianti campagne. Molte migliaia di persone morirono per quel flagello; se ne contarono trenta mila nella sola città di Napoli.

Intanto Maometto, fortemente irritato della sconfitta ricevuta presso le Alpi, e più ancora della resistenza e della perdita toccata all’assedio di Rodi, deliberò di volersi a qualunque costo impadronire dell’Italia, venire a Roma, cacciare il Papa, e della capitale del cattolicismo fare la sede del maomettismo. Invia un immenso numero di soldati nel mezzodì dell’Italia, e assale la città di Otranto. Assalirla, impadronirsene, mettere tutto a ferro e a fiamme, sbranare, calpestare uomini, donne, vecchi e fanciulli fu cosa di pochi giorni.

Allora la costernazione fu universale; e non vi ebbe più chi ardisse opporsi a sì formidabile nemico. Ciascun pensava di portar seco quanto aveva di più prezioso e andare altrove a cercar salvezza. Lo stesso romano Pontefice voleva prepararsi a fuggire in Francia, quando il Cielo venne in soccorso dell’Italia e della religione, togliendo dal mondo chi era cagione di tanti mali. Mentre Maometto preparava maggior numero di genti per invadere l’Italia da tutte le parti, fu colpito da una terribile cancrena, che in pochi giorni il tolse di vita nel 1481, in età d’anni cinquantatre. Sparsasi la voce della morte di quel feroce conquistatore, le genti sue si ritirarono verso Costantinopoli, e l’Italia fatta libera dal flagello respirò. Da tutte parti si resero a Dio grazie solenni.




XLII.
I Duchi di Urbino. - La Congiura de’ Pazzi (121).

(Dall’anno 1454 all’anno 1492).


Riavutisi gl’Italiani dallo spavento cagionato dall’invasione de’ Turchi, mentre si andavano estinguendo le guerre civili e cresceva ogni dì più l’ardore pel commercio, per l’industria, per le scienze, per le arti e pei mestieri, molti signori si erano innalzati a grande rinomanza per ricchezze e potenza. Nell’Italia centrale meritano singolar menzione i duchi d’Urbino, che si resero illustri specialmente per le opere di uno di essi, chiamato Federico. Egli era valoroso in guerra, liberale in pace. Dopo aver riportate parecchie vittorie, col danaro acquistato adornò la sua patria di chiese, di palazzi e di un’insigne biblioteca. Promoveva le lettere e favoriva i letterati. Affabile con tutti, non isdegnava di trattare familiarmente coi sudditi, i quali soccorreva in qualunque sventura. Fu il primo a portare il titolo di duca di Urbino ricevuto dal Papa.

In mezzo alle opulenze della Toscana vivevano due ricchissime famiglie di mercanti, una detta degli Albizzi, l’altra de’ Medici, le quali si gloriavano di poter impiegare le proprie ricchezze per rendere la loro patria florida e commerciante. Ma le rivalità insorte fra queste due famiglie turbarono gravemente la quiete di Firenze, finché il popolo stanco di quelle interminabili contese scacciò gli Albizzi dalla città, e d’allora in poi i Medici divennero capi della repubblica.

Il primogenito della famiglia de’ Medici si chiamava Cosimo; ed era uomo affabile cogli inferiori, gentile verso gli eguali, generoso con tutti. Sì belle doti d’animo lo resero caro ad ogni classe di cittadini. possessore d’immense facoltà ei non ne faceva uso se non per vantaggio e abbellimento di sua patria. A sue spese costrusse acquedotti e granai per assicurare l’alimento al popolo; innalzò chiese e ospedali pei poveri; fondò una libreria pubblica facendo comperare in molti paesi i manoscritti più rari e più preziosi; accolse con onore tutti i sapienti, pittori, scrittori, architetti e letterati eccellenti in qualsiasi genere, a segno che Firenze giunse a superare nella prosperità e magnificenza tutte le città d’Italia.

Queste belle azioni, senza che Cosimo pretendesse alcuna dignità, lo fecero divenire capo della repubblica; e rifiutando egli il titolo di sovrano, i Fiorentini, di comune accordo, gli conferirono il titolo di Padre della Patria.

Cosimo si trovava sul fine della vita (anno 1464), ed i suoi figliuoli l’avevano tutti preceduto nella tomba, ad eccezione di uno sì gracile e sì infermo, che prometteva brevissimo tempo di vita. Tuttavia la Provvidenza dispose che Pietro (questo era il nome del superstite figliuolo di Cosimo) governasse la repubblica con onore dopo la morte del padre. Gli succedettero nel governo due suoi figliuoli Lorenzo e Giuliano, i quali seguirono l’esempio del padre e dell’avo. Lorenzo poi per le grandi cose che fece per decoro ed ornamento della sua patria fu soprannominato il Magnifico.

Ora, miei cari, dovete sapere che fra le famiglie riguardevoli, che nutrivano in cuore odio e gelosia contro ai Medici, una era quella dei Pazzi, cui Cosimo aveva trattato sempre con riguardi dovuti ad una delle più antiche e più rispettate case della repubblica. Ma il primogenito della famiglia dei Pazzi, chiamato Francesco, era vivamente roso da invidia, perché vedeva la famiglia de’ Medici tenersi il primato; e piuttosto di rimanere in patria, andò ad accasarsi in Roma, ove lo seguì la maggior parte dei suoi parenti.

In quei tempi nulla era tanto ordinario in Italia quanto il vedere odii profondi e scambievoli durare per anni ed anni tra due famiglie e i loro aderenti, e sfogarsi all’improvviso con qualche atto terribile di vendetta e di furore, il che è contrario alla santa legge del Vangelo. Ora udite a quali eccessi l’invidia e la gelosia abbiano condotti i Pazzi. Meditando costoro di rientrare nella loro patria e di opprimere i Medici, indussero parecchi nobili Fiorentini a secondare i loro disegni di vendetta. Fu tramata una congiura, mercé cui era stabilito di entrare di nascosto in Firenze e segnalare il loro ritorno coll’uccisione di tutti quanti i loro nemici. Francesco Pazzi, capo di quella congiura, pensavasi che, quando i Medici fossero stati trucidati, il popolo avrebbe applaudito alla loro morte e fatto lega coi loro uccisori; poiché i ribelli credono e si adoperano sempre di avere il popolo del proprio partito. Ma il popolo non poteva dimenticare i grandi benefizi, che i Medici avevano fatto ai Fiorentini.

I congiurati, fra i quali si trovavano alcuni nobili cui Lorenzo e suo fratello credevano amici, immaginarono sulle prime di tirarli ambedue in qualche casa sotto pretesto di dar loro un banchetto, quindi farli trucidare da uomini posti in agguato; ma i Medici, sospettando forse qualche reo disegno, rifiutarono di recarsi alla festa cui erano invitati. Quella giusta diffidenza, lungi dal distogliere i congiurati dalla colpevole risoluzione, altro non fece che indurii ad accelerarne l’adempimento. Fu tra essi stabilito che quel doppio omicidio dovesse compiersi nella chiesa medesima, ove i Medici si conducevano per ascoltar la Messa; poiché quei tempi erano così sciagurati, che per soddisfare alla passione della vendetta non erano neppure trattenuti dall’idea di uri sacrilegio; e non si esitava di offendere nella medesima sua casa quel Dio, che comanda agli uomini di amarsi scambievolmente come fratelli. Quell’attentato da commettersi dinanzi agli altari parve sì orribile ai medesimi congiurati, che parecchi di essi si rifiutarono di prendervi parte; ma Francesco Pazzi, spinto da odio implacabile contro i Medici, accelera quanto gli è possibile l’esecuzione del misfatto. Il giorno è fissato, l’esecuzione è determinata. In giorno festivo e solenne Lorenzo e Giuliano erano al tempio accompagnati da un grande numero di signori, e la folla degli astanti attendeva con raccoglimento al rito divino; quando nel momento, in cui il campanello dava il segno della elevazione, i congiurati, i quali non aspettavano se non l’istante in cui le loro vittime chinassero il capo per l’adorazione dell’Ostia Santa, si gettarono con violenza sui due principi e trafissero a pugnalate Giuliano, che cadde morto sul fatto.

Lorenzo non aveva ricevuto se non una leggera ferita, la quale gli lasciò campo di sfoderare la spada, di cui si servì con tanto coraggio ed intrepidezza che riuscì a farsi strada fra i suoi aggressori, ed a ritirarsi con alcuni servi fedeli nella sagrestia della chiesa, le cui porte di bronzo tosto chiudendosi lo posero in salvo.

Ma nel tempo che quel principe quasi per prodigio si sottraeva al furore dei Pazzi, gli amici dei Medici spargendosi per tutta la città e correndo alle armi chiamarono tutto il popolo contro gli assalitori, accusandoli di omicidio e di sacrilegio. Il popolo ben lungi dal far causa comune coi congiurati li assalì in folla, e scagliatosi addosso a tutti coloro, che si paravano innanzi, mise a pezzi la maggior parte di quegli infelici.

Lo stesso Francesco Pazzi, principale autore del misfatto, rimasto ferito nella zuffa, venne strappato dal suo letto ed impiccato ad una delle finestre del palazzo dei Medici. Di tutti i congiurati soltanto un piccolo numero poté uscire di Firenze travestito, e rifugiarsi altrove. In questa maniera quei ribelli profanatori del tempio santo pagarono il fio del loro delitto.

Benché quel terribile avvenimento avesse privato Lorenzo di un fratello, esso riuscì tuttavia più favorevole ai Medici che non sarebbero state parecchie vittorie riportate sui loro nemici; poiché d’allora in poi niuno più osò di opporsi alla grandezza di quella casa, la quale pareva essere stata in. quell’incontro protetta dal cielo. Anzi Lorenzo il Magnifico, fatto accorto che solamente l’amore e il ben fare rende affezionati e docili i sudditi, raddoppiò il suo zelo per la felicità e per la gloria dei Fiorentini.

Dopo questo tragico avvenimento Lorenzo esercitò il paterno suo dominio per molti anni a pro della repubblica. Merita speciale menzione la sollecitudine, con cui egli favorì le scienze e le arti, chiamando in quella città i personaggi più dotti e gli artisti più insigni da tutte parti d’Italia. Circondato di continuo da, quegli uomini cospicui per ingegno e per dottrina, egli diede il suo nome alla preziosa libreria, che il suo illustre avolo aveva cominciata, e fondò egli stesso nei suoi giardini di Firenze una scuola di pittura sotto il titolo di accademia, dalla quale uscì poi gran numero di pittori, i quali formano ancora oggidì la gloria dell’Italia.

Fra gli uomini illustri familiari a Lorenzo de’ Medici devo citarvi Gioanni Pico della Mirandola, l’uomo più straordinario che sia mai vissuto al mondo per la varietà delle sue cognizioni, per la vivacità della sua mente e per la sua maravigliosa memoria.

Lorenzo de’ Medici dopo di aver governata la repubblica di Firenze, come un padre governa la propria famiglia, fu tolto all’amore dei suoi concittadini nel 1492.

XLIII
Curiose scoperte e l’Invenzione della stampa (122).
Sebbene la storia del Medio Evo sia ripiena di avvenimenti guerreschi, tuttavia l’accomunarsi di varie nazioni, il comunicarsi a vicenda i prodotti dell’industria e del commercio, furono causa di molte utili scoperte. Di alcune già vi parlai nel corso di questa storia, di altre voglio darvi qui un cenno.

Nel secolo V, S. Paolino, vescovo della città di Noia, introdusse l’uso delle campane. Nel 553 la semenza dei bachi da seta dalle Indie fu trasportata in Europa, la qual cosa mercé le foglie del gelso fu per gl’Italiani sorgente di molte ricchezze.

L’anno medesimo si conobbe l’uso delle penne da scrivere, in luogo di cannuccie, che prima si usavano con grave incomodo.

Circa l’anno 800 un principe maomettano regalò un orologio a ruote all’imperatore Carlomagno; ed un prete veronese, di nome Pacifico, l’introdusse in Italia e lo condusse a molta perfezione.

Nell’anno 990 furono portate in Italia le cifre arabiche, cioè i numeri, di cui ci serviamo presentemente a fare i calcoli.

Nell’anno 1028 un frate di nome Guido, della città di Arezzo, inventò le note della musica, ritrovato che rese assai facile lo studio di questa scienza. Poco dopo furono inventati i mulini a vento; fu conosciuto l’uso del vetro, che venne applicato alle finestre; ed i Veneziani lo usarono a far occhiali e specchi. La carta di cenci, l’uso del carbon fossile furono tutte invenzioni di quel tempo.

Inoltre nel 1280 il monaco Ruggero Bacone scoprì di quali sostanze era composta la polvere da cannone, e poco dopo vennero in uso le bombe ed i mortai.

Nel 1300 un cittadino di Amalfì, chiamato Gioia Flavio, scoprì l’uso della bussola, ossia dell’ago calamitato, mercé cui i marinai possono camminare con sicurezza, qualunque ora del giorno e della notte, e conoscere la direzione che seguono in mezzo alle onde, senza consigliarsi colle stelle, come facevano

gli antichi.

Ma niuna invenzione fu così meravigliosa e nel tempo stesso tanto utile quanto la stampa. Prima del secolo decimoquinto tutti i libri erano scritti a mano, e potete facilmente immaginarvi quanta fatica e quanto tempo si dovesse spendere quando si dovevano fare più copie di qualche grosso volume (*).


[ (*) Anche in Piemonte assai per tempo s’introdusse la stampa. La tradizione e la storia conservarono memoria di alcune delle più celebri tipografie Subalpine. Fra molte vogliamo accennare quella che esiste da tempi antichissimi e continua oggidì nella città di Mondovì, sotto al nome di Tipografia di Pietro Rossi.

La stampa era in questa città con buon successo coltivata fin da’ suoi primordi, e nell’anno 1472 già si vedevano uomini rispettabilissimi della città occupati a farla progredire. Nel 1562 un certo Lorenzo Correntino, uomo assai in quest’arte perito la coltivò con zelo fino al 1599 in cui succedevagli un Enrico Rossi, antecessore della famiglia di questo nome. Egli la fece vieppiù progredire e dIlatare. Vi si dedicarono eziandio con eguale impegno, intelligenza e sempre crescente riuscita i figli e nipoti d’Enrico, cosicché pel corso di due secoli e mezzo la conservarono, e a’ giorni nostri tuttora con amore e perizia la coltivano. (Nota inserita nella sola V ediz., 1866)].


Già da più di cent’anni erasi trovato il modo d’improntare sul cartone (specie di carta grossa) l’immagine di figure rozzamente scolpite in legno, e per lo più rappresentanti l’effigie di santi o di sante. Il più delle volte queste immagini erano accompagnate da alcune linee di spiegazione, le cui parole trovavansi intagliate nel medesimo pezzo di legno, a fine di risparmiare la fatica di scriverle in fondo a ciascuna.

Primo ad usare caratteri mobili nella stampa fu un dotto italiano della città di Feltre, per nome Panfilo Castaldi. Ma quei caratteri erano di legno.

Un certo Giovanni Guttemberg di Magonza fu colui che concepì l’ingegnosa idea di formare caratteri mobili di piombo fuso, simili a quelli intagliati nel legno, in guisa che si potessero disporre a volontà secondo il bisogno, e che anneriti con inchiostro assai denso riproducessero esattamente sulla carta le lettere dell’alfabeto da essi caratteri rappresentate.

Tale fu, miei cari, l’origine della tipografia, di quell’arte preziosa, per cui formandosi lettere con piombo fuso e con un’altra sostanza detta antimonio, e con esse componendosi parole e queste sottoponendosi alla pressione del torchio si formano stampe e libri. L’utilità di tale invenzione è grandissima, perché oggidì due operai fanno in un giorno maggior lavoro che non farebbero trenta mila scrittori nel medesimo tempo. Lo stesso stampato si legge assai più comodamente, che il manoscritto: e di più quel libro, che oggidì può comprarsi con cinquanta centesimi, prima della stampa costava oltre cinquanta franchi. In pochi anni l’invenzione di Guttemberg (a cui si associarono tosto due compagni Furst e Scheffer) si propagò in tutta l’Europa: Roma, Venezia, Parigi ebbero i loro tipografi. Così per mezzo della stampa i manoscritti degli antichi Greci, dei Latini e dei dotti d’ogni nazione, i quali fino allora erano stati riserbati ai soli dotti e ai soli ricchi, possono con poca spesa andare nelle mani di chiunque voglia erudirsi (*).


[(*) L’arte tipografica si diffuse in breve tempo presso tutte le nazioni d’Europa. Le prime stampe in Italia furono come segue: 1465 in Subiaco; 1467 in Roma; 1469 in Venezia e in Milano; 1470 in Verona, Foligno, Pinerolo e Brescia; nel 1471 in Bologna, Ferrara, Pavia, Firenze, Napoli e Savigliano, 1472 in Mantova, Parma, Padova, Mondovì, lesi, Fivizzano e Cremona; 1473 in Messina; 1474 in Torino, Genova, Corno e Savona; 1475 in Modena, Piacenza, Cagli, Casole, Perugia, Pieve di Sacco e Reggio di Calabria; 1476 in Pogliano e Udine (primo libro greco a Milano); 1477 in Ascoli, e Palermo; 1478 in Cosenza e Colle; 1479 in Tusculano, Saluzzo e Novi; 1480 in Cividale, Nonantola e Reggio di Emilia; 1481 in Urbino; 1482 in Aquila e Pisa; 1484 in Soncino, Bologna, Siena e Rimini; 1485 in Pescia; 1486 in Chivasso, Voghera e Casalmaggiore; 1487 in Gaeta; 1488 in Viterbo; 1489 in Portese; 1495 in Scandiano; 1496 in Barco; 1497 in Carmagnola ed Alba (a)].

Intanto noi, miei buoni amici, siamo giunti alla fine della storia del Medio Evo. Tre gravi avvenimenti compierono questa importantissima epoca. La scoperta della stampa che fu nel 1438; la presa di Costantinopoli fatta da Maometto II nel 1453, con cui finì l’ultimo avanzo dell’antico Romano Impero. Finalmente la scoperta dell’America per opera di Cristoforo Colombo nel 1492. E poiché gli avvenimenti che seguono hanno, per così dire, cagionato un rinnovamento universale, che dura tuttora ai tempi nostri, perciò soglionsi appellare Storia Moderna.




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