S giovanni bosco


XXXIV. Il Decamerone del Boccaccio e l’Incoronazione del Petrarca



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XXXIV.
Il Decamerone del Boccaccio e l’Incoronazione del Petrarca (113).

(Dall’anno 1340 all’anno 1374).


Vi ho già raccontato, o giovani, come Dante Alighieri fu il padre della lingua italiana, specialmente per l’opera intitolata la Divina Commedia. Ora spero di farvi cosa grata col narrarvi le principali azioni di due altri letterati, che si possono altresì considerare come due padri della nostra italiana favella; i loro nomi sono Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca.

Boccaccio nacque a Parigi nel 1313 da padre fiorentino, che esercitava la professione di mercante, e si applicò nella sua fanciullezza agli elementi grammaticali della lingua latina. Già in quelle prime scuole per la molta assiduità allo studio prometteva di farsi un grand’uomo.

Egli aveva ventitre anni, e viaggiava per cose di traffico, quando capitato a Napoli andò a visitare la tomba di un illustre poeta latino Virgilio, ove si sentì ardere di vivo desiderio di coltivare la poesia. Allora il padre acconsentì che egli si dedicasse totalmente allo studio; e Giovanni, dopo di aver imparato la legale e la filosofia, si pose a studiare la lingua greca in Firenze. Sin dalla sua giovinezza aveva atteso alla poesia, e sperava di ottenere il secondo posto fra i poeti, non permettendogli la sua ammirazione per Dante di poterlo superare; ma tosto che conobbe le poesie italiane di Francesco Petrarca, suo amico, perdette ogni speranza di potersi acquistar gloria colla poesia, e diede alle fiamme la maggior parte dei versi che aveva composto. Intanto per la sua erudizione e al sua destrezza nel maneggio di grandi affari meritò la carica di ambasciatore della repubblica Fiorentina presso a molte corti d’Europa; ma l’ufficio che gli andò più a sangue fu quello di spiegare alla gioventù la Divina Commedia di Dante.

Mentre viveva il Boccaccio, e precisamente nell’anno 1348, prese ad infierire una terribile peste in tutta l’Italia, e segnatamente nella città di Firenze. I cittadini morivano in grande quantità, e molti si davano alla fuga per evitare la malattia contagiosa. Ciò non di meno si videro in quella occasione bellissimi esempi di coraggio e di cristiana carità; poiché parecchi uomini virtuosi si esposero al rischio di essere vittime di quel morbo attaccaticcio, per assistere e soccorrere i poveri ammalati, a far seppellire i morti, e per impedire la diffusione del male.

Il Boccaccio si servì di questa pestilenza per supporre che dieci giovani persone volendo schivare il morbo e darsi sollazzo, si erano da Firenze ritirate in un’amena villa, dove ciascuno narrava ogni dì una piacevole novella. Così le novelle raccontate ascendevano a dieci per giorno; e siccome la brigata passò dieci giorni in quella villa, perciò egli intitolò il suo libro Decamerone, parola greca, che significa dieci giornate. Questo libro acquistò meritamente grande fama all’autore, come testo di lingua italiana; ma purtroppo contiene molte sconcezze, per le quali fu proibito dalla Chiesa, giacché per imparare la purità di lingua non si dee perdere la purità del cuore. Lo stesso Boccaccio si pentì di averlo composto e voleva annullarlo; ma troppe copie già se n’erano fatte. Pieno di rincrescimento pel male che avrebbero fatto i suoi scritti, deliberò di abbandonare lo studio ed il mondo per andare a menar il rimanente della vita nella solitudine e nel dolore.

Il Petrarca, suo amico, ricevuta la lettera che comunicavagli quel divisamento, lo consigliò di cangiar proposito, suggerendogli di riparare altrimenti il mal fatto. Fra le altre cose il Petrarca gli scrisse queste parole: «Tu sei prossimo alla morte: lascia adunque le ciance della terra e le reliquie dei piaceri, e la pessima tua maniera di vivere. Componi a migliore specchio i costumi e l’animo, cangia le inutili novelle colle vere storie e colla legge di Dio; e quella pianta dei vizi sempre crescente, da cui finora a mala pena toglievi i rami, ora sia interamente troncata e strappata fin dalle radici».

Il Boccaccio seguì questo consiglio, e finché visse si studiò di riparare lo scandalo dato dettando buoni scritti, e raccomandando a tutti di non leggere il suo Decamerone. Egli morì nel 1375. Dall’intero libro del Decamerone fu trascelto un ragguardevole numero di novelle, che non offendono la modestia, e queste si possono leggere dai giovani studiosi.

Amico di Boccaccio era Francesco Petrarca, nato in Arezzo di Toscana. Mediante uno studio indefesso venne ad essere annoverato tra i primi genii dell’Italia fin dall’età giovanile.

Si rese celebre nella filosofia, nella teologia e nella letteratura; ma la maggior lode gli fu procacciata dalla poesia. Di mano in mano che scriveva dei versi, venivano trascritti e cantati nelle corti d’Italia e di Francia; perciò i Papi, i prìncipi, i re lo invitavano alle loro reggie e lo ammettevano alle feste e alle mense.

Divulgatasi la fama del suo grande ingegno, molti illustri personaggi Italiani stabilirono di dargli un attestato pubblico di stima, offrendogli di incoronarlo in Roma con un serto di alloro. Anche l’università di Parigi desiderava conferirgli cotesto onore; ma sul consiglio del cardinale Giovanni Colonna egli preferì Roma a Parigi. L’incoronazione di alloro era la più grande dimostrazione di stima e di onore che si potesse dare ad un uomo, e corrispondeva quasi al trionfo degli antichi Romani. lo voglio darvi un cenno sopra questa solenne cerimonia.

Prima che un poeta fosse incoronato, gli scritti di lui dovevano essere da persone intelligenti formalmente esaminati per giudicare se ne era degno. A questo fine il Petrarca fu spedito a Roberto re di Napoli, riputato il più dotto del suo tempo, e gran protettore dei coltivatori delle scienze. Quel principe, dopo di aver esaminato e considerato i dottissimi discorsi di lui in ogni parte di letteratura e di scienza, ne fu tanto maravigliato, che voleva egli stesso incoronarlo a Napoli. Ma il Petrarca amò meglio cingere l’alloro in quella Roma, in cui erano entrati in trionfo gli eroi dell’Italia antica. Il re peraltro gli volle donare una veste ricchissima acciocché se la ponesse il giorno della sua incoronazione.

Nel giorno di Pasqua dell’anno 1341 le persone deputate ad eseguire quella gloriosa cerimonia si recarono al palazzo ove dimorava il Petrarca. Inchinatolo rispettosamente, gli misero in dosso la veste donatagli dal re Roberto, la quale era di velluto, tempestata di pietre preziose; in capo una mitra d’oro; al collo una catena con appesa una lira, strumento musicale; nei piedi i coturni, calzatura dei tragici antichi; e gli posero molti altri ornamenti bizzarri, ma che avevano qualche onorevole significato.

Quando il poeta fu così vestito, venne accompagnato in mezzo ad una piazza affollata di spettatori, ove stava apparecchiato un carro con intorno un finissimo drappo d’oro. Salito il Petrarca sopra il carro, cominciò la mossa trionfale. Al carro precedevano varie persone vestite ed atteggiate in modo da rappresentare varie virtù. Prima precedeva la Fatica, specie di divinità; poi veniva la Pazienza, avanti camminavano la Povertà e la Derisione, che tentavano invano di salire sul carro: seguiva torva e pallida l’Invidia; due cori, uno di voci e l’altro di strumenti, facevano echeggiare l’aria di armoniosi concenti; quando le sinfonie suonavano, alcuni giovanetti con voci argentine cantavano versi in lode del Petrarca.

Le strade per cui passava il poeta erano sparse di fiori; le chiese per onorarlo stavano aperte, e dalle finestre di tutte le case si gittavano rose, gelsomini, gigli al trionfatore. Giunto al Campidoglio in mezzo agli applausi di un immenso popolo, entrò nella sala di giustizia, dove disse una bella orazione, nella quale, secondo il costume, chiedeva l’alloro. Non appena finì di parlare, che gli furono consentite tre corone, una di alloro, l’altra di edera, la terza di mirto. Allora il Petrarca esclamò: Iddio conservi il popolo Romano, il Senato e la libertà! Poi inginocchiatosi avanti al senatore Orsini, da lui ricevette la corona fra le grida ripetute di viva il Petrarca! Ebbe ancora preziosi doni, tra i quali il diploma di cittadino Romano.

Risalito poscia sul carro, andò al tempio di san Pietro in Vaticano, dove smontato assistette ai Vespri, che per lui si cantarono solennemente. Qui depose sopra l’altare il suo alloro, che divenne ornamento di quel tempio; e quindi tornò a casa Colonna, ove era apparecchiata una lauta cena.

Tuttavia in mezzo a tanta gloria il Petrarca era sempre afflittissimo e pei mali cui andava soggetta la sua patria, e perché i Papi erano tuttora costretti a dimorare nella città di Avignone, siccome vi ho raccontato. Divenuto vecchio, si ritirò in Arquà vicino a Padova. Ivi il mattino del 19 luglio dell’anno 1374 stava seduto tra i suoi libri, svolgendo colla mano i fogli del poeta Virgilio, quando inchinato il capo su quelle carte spirò. In Arquà si vede il suo sepolcro e conservasi tuttora la sua casa. In Firenze gli fu innalzata una statua di marmo.




XXXV.
Il ritorno dei Papi a Roma (114).

(Dall’anno 1367 all’anno 1377).


Erano ben sessant’anni che i Papi sedevano in Avignone, a ciò costretti da molti segni di stima e di venerazione loro usati dai re di Francia. Ma il pontefice Urbano V desiderava ardentemente di ristabilire in Roma la residenza dei sommi Pontefici, desiderio vivamente dimostrato da tutto il cristianesimo. Molti personaggi, chiarissimi per virtù e santità, facevano vive istanze per questo sospirato ritorno. Santa Caterina da Siena si recò in Avignone a bella posta per animare il Pontefice a far ritorno in Roma. Lo stesso Petrarca scrisse eziandio una bellissima lettera, della quale perché piena di sublimi e cristiani sentimenti, io stimo bene di porvi alcuni tratti sott’occhio.

«Considerate, egli diceva al Papa, che la Chiesa di Roma è vostra sposa. Taluno potrà dire che la sposa del romano Pontefice è la Chiesa universale, non già una sola e particolare. Questo io ben so, santissimo Padre, e a Dio non piaccia, che io restringa la vostra autorità; anzi vorrei piuttosto dilatarla, se fosse possibile, e godo nel sapere che essa non ha alcun confine; ma benché la vostra sede sia per tutto ove Gesù Cristo ha degli adoratori, Roma ha con voi particolari legami: siccome ciascuna delle altre città possiede il suo vescovo, così voi siete il vescovo della regina di tutte le città. Vi tomi a mente, o santo Padre, l’ingiuria che i masnadieri fecero poco fa al luogo dove voi abitate, ed alla vostra sacra persona. L’Italia offrì mai l’esempio di enormità e delitti cotali?».

Espone quindi il Petrarca molti mali dai Pontefici sofferti in Avignone, poi continua così: «Non è dunque ormai tempo di rasciugare le lacrime della sposa di Gesù Cristo, e di farle dimenticare i suoi patimenti con un pronto ed amorevole ritorno? Voi, supremo Pastore e Vescovo della Chiesa universale, voi la terra, il mare e il mondo intero altamente sospirano, ed invocano le vostre cure e la vostra tutela. In fine della vita, quando voi apparirete innanzi al tribunale di Gesù Cristo, che risponderete al principe degli Apostoli, quando dimanderà a voi donde venite? Considerate se in quel momento vi piacerebbe scontrarvi nei vostri Provenzali, o negli apostoli Pietro e Paolo! Oh Iddio concedesse che in questa medesima notte che io vi scrivo (era la vigilia di S. Pietro) foste presente ai divini uffizi nella Basilica del santo Apostolo, di cui tenete il seggio! Quale dolcezza non sarebbe per noi! Quali momenti a voi deliziosi! Non mai di simili ve ne procurerà il vostro soggiorno in Avignone; perocchè non il godimento dei sensibili diletti, ma l’unzione della pietà conduce alla suprema letizia».

Urbano, mosso da questi motivi e dai caldi inviti degli Italiani, d’altro canto temendo che sopravvenissero altri ostacoli per arrestarlo, si affrettò di effettuare la partenza per Roma. Il giorno ultimo di aprile 1367 si partì da Avignone, e si recò a Marsiglia. Colà stavano apparecchiate ventitre galere con molti navigli spediti dalla regina di Sicilia, dalle repubbliche di Venezia, di Genova e di Pisa per condurre con sicurezza il Capo della Chiesa e fargli onore. Salito il Papa sopra una galera veneziana, furono tolte le ancore; e il vento secondando l’ardore del Pontefice, in poche ore si perderono di vista i lidi della Francia.

Giunto in Italia, fin dal primo momento che sbarcò a terra, tutti i personaggi più illustri e costituiti in qualche dignità corsero a fargli omaggio; e i deputati di Roma andarono a consegnarlgi la intera signoria della loro città colle chiavi della fortezza di Castel sant’Angelo, che sino allora avevano conservate. Si fermò quattro mesi in Viterbo per ricevere le dimostrazioni più solenni del rispetto, della gratitudine e dell’allegrezza di tutta Italia.

Finalmente fece il suo ingresso nella città, accompagnato da due mila cavalieri, in mezzo al clero e al popolo romano, che gli erano venuti incontro, e che lo accolsero con solennità e trasporti tali di gioia, che niuno ricordava esserne stato esempio.

Alcuni anni dopo Urbano V con animo di sedare una guerra insorta tra i Francesi e gli Inglesi, si recò nuovamente in Avignone, dove appena giunto, nell’universale rincrescimento finì di vivere nel 1370. Ma il suo successore Gregorio XI ritornò a stabilire la sua sede in Roma nel 1377; e d’allora in poi Roma non è più stata senza Papa.

Gregorio fece il suo ingresso a cavallo, e attraversò la città di Roma in compagnia di tredici cardinali, seguito da un popolo innumerabile, che non sapeva come esprimere la sua allegrezza. Solamente a sera giunse nella chiesa di S. Pietro, al cui ingresso era aspettato con immenso numero di fiaccole, e dentro cui si erano accese ben più di ottomila lampade (*).

[(*) HENRION, lib. 45 (a)].

Voi intanto, o miei amici, ritenete ben a memoria questo grande avvenimento, e notate che quando i disordini e le discordie costringono il romano Pontefice ad allontanarsi da Roma sono a temersi gravi mali per l’Italia e per la religione.




XXXVI.
Marino Faliero e Vittor Pisani (115)

(Dall’anno 1354 all’anno 1380).


Venezia, miei cari amici, contava nove secoli di gloriosa esistenza. La sua industria, la sua attività, la sua favorevole posizione, il suo commercio, i suoi dogi la fecero da tutti amare e rispettare come regina dell’Adriatico. Ma gli avvenimenti che, dopo le gloriose gesta del doge Dandolo, fecero parlare assai dei Veneziani nella storia, furono quelli di Marino Faliero e di Vittor Pisani. Marino Faliero era un uomo violento e superbo, che pel suo ingegno e pel valore riuscì a farsi proclamare doge nel 1354. Offeso gravemente dal patrizio Michele Steno, ne domandò soddisfazione al Consiglio dei Dieci, che lo sottopose a molte umiliazioni, tra cui la condanna ad essere battuto con code di volpi e ad un anno di esilio. Il castigo non bastava all’irritato Faliero; che per vendicarsi ordì una cospirazione collegandosi coll’audace scultore Filippo Calendaro e con Bertuccio Israeli, ammiraglio dell’arsenale, cioè capo degli operai. La trama fu condotta segretissimamente. Ogni cosa era pronta, e non mancava che un solo dì alla sollevazione, in cui tutti i nobili dovevano essere trucidati, quando uno de’ congiurati svelò tutto al Consiglio. Di tratto questi sono presi: messi alla tortura, confessano il loro misfatto e palesano essere il Doge loro capo. Marino Faliero, tradotto innanzi ai Dieci, non poté negare, e fu condannato a morte. Nel palazzo ducale, e precisamente là, ove i dogi prestavano il giuramento, gli venne dal carnefice mozza la testa (17 aprile 1355).

I suoi complici furono mandati al patibolo. Il Consiglio ordinò ancora, che, a monizione di tutti i cittadini, il ritratto del Faliero, messo fra quelli degli altri dogi, fosse coperto di un velo nero, e una iscrizione postavi sotto ricordasse il delitto commesso e la pena meritata.

Rivale di Venezia era la Repubblica di Genova, che era considerata come la padrona del Mediterraneo. L’invidia e la rivalità di queste due repubbliche giunse ad un odio implacabile. Già eransi mosse tre funeste guerre, di cui la più accanita fu quella del 1378.

Vittor Pisani, ammiraglio veneto, valoroso guerriero, ottimo cittadino, avea più volte menato per mare i Veneziani alla vittoria. Vincitore al promontorio d’Anzio e Traù in Dalmazia, non giungendo a tempo debito le paghe dei soldati, impedì se ne rifacessero col saccheggio, e distribuì loro giorno per giorno il suo danaro, poi gli argenti da tavola, finalmente Una fibbia, che gli restava alla cintura.

Ai cinque di maggio 1379, trovandosi egli sovra il porto di Pola con ventidue galee e tre grosse navi da carico, fu sorpreso dall’armata Genovese, forte di altrettante vele e comandata da Luciano Doria. Ne seguì una mischia sanguinosissima, che durò un’ora e mezzo. I Veneziani, già indeboliti da malattie e da tempeste, furono sconfitti, e perdettero quindici galere, le tre navi con seimila emine di grano, duemila quattrocento prigioni e circa ottocento morti. I Genovesi ebbero a deplorare la perdita di Luciano Doria, trafitto in bocca da una lancia nel caldo della mischia. Vittor Pisani, dopo prodigi di valore, riuscì a fuggir loro di mano con sette galee, quantunque assai malconcie.

Il Consiglio, che prima dava al Pisani taccia di vile, perché, conoscendo la debolezza delle proprie forze, non accettava battaglia, quando combatté e fu vinto, lo disse traditore, richiamollo in patria, e lo fe’ chiudere in orrida prigione. I Genovesi al contrario, incoraggiati dalla vittoria, accolsero con gioia Pietro Doria loro novello ammiraglio, e sciogliendo le vele gridavano: A Venezia! A Venezia! Difatto, ricuperate in breve le piazze di Dalmazia, assalirono le colonie di Rovigno, Umago, Grado e Caorle, di poi si recarono arditamente a tentare l’ultimo colpo sopra Venezia.

A tale effetto in agosto del 1379 con numerosissima squadra navale investirono Chioggia, la espugnarono con l’uccisione di seimila cittadini, e ne catturarono quattromila; posero il quartier generale sur una punta dell’isola di Malamocco, e circondarono strettamente la città nemica. Sfornita di vettovaglie, di navi, di marinai, di danaro, questa non si era mai trovata in più grande pericolo; onde, confusa, scorata, mandò ambasciatori al Doria, chiedendo pace; ma egh superbamente rispose: «Non ascolterò patti, fin che non abbia messo il freno ai cavalli di S. Marco».

Quest’arrogante risposta scosse i Veneziani, e memori di colui che tante volte li aveva condotti alla vittoria, corsero tumultuariamente alla sua prigione gridando: Viva Vittor Pisani! Quel prode, udendo da’ sotterranei del palazzo ducale migliaia di voci acclamare al suo nome, trascinossi alla ferriata: Fermatevi, Veneziani! esclamò, voi non dovete gridar altro che Viva San Marco! Era il grido della repubblica, con cui solevasi invocare la protezione di quel santo nelle pubbliche calamità e specialmente in tempo di guerra.

La invidia tace quando l’ambizione è in pericolo. Il Pisani, rifatto ammiraglio, respinge i consigli di chi lo stimola a insignorirsi della ingrata patria. Va in Chiesa e nel ricevere l’Ostia santa giura che non terrà conto a’ suoi emuli della sofferta persecuzione; munisce l’argine di Malamocco, e invita tutti a concorrere alla salvezza della patria. Allora si vedono sforzi stupendi: nobili e plebei si fanno guerrieri; il Doge settuagenario monta sui legni coi principali pregadi o senatori. Tutti offrono il più ed il meglio delle loro sostanze. Il Pisani frenò il primo impeto fin che avesse esercitate le inesperte sue genti, mentre attendeva di Grecia il naviglio di Carlo Zeno. Poi, unitosi con questo, non solo rompe l’assedio a Venezia, ma sbaraglia e blocca l’armata Genovese nel porto di Chioggia. Le bombarde, forse la prima volta adoperate in mare, spingeano palle di pietra di cento cinquanta in dugento libbre, ed agivano terribili contro ai ripari. Si fecero prodigi di valore da ambe le parti. Lo stesso Pietro Doria rimase sfracellato sotto la rovina di un muro. Finalmente i Genovesi, dopo sei mesi di assedio, dovettero arrendersi a discrezione (21 giugno 1380).

Intorno a quel tempo le repubbliche di Genova e di Venezia cominciarono le loro politiche relazioni coi Conti di Savoia, la cui origine noi qui brevemente esporremo.




XXXVII.
Conti di Savoia (116).

(Dall’anno 1040 all’anno 1340).


Una lunga successione di uomini illustri, che ebbero grande parte negli avvenimenti d’Italia, certamente è quella dei prìncipi di Savoia, ed io giudico di farvi cosa utile e piacevole, esponendo il principio ed il progresso di questi nostri amati monarchi da cui siamo governati da oltre ottocent’anni.

Se fissate lo sguardo sopra una carta geografica, vedrete una parte dell’antica Gallia meridionale stendersi lungo il fiume Rodano e l’Isère fino al lago Lemano, vicino alla città di Ginevra. Questo tratto di paese, che oggidì si appella Savoia, anticamente era abitato da popoli conosciuti sotto al nome di Allobrogi.

Questo paese servì sempre di passaggio tra l’Italia e la Gallia; alla caduta del Romano Impero in Occidente, quando uno sciame di barbari invase l’Italia e la Gallia, una parte di costoro cacciarono gli Allobrogi dalle loro sedi, si diedero a fondarvi grande numero di borghi, e furono perciò detti Borgognoni, vale a dire abitatori dei borghi.

Nel secolo nono la Savoia essendo stata conquistata da Rodolfo, re di Borgogna, passò a far parte di quel regno, al quale per altre posteriori conquiste fu poi aggregata anche la Valle d’Aosta. Ma lo scettro della Borgogna essendo nell’anno 993 venuto in mano di altro Rodolfo, soprannominato l’Ignavo, perché imbecille ed incapace di governare, ed essendo egli morto senza prole, quel vasto regno fu smembrato in molte parti. Così, dopo la morte di Rodolfo, i conti, che a nome del re e con diritto ereditario ne avevano governate le varie provincie, si costituirono padroni indipendenti.

Fra questi era Umberto, detto Biancamano, il quale era conte della Svizzera vicino al lago Lemano, ed inoltre della Savoia, e della Valle d’Aosta; anch’egli allora cominciò ad esercitare una signoria sovrana su questi Stati, che già governava come cosa ereditaria. Questo è il più certo stipite della real casa di Savoia.

Ad Umberto succedette Amedeo I, suo figliuolo primogenito; e morto questo senza prole, lo Stato venne in mano di suo fratello Oddone. Questi, avendo menato in moglie Adelaide, signora di Susa e di Torino, cominciò ad estendere il suo Stato oltre le Alpi in Italia. E perché allora Oddone ebbe il titolo di marchese gioverà qui dichiarare nuovamente il valore di questo vocabolo. Le provincie situate ai confini d’un regno, come già vi dissi chiamavansi Marche, ed il conte, che le governava e le difendeva dalle straniere invasioni, aveva il titolo di marchese. Ma col progresso del tempo ogni signore, che esercitasse dominio sopra molte contee, prendeva questo titolo, sebbene il suo Stato fosse distante dalle frontiere. La valle di Susa anticamente era una vera Marca, perché posta ai confini d’Italia, e quindi il conte era veramente un marchese; ma pel matrimonio di Adelaide con Oddone la Marca di Susa essendosi aggregata alla Savoia, il titolo di marchese passò nei conti di Savoia, eziandio dopo che il paese cessò di essere una Marca.

S. Pier Damiano, che a quei tempi era venuto in Torino come legato del Papa, nelle sue lettere ci conservò memorie della pietà di Adelaide, e singolarmente si compiacque di registrare le seguenti parole di mirabile umiltà, che udì dalla bocca della marchesa: Che maraviglia, o Padre, che Iddio a me, sua vilissima ancella, abbia dato una qualunque podestà fra gli uomini; egli, che in uno spregevole fil d’erba ripone spesso miracolosa virtù? La pietà di Adelaide è altresì confermata dalle molte liberalità che andava facendo alle chiese. In Pinerolo essa fondò e dotò il monastero di S. Maria, chiamandovi i padri Benedettini: alla chiesa vescovile d’Asti cedette molte castella; e le chiese di Torino, di Susa, di Caramagna, di Revello ed altre provarono gli effetti della sua pia munificenza. Rimasta vedova per tempo, ebbe cura dei suoi figliuoli Pietro I ed Amedeo II, i quali regnarono uno dopo l’altro ed ambedue morirono prima della madre, talché gli Stati passarono ad Umberto II, detto il Rinforzato, figlio di Amedeo II.

Aveva Umberto II divisato di accompagnare i Crociati nella conquista della Terra Santa; ma ne fu impedito da varie minute guerre, che ebbe a sostenere per difendere il retaggio paterno. S. Anselmo, nativo di Aosta ed arcivescovo di Cantorberì, indirizzò ad Umberto una lettera, nella quale, dopo di aver lodato l’ereditaria sua divozione, lo prega di non darsi a credere, che le chiese del suo principato gli fossero date in ereditario dominio, ma bensì in ereditaria riverenza e protezione.

Ad Umberto il Rinforzato, morto nel 1103, succedeva Amedeo III, in età ancor fanciullesca, sotto la tutela di sua madre. Ad esempio di molti prìncipi di quel secolo, prese anch’egli la croce, per andare alla conquista dei Luoghi Santi, ricaduti in potere dei Turchi. Già vi notai altrove l’esito infelice di questa seconda Crociata, la quale e per la perfidia dei Greci, e per la mala condotta di alcuni crociati rese inutili tutti gli sforzi dei Latini. Per ciò che riguarda ad Amedeo, vi dirò come, dopo vani tentativi, obbligato a tornarsene in patria, salì sopra una nave; ma giunto in Cipro fu sorpreso da grave morbo, che lo tolse di vita nella città di Nicosia, capitale di quell’isola.

Tra le belle opere di questo principe merita di essere menzionata la fondazione della badia di Altacomba sul lago di Bourget, che egli donò al celebre abate di Chiaravalle, S. Bernardo: e che per molto tempo raccolse poi sotto le sue vòlte le reliquie dei duchi di Savoia.

Più luminoso fu il regno di Umberto III, detto il Santo per le virtù cristiane che in modo eroico praticò in tutto il corso della sua vita. Egli visse ai tempi calamitosi (dal 1146 al 1188) dell’imperatore Barbarossa. Quest’oppressore degl’Italiani pose anche in conquasso gli Stati di Umberto. Nell’occasione che Federico fu costretto a fuggire dall’Italia, Umberto avrebbe potuto di leggieri vendicarsi dei danni ricevuti; ma egli, essendo di cuor buono, trattò troppo umanamente questo comun nemico, e gli concedette il passaggio sulle sue terre; ma il perfido Federico, ritornato qualche tempo dopo in Italia con numeroso esercito, mise a ferro e a fuoco il castello di Susa. Tuttavia Umberto, mercé la sua fermezza ed il suo coraggio, riuscì di nuovo a riavere quelle città e quelle terre, che l’avido imperatore gli aveva tolte. Nella storia fu sempre qualificato col nome di Santo, e nel 1838 il suo culto venne solennemente approvato dal sommo Pontefice.

Mentre le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, come di sopra fu detto, si facevano guerre sanguinose, la potenza dei Conti di Savoia si andava consolidando; e Tommaso I (1188-1233), per dare al suo Stato una capitale degna di un principe, fece abbellire e fortificare la città di Ciamberì, la quale prima era un piccolo borgo.

Amedeo IV gli succedette (1233-1253), e dopo vent’anni di avventuroso regno morì, lasciandovi erede suo figliuolo Bonifacio in età di otto anni circa. Tommaso suo zio prese a reggere lo Stato. La città di Asti allora reggevasi in modo indipendente, e a simile governo aspirava anche Torino, sebbene suddita dei Conti di Savoia. Fra questi e la città di Asti si era a quel tempo accesa la guerra, e gli Astigiani erano con tutte le loro forze venuti presso Moncalieri, dove sconfissero i Chieresi alleati del conte e quindi inoltravansi verso Torino, nella quale avevano partigiani. Tommaso andò ad incontrarli; ma rimasto sconfitto si salvò dentro quella città, dove il partito favorevole agli Astigiani lo prese e rinchiuse in carcere. Di cotale tradimento essendosi risentiti vari sovrani d’Europa, e massimamente il Papa Alessandro IV, ne ottennero la liberazione; ma egli poco stante morì nel 1259. Allora la tutela di Bonifacio passò a due altri suoi zii sino alla morte dello stesso Bonifacio, avvenuta nel 1263.

Venne allora lo Stato nelle mani dello zio Pietro, soprannominato il piccolo Carlomagno pel suo valore nelle armi e per la sua prudenza nel governo dello Stato. Le sue conquiste furono specialmente nella Savoia e nella Svizzera. Mentre la maggior parte delle città e delle terre poste al di qua delle. Alpi erano possedute dai suoi cugini per divisioni ereditarie, ovvero invase dagli Astigiani, parecchie città eransi eziandio ribellate; molte altre però, e principalmente i Castelli di Rivoli, di Avigliana e di Susa si tenevano fedeli a lui.

Morto Pietro nel 1268, gli succedette Filippo I, che travagliato da una pertinace idropisìa, trasse una misera vita fra molti patimenti e fra le cure dei suoi Stati in Savoia. Mancando di prole gli succedette, nel 1285, il nipote Amedeo V, soprannominato il Grande, possessore di ragguardevole Stato in Piemonte. Oltre alle guerre che dovette sostenere al di là dei monti contro Ginevra e contro ai signori del Delfinato, merita di essere rammentata la lotta che ebbe contro al marchese del Monferrato, per nome Guglielmo. I conti stavano occupati nella Savoia, e ciascuno dei loro cugini, stante le avvenute divisioni e suddivisioni di eredità, non possedeva se non poche terre in Piemonte, perciò poche forze. Guglielmo, da Casale, capitale del Monferrato, aveva estese le sue conquiste su Vercelli, Tortona, Alessandria, Alba, Ivrea, fino sulle terre adiacenti a Torino. Essendosi poscia contro di lui collegate Genova, Asti, Chieri e Milano, invitarono eziandio il conte Amedeo. Questi passò in Piemonte, e dopo la sconfitta e la morte di Guglielmo ricuperò molte terre ed altre ne acquistò.

Ma poi, occupatissimo nelle cose di Savoia e di Svizzera, volendo far cessare le pretese di Filippo suo nipote, nel 1294 si accordò con lui ai seguenti patti: Filippo rinunzierebbe ad ogni sua ragione sulla contea di Savoia e sul ducato d’Aosta; Amedeo rimetterebbe a lui il Piemonte a titolo di feudo, eccetto la valle di Susa. Filippo allora trasferì la sua sede in Pinerolo, sposò quindi a poco Isabella, che gli portò in dote il principato di Acaia nella Grecia (donde venne il ramo dei prìncipi d’Acaia, cugini dei conti di Savoia) e fu investito a solo titolo di feudo degli Stati del Piemonte. Amedeo tuttavia non aveva rinunziato a fare nuovi acquisti in Piemonte, quindi dall’imperatore Enrico VII ebbe in dono Ivrea ed il Canavese. Morì nel 1323.

Il suo figliuolo primogenito Edoardo prese tosto le redini del governo: egli si segnalò in molte guerre contro ai nemici della Savoia, ed anche a pro del re di Francia con un valore a tutta prova, ma troppo bollente ed arrischiato. Generoso e largo donatore, sovente si trovò ridotto a grandi strettezze, così che fu soprannominato il Liberale. Morì nel 1329, senza prole maschia; perciò gli succedette il fratello Aimone, il quale pose grande cura nel riparare i mali derivati dai debiti, in cui Edoardo si era profondato. Passava Aimone ad altra vita nel 1343, lasciando lo Stato al suo primogenito Amedeo VI, soprannominato Conte Verde.


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