Rassegna stampa martedì 25 febbraio 2014 esteri


i Tagli del Pentagono e il Ritorno al 1940



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i Tagli del Pentagono e il Ritorno al 1940

L’ «austerity» necessaria anche negli Stati Uniti per far dimagrire il bilancio federale arriva al Pentagono. Gli effettivi delle Forze armate Usa scenderanno a 440 mila soldati, il livello più basso dal 1940, prima del riarmo imposto dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Tagli annunciati ieri dal ministro della Difesa Chuck Hagel e inseriti nel bilancio federale 2015 (che entrerà in vigore il prossimo primo ottobre, giorno d’avvio del nuovo esercizio fiscale). Misure necessarie per riportare la spesa entro il tetto dei 496 miliardi di dollari previsto dall’accordo bipartisan del dicembre scorso tra Casa Bianca e Congresso, dice il governo.

Nonostante ciò, deputati e senatori sono già sul sentiero di guerra: molti di loro cercheranno in tutti i modi di silurare i tagli di Hagel. Perché una cosa è concordare in astratto un ridimensionamento della spesa, ben altro trasformarla in taglio dei reparti, chiusura di programmi e di basi militari, eliminazione di interi sistemi d’arma come l’U-2, glorioso aereo-spia in servizio dal lontano 1957 e ormai sostituito dai droni Global Hawk. O come l’A-10 Thunderbolt, il «cannone volante» entrato in servizio in piena Guerra fredda e progettato per distruggere i carri armati russi, qualora l’Urss avesse tentato di invadere l’Europa occidentale.

Scenari tramontati da tempo e armi, quindi, divenute obsolete. Ma non è la prima volta che il Parlamento di Washington difende armi e programmi anacronistici per non perdere soldi pubblici e posti di lavoro legati alle basi militari e ai grandi fornitori del Pentagono che operano nel perimetro del loro collegio elettorale. I repubblicani, poi, pur essendo i più determinati nel chiedere il taglio della spesa pubblica, si oppongono al ridimensionamento, anche marginale, del dispositivo bellico, accusando Obama di avere una politica estera e una strategia militare rinunciatarie.

Tra gli oppositori più duri la senatrice repubblicana Kelly Ayotte, il cui marito è un ex pilota di A-10. Ma Hagel, illustrando ieri il suo piano, ha spiegato la filosofia del governo Usa: eliminare armi e contingenti non più indispensabili in un mondo nel quale di guerre terrestri non ce ne sono quasi più, per concentrarsi sui conflitti ad alta tecnologia, sulla guerriglia e sul terrorismo. I soldati, che dopo i picchi di 6 milioni durante il secondo conflitto mondiale e di 1,6 milioni durante la Guerra del Vietnam, erano scesi sotto il mezzo milione nel 2000 per poi risalire a 570 mila dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre dell’anno dopo, ora caleranno fino a quota 440 mila.

Riducendo gli organici, ha detto il segretario alla Difesa, libereremo le risorse necessarie per assicurare ai soldati che rimangono le armi e le tecnologie più avanzate. Compreso il costosissimo caccia F-35 della Lockheed-Martin (nel quale c’è anche una partecipazione italiana): è in ritardo di 7 anni e costerà 163 miliardi di dollari più del previsto (conto finale: 400 miliardi), ma è anni-luce avanti rispetto ai caccia russi e cinesi più moderni.

Insomma, i tagli segnano sicuramente un ridimensionamento della presenza militare Usa nel mondo e Hagel lo ha detto senza giri di parole: esigenze di contenimento del debito pubblico, nuovi tipi di conflitti e nuove situazioni internazionali fanno sì che la supremazia delle forze Usa non sia più garantita in tutti gli scacchieri del mondo. Ma quella di Washington non è certo una ritirata: con tutti i tagli in programma, gli Stati Uniti continueranno a spendere per la difesa più degli altri 12 Paesi che la seguono in classifica (Cina, Russia, Gran Bretagna, Giappone eccetera) messi insieme.

Massimo Gaggi

Del 25/02/2014, pag. 13



Il processo

Marò, New Delhi rinuncia alla legge antiterrorismo

Vertice a Palazzo Chigi. Renzi: “ Vicenda allucinante, resta una questione internazionale”

ROMA — L’India rinuncia al “SUA Act”. Nel processo contro i due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, la Procura generale indiana ha deciso di abbandonare il ricorso alla legge anti-terrorismo. Ieri mattina, dopo settimane di rinvii procedurali e scontri politici, il procuratore generale G Vahanvati ha definitivamente rinunciato alla richiesta di usare quella legge per condurre il processo contro i due marò. È una legge “antiterrorismo”, e questo aveva offerto al governo italiano un forte argomento di mobilitazione internazionale attorno al caso; è una legge che l’accusa voleva mantenere perché le avrebbe permesso una procedura più favorevole durante tutto il processo, che avrebbe permesso di presentare i due marò come killer violenti — e fuori controllo — dei due pescatori. Non a caso ieri dal Kerala, lo stato in cui vennero uccisi i pescatori, il capo di uno dei due partiti comunisti della regione ha immediatamente attaccato il governo centrale: «Questa rinuncia è un regalo agli italiani, agli amici di Sonia Gandhi e del Congress», il partito al potere. Il procuratore generale però non abbandona la richiesta che a continuare ad occuparsi del caso sia la Nia (National Investigative Agency) una sorta di “Digos” indiana con compiti anche in questo caso soprattutto di anti- terrorismo. La difesa dei marò si è opposta, e così il giudice della Corte suprema B. S. Chauhan ha dato tempo una settimana alla difesa per esporre il suo punto di vista, e poi all’accusa un’altra settimana per replicare alle argomentazioni dei legali dei marò.

Da ieri quindi la telenovela giudiziaria indiana ha fatto comunque un passo in avanti. Al Senato Matteo Renzi l’ha comunque definita «una vicenda assurda e allucinante». E dopo una riunione (la prima) a Palazzo Chigi con i ministri degli Esteri e della Difesa e con l’inviato speciale Staffan De Mistura, il premier ha fatto rilanciare un comunicato in cui rivendica giustamente al governo italiano (precedente) il successo nella rinuncia

indiana al SUA: «La decisione della Corte suprema di New Delhi è il risultato della ferma opposizione dell’Italia ». Renzi poi fa aggiungere che «il Governo italiano continuerà nella internazionalizzazione del caso», anche se per il momento la nuova squadra di Palazzo Chigi valuta con prudenza il fatto che fare oggi una richiesta di arbitrato internazionale significherebbe allungare i tempi della vicenda ancora per altri 3-4 anni.

Per il momento quindi gli avvocati della difesa italiana insistono con i loro argomenti procedurali per ostacolare l’accusa: l’avvocato Mukul Rohatgi ha subito obiettato che è «impossibile attribuire la giurisdizione a una polizia antiterrorismo (la Nia) fuori dal quadro della legge antipirateria ». Ancora 15 giorni per superare questo ultimo ostacolo prima della partenza del processo.

del 24/02/14, pag. 7



Maduro: un tavolo per la pace

Geraldina Colotti

Venezuela. Un generale di opposizione asserragliato sul tetto con mitra per evitare l’arresto

Centri medici, case popolari, associazioni di quartiere, depositi di materiale impiegato nelle misiones del governo nei quartieri poveri… Sono questi gli obbiettivi dei gruppi oltranzisti, dediti alle «guarimbas» in Venezuela: non pacifici studenti, ma personale addestrato, già visto all’opera nelle violenze post-elettorali del 14 aprile, in cui hanno perso la vita 11 militanti chavisti. A dirigere le operazioni di guerriglia urbana, vecchi e nuovi attrezzi del golpismo, ossessionati dalla «paura del comunismo» e dalla presenza dei medici cubani che connotano «la dittatura di Nicolas Maduro».

Alle istruzioni inviate tramite Twitter dal generale in pensione Angel Vivas, noto oppositore, si devono le ultime morti di ignari cittadini, che tornavano a casa in moto e che non hanno visto in tempo le trappole ideate dai «guarimberos»: filo spinato teso a bloccare le strade e olio sull’asfalto. Il giovane Elvis Duran è stato decapitato così, e nello stesso modo ha perso la vita una giovane donna ed è stato gravemente ferito il suo bambino. Vivas è salito sul tetto armato di mitra, per evitare che i poliziotti perquisissero casa sua, militanti di opposizione si sono radunati intorno alla residenza per impedirne l’arresto.

Intanto, gruppi di motociclisti hanno manifestato pacificamente contro i blocchi stradali e contro la demonizzazione di cui sono oggetto da parte delle destre. Sono in molti, in Venezuela, a guadagnarsi da vivere con le moto-taxi o come pony express, in maggioranza provenienti dai quartieri più poveri. Il chavismo ha organizzato e tutelato il loro lavoro spesso informale, dando uno scopo sociale anche a quelli che vivevano nella marginalità extralegale, alla mercé delle grandi bande. I motorizados sono una componente cospicua dei collettivi territoriali, molti dei quali attivi nello storico quartiere popolare del 23 Enero. Da lì proveniva Juancho Montoya, ucciso il 12 febbraio, inizio delle manifestazioni di opposizione: da mano per ora ignota, la stessa che ha eliminato un giovane di opposizione, Alejandro Dacosta.

Montoya era un militante molto conosciuto, coordinatore della rete di collettivi che ha risposto positivamente alla proposta di disarmo inviata da Nicolas Maduro, sulle orme del suo predecessore, Hugo Chavez, scomparso il 5 marzo. E ieri i collettivi del 23 Enero (dove venne cacciato, nel ’58, il dittatore Marco Pérez Jimenez) hanno ricordato Montoya, e hanno alzato bandiere di pace. La destra attribuisce ai «colectivos» la responsabilità di tutte le violenze e, come già fece dopo il golpe del 2002 per i circoli bolivariani di allora, ne chiede la sparizione: «I collettivi sparsi in tutto il paese — ha detto Juan Barreto, dirigente del partito Redes — animano le iniziative territoriali contro l’individualismo, costruiscono un’altra socialità che fa paura al capitalismo».

Un’inchiesta realizzata tra il 14 e il 24 febbraio dall’International Consulting Service (Ics) in tutti i 25 stati del Venezuela ha riscontrato che l’81% dei cittadini definisce violente le proteste contro il governo. Il 52% sostiene che la libertà di espressione è «molto garantita», il 19% «mediamente garantita» e il 22% «poco garantita». La violenza si è concentrata solo nell’8% del territorio nazionale — ha detto il governo — attivata da piccoli gruppi che portano avanti una strategia destabilizzante. «Smonteremo il colpo di stato con pace, giustizia e uguaglianza», ha affermato ieri Maduro apprestandosi a ricevere i governatori di tutti gli stati del paese nel Consiglio federale di governo. Hanno accettato di andarci anche diversi leader di opposizione. Ci sarà il potente governatore dello stato Lara, Henry Falcon, che un tempo si fece eleggere coi chavisti per poi cambiare subito casacca. E ci sarà Henrique Capriles, che governa il ricco stato di Miranda — e che ha corso (perdendo) alle due ultime presidenziali, prima con Chavez e poi con Maduro– in quanto candidato della Mesa de la unidad democratica (Mud). La sua litigiosissima coalizione da tempo vorrebbe cambiare il cavallo perdente. E questo spiega il protagonismo della parte più filo-atlantica (Leopoldo Lopez e Maria Corina Machado) o opportunista (l’ex esponente del vecchio centrosinistra, Antonio Ledezma) nelle proteste di piazza. Tutti chiedono «la salida», la fuoriuscita dal governo di Maduro. È l’unico obiettivo delle proteste. Capriles, però, vuole giocare su più tavoli, e sostiene di voler ricorrere alla via istituzionale: un referendum revocatorio possibile a metà mandato previa raccolta di firme.

Intanto, a una persona che è andata a visitare in carcere Lopez (dentro come mandante delle violenze) è stata sequestrata «una mappa di tutta l’industria petrolifera: oleodotti, gasdotti, raffinerie, campi petroliferi», ha sostenuto il governo. E la Procuratrice generale, Luisa Ortega Diaz, ha denunciato «la campagna di discredito internazionale». I morti — ha detto — sono saliti a 13; le persone fermate, 579; 529 sottoposte a firma, solo 45 in carcere. E per far luce su chi abbia provocato le morti, sarà istituita una Commissione per la verità, composta da personalità indipendenti, tra cui giornalisti ed esponenti della chiesa. Nel campo della Mud, c’è invece chi chiede «un governo di unità nazionale» con la mediazione delle gerarchie ecclesiastiche notoriamente schierate a destra.

Del 25/02/2014, pag. 16

Ergastolo per gli omosessuali” in Uganda adesso è legge Museveni non cede all’Occidente

Gli Usa: effetti sugli aiuti. Kampala: “ Imperialismo sociale”

GIAMPAOLO CADALANU

NON sia mai che gli ugandesi lo considerino poco virile, se si lascia influenzare: Yoweri Museveni ha ignorato i richiami di mezzo mondo, definendoli «un tentativo di imperialismo sociale», e ieri ha firmato la cosiddetta legge anti- gay, rivendicando con orgoglio l’indipendenza del suo Paese. Le pressioni internazionali hanno fatto cancellare almeno la pena di morte, ma resta la possibilità dell’ergastolo per i recidivi, per chi ha rapporti con minori e per i sieropositivi.

«Ci dispiace vedere che voi in Occidente viviate come vivete, ma non ci intromettiamo», ha detto l’uomo forte di Kampala ai giornalisti. Sulle tendenze sessuali, Museveni ha idee originali: sarebbero stati proprio gli occidentali a introdurre il vizio in Uganda, reclutando nelle scuole. «La bocca è fatta per mangiare e per baciare, il sesso orale omosessuale fa venire i vermi», teorizza il presidente, definendo i gay «anormali» e le lesbiche «affamate di sesso a causa di matrimoni con uomini sbagliati».

Museveni aveva anche chiesto lumi a scienziati locali ed “esperti” americani, per capire una volta per tutte se le tendenze omosessuali siano naturali o apprese. Nella prima ipotesi, sarebbero state tollerate. Ora, però, ne è certo: «Nessuno può dimostrare che l’omosessualità esista per natura ». E per questa verità si possono sfidare l’indignazione mondiale, i rimproveri, già arrivati, degli Usa, e i tagli agli aiuti, annunciati dall’Olanda e in arrivo da altri Paesi. Il tema è tabù in tutta l’Africa: i rapporti fra persone dello stesso sesso sono vietati in 38 nazioni. Ma l’Uganda è un caso particolare. L’entrata in vigore della nuova normativa è il risultato di una campagna cominciata già nel marzo 2009 da tre predicatori evangelici americani. Lo ha denunciato già quattro anni fa, dopo un lungo reportage in incognito, il prete anglicano dello Zambia Kapya Kaoma: la crociata è partita dopo l’arrivo a Kampala di Scott Lively, Caleb Lee Brundidge e Don Schmierer.

Il primo è uno storico revisionista, autore di libri omofobi: secondo lui, i nazisti erano tutti omosessuali e il movimento gay sta cercando di prendere il potere nel mondo. Il secondo si definisce “ex gay convertito” e propone seminari di “guarigione” per riportare chi sbaglia sulla retta via dell’eterosessualità. Il terzo è rappresentante di Exodus International,

un gruppo la cui missione è «mobilitare il corpo di Cristo per portare grazia e verità in un mondo colpito dall’omosessualità». Già nel 2010, il New York Times definiva i tre religiosi «ampiamente screditati negli Stati Uniti ». Appena un mese dopo il convegno in cui gli americani tuonavano contro il peccato di sodomia, il deputato ugandese David Bahati presentava la sua proposta di legge che proponeva il patibolo per gli omosessuali. Da allora, i tre predicatori hanno cercato di ritrattare le tesi virulente espresse a Kampala, ma era troppo tardi: Bahati aveva visto la possibilità di un ruolo politico di primo piano, grazie a un tema popolare, e lo ha cavalcato fino in fondo, stringendo legami con gruppi cristiani fondamentalisti Usa. La crociata è andata avanti: giovanissimi in corteo per le vie di Kampala con striscioni come “Uniti contro la sodomia”. Liste di proscrizione con tanto di foto e indirizzi dei viziosi che volevano «reclutare i bambini per l’omosessualità », pubblicate sulla stampa. Giornali popolari che strillavano in prima pagina “Impiccateli”. Ora il percorso è compiuto: pregiudizio e nazionalismo si sono uniti. Per capire come finirà, basta ricordare il 2011, con la storia di David Kato, militante gay, indicato come obiettivo da una rivista e assassinato in casa a colpi di martello.



Del 25/02/2014, pag. 17



Aziende trasferite, Parigi alza il muro

Passa la legge anti- delocalizzazione. Chi lascia la Francia rischia sanzioni

ANAIS GINORI

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

PARIGI — Alla fine è tutta colpa, o è tutto merito, di Lakshmi Mittal, il magnate indiano contro cui governo e sindacati si sono inutilmente battuti per evitare la chiusura del polo siderurgico di Florange, nel nordest del Paese. Una vertenza che è andata avanti per mesi, senza riuscire ad evitare l’esito scontato. Il re dell’acciaio ha vinto: gli altiforni sono stati chiusi un anno fa, a casa gli oltre 600 dipendenti, ennesimo lutto industriale in una Francia che pesa sempre meno nel settore secondario. L’umiliazione politica della

Gauche al governo ha portato però alla proposta di una riforma votata ieri dal Parlamento, la cosiddetta “legge Florange”, chiamata anche legge anti-delocalizzazioni.

L’obiettivo politico della riforma è vietare ai gruppi industriali la chiusura selvagge di fabbriche, magari per migrare in altre, più convenienti località. Era una delle promesse elettorali di François Hollande, nello spirito della tradizione di dirigismo statale ereditata da Colbert che però appare quanto mai superata in un’economia globalizzata.

Dopo le proteste del Medef, la Confindustria francese, il governo ha già dovuto riscrivere più volte la legge, rendendola più blanda. Nel testo approvato ieri il famoso divieto di delocalizzazioni si riduce all’obbligo per gli imprenditori con più di mille dipendenti di ricercare un acquirente per continuare a garantire la produzione. Proprio nel caso di Florange, infatti, Mittal ha rifiutato ogni ipotesi di cessione, non volendo favorire eventuali concorrenti. Le aziende che non vorranno adeguarsi potranno essere punite con una multa, non superiore al 2% del fatturato, e dovranno restituire gli aiuti statali percepiti negli ultimi due anni. Una riforma che scontenta tutti. Secondo i sindacati, le nuove regole non impediranno davvero i piani di chiusura o le delocalizzazioni che per l’85% riguardano imprese con meno di mille dipendenti. Molti giuristi sostengono che eventuali battaglie legali sono destinate a fallire. La destra ha già annunciato un ricorso alla Consulta per violazione della libertà d’impresa e del diritto alla proprietà. Ma il governo socialista ha voluto lanciare un segnale di protezione dei lavoratori, per quanto velleitario. «Il capitalismo può essere senza fede, ma non senza legge», ha detto la deputata Clotilde Valter, relatrice in Parlamento. Negli ultimi tre anni oltre un migliaio di fabbriche francesi hanno chiuso o delocalizzato. Il deficit commerciale del Paese è passato in negativo, fino a un rosso di 32,9 miliardi. Il settore manifatturiero rappresenta ormai solo il 13% del Pil francese, rispetto al 19,7% del 1998. Sotto accusa un costo del lavoro che è aumentato del 10% negli ultimi dodici anni, mentre è diminuito in Germania del 6% nello stesso periodo. Il Medef sostiene che la “legge Florange” non risolverà la crisi industriale del Paese ma anzi scoraggerà ancor di più nuovi investimenti stranieri (crollati del 77% l’anno scorso). Proprio qualche giorno fa, Hollande ha invitato all’Eliseo una trentina di multinazionali, da Nestlè a Samsung, da Volvo a General Electric, per convincerle a investire in Francia. Un’operazione seduzione tutt’altro che riuscita, visto lo scetticismo delle imprese straniere nei confronti del protezionismo francese e dall’alta pressione fiscale. Il Presidente socialista ha annunciato un mese fa un ambizioso Patto di responsabilità: sgravi contributivi per oltre 30 miliardi nei prossimi quattro anni in cambio di assunzioni. L’estrema sinistra accusa il leader della gauche di aver tradito i lavoratori e di essere diventato l’amico delle imprese. La legge anti-delocalizzazioni potrebbe risolversi in una mossa tutta politica e di facciata, difficile da realizzare nei fatti.



Del 25/02/2014, pag. 19



Un superministro in Vaticano “Trasparenza e lotta alla povertà” la svolta di Francesco sulle finanze

Rivoluzione nella Santa Sede, al cardinale Pell il nuovo dicastero

PAOLO RODARI

CITTÀ DEL VATICANO — Questione di stile. E anche di sostanza. La riforma delle finanze vaticane annunciata ieri da papa Francesco con il motu proprio Fidelis dispensator et prudens arriva soltanto ventiquattro ore dopo le parole di fuoco dedicate dallo stesso Bergoglio ai “neo” cardinali: occorre abbandonare comportamenti «di corte», come «intrighi, chiacchiere, cordate, favoritismi, preferenze», ed essere servitori e non padroni, ha incalzato il Papa. E così anche la riforma delle finanze (agli atti la prima riforma di Francesco) sembra rispondere a questa logica: non ci potranno più essere uomini di Chiesa con licenza, grazie ad azioni in stile Scarano — (il monsignore dell’Apsa arrestato per aver riciclato denaro attraverso lo Ior) — di sporcare l’istituzione intera. Piuttosto ci sarà un unico “ministero” competente e che risponderà a una sola persona: il Papa. Una struttura «di coordinamento per gli affari economici e amministrativi della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano», che si sostanzia in una «Segreteria per l’economia», istituita come dicastero della curia romana e affidata all’arcivescovo di Sydney George Pell, che ne è stato nominato prefetto, e un «Consiglio» composto da otto ecclesiastici e sette laici, che determina le politiche che la stessa segreteria attuerà.

Col motu proprio Francesco formalizza anche il ruolo dell’Apsa (Amministrazione per il Patrimonio della Sede apostolica), definita per la prima volta «banca centrale del Vaticano», e dell’authority finanziaria (Aif) che continuerà a svolgere il ruolo di

controllo ricoperto fino a oggi. Nessuna menzione, invece, per lo Ior (Istituto per le Opere di Religione), che, come ha riferito padre Federico Lombardi, «continua a essere oggetto di studio e di riflessione». Cosa diventerà in futuro? Difficile rispondere, anche se potrebbe essere accorpato all’Apsa. Sia Ior sia Apsa, infatti, hanno correntisti e gestiscono ingenti valori per conto di istituti religiosi e diocesi. L’accelerazione di Francesco sulle finanze risponde a finalità precise: garantire una maggiore trasparenza, uniformare gli enti vaticani alla missione della Chiesa, far sì che i fondi che confluiscono nelle sacre casse siano

destinati il più possibile a programmi di lotta alla povertà, alla emarginazione, e non a scopi poco chiari. La scorsa estate, sul volo di ritorno da Rio de Janeiro, era stato ancora il Papa a spiegare ai giornalisti che contrariamente ai programmi dell’immediato post-elezione, a seguito del caso Scarano si era convinto che prima di tutto avrebbe dovuto mettere mano ai problemi finanziari. E così è avvenuto. Il motu proprio (locuzione latina che tradotta letteralmente significa «di propria iniziativa») riprende nel titolo le parole del vangelo di Luca dedicate all’amministratore fedele e prudente che ha il compito di curare attentamente quanto gli è stato affidato. Così deve fare anche la Chiesa, soprattutto al tempo di un Papa che ha scelto il nome impegnativo di Francesco.

È la prima volta che il Vaticano si dota di un «ministro» di Bilancio, Tesoro e Finanze (appunto il neo prefetto Pell, che lascerà la diocesi di Sydney della quale è titolare e si trasferirà a Roma) e di un revisore generale che riassume i compiti di ragioniere generale dello Stato e capo della Corte dei conti, cioè un ruolo amministrativo e un ruolo di magistratura contabile. Entrambi consentiranno al Papa di avere il controllo di tutte le attività finanziarie in qualsiasi parte del mondo, uniformando tra l’altro l’amministrazione e utilizzazione di fondi e donazioni. Il motu proprio giunge in seguito alle raccomandazioni della revisione condotta dalla Commissione referente (Cosea) creata nei mesi scorsi dal Papa, il cui segretario è monsignor Lucio Angel Vallejo Balda. Tali raccomandazioni sono state approvate dal Consiglio degli otto cardinali istituito lo scorso aprile per la riforma della Curia romana, e dal Consiglio di quindici cardinali per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede, il quale, con ieri, ha terminato i propri compiti.




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