Le rappresentazioni di kōdan
nel Giappone di oggi
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vedremo, è molto interessante il rapporto con lo
shakudai e l’utilizzo del corpo
rispetto ad esso.
Ritornando alla presenza del testo, va aggiunto che sebbene nelle biografie un
po’ leggendarie dei kōdanshi più famosi, tra i quali il già citato Tanabe Nankaku I,
si narri che le capacità mnemoniche eccezionali avessero reso possibile non avere
più dinanzi il testo scritto, l’eliminazione di esso sul palco, unito al ruolo
fondamentale dello hariōgi, metterebbero in evidenza come l’espressività emotiva,
così come le pose facciali dell’artista, fossero diventate sempre più un punto di
attrazione per il pubblico e un aspetto nel quale cimentarsi per i declamatori. In
questo cambiamento, secondo il kōdanshi Kyokudō Konanryō IV (Nishino Yasuo),
si vedrebbe l’influenza del kabuki che avrebbe stimolato una maggiore riflessione
sulla recitazione.
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Un altro esempio del rapporto fra declamatore e testo scritto, è il verbo
utilizzato per la recitazione di un
kōdan che è
yomu, “leggere” appunto, che si
contrappone allo hanasu, o talvolta kataru, “raccontare”, ad esempio del rakugo, il
genere dei wagei che ha avuto uno sviluppo parallelo al kōdan e che spesso è utile
considerare come termine di paragone, riproducendo essi nei secoli un rapporto di
rivalità e di interscambio che fa pensare a quello tra il kabuki e il jōruri. All’interno
della “lettura” del kōdan, la declamazione è arricchita, come abbiamo visto, da
spiegazioni fatte anche attraverso lo hikigoto, la “citazione”, nelle quali trapela
l’interpretazione e il punto di vista del declamatore. Quindi, uno dei punti di
originalità del kōdan deriverebbe proprio dall’essere un esempio di yomu geinō (arte
trasmessa attraverso la lettura) in cui le due parti di trasmissione e commento
diventano un insieme difficile da distinguere.
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Le trame dei
kōdan, fin dalle prime opere di ispirazione storica e religiosa, hanno
sempre dei precisi riferimenti temporali a personaggi storici, avvenimenti accaduti, e non
trattano in maniera universale, come è il caso del rakugo, tipi o maschere umani. Il kōdan
richiede, o deve far presumere di avere, una base di documentazione, mentre il rakugo
può trarre maggiormente ispirazione dalla realtà. Ma l’imponenza del testo scritto si allea
paradossalmente, creando una felice combinazione artistica, con un fondamentale
principio estetico-narrativo del kōdan, quello del dover raccontare un insieme di verità e
invenzione, presentandolo in modo da farlo apparire una realtà indubitabile. Di
conseguenza la parola d’ordine per alludere al kōdanshi diventa mitekita yō na uso o tsuki,
un “bugiardo che racconta delle falsità come se le avesse viste”. A rendere possibile ciò è
proprio l’autorità testuale simboleggiata dallo shakudai. Un altro modo di evidenziare
questo concetto si evince dal riferimento a uno dei generi principali, i jitsurokumono
“cronache autentiche”, dove, nell’ironica spiegazione degli artisti, il termine vorrebbe in
realtà significare che nei kōdan basati su cronache storiche, la realtà (jitsu), non costituisce
che il 60 per cento (roku – wari –), il rimanente 40 per cento sono bugie.
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A proposito della recitazione, se un
rakugoka deve riprodurre e quasi imitare
5
Kyokudō, 2006, c, p. 13.
6
Imaoka, 2005, p. 101.
7
La frase può essere rintracciata in molte fonti, in particolare cfr. Tanabe Kōji, Yume no kyōen. Kōdan
Akōgishiden, 2005, libro accluso al dvd, p. 2.
M
ATILDE
M
ASTRANGELO
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una maniera di parlare e di ragionare tipica di un determinato ceto sociale, il
kōdanshi deve avere sia l’abilità del
monomane (mimesi), sia quella di parlare
secondo un ritmo (5/7/5) più o meno incalzante a seconda della scena, scandendo
i momenti con lo hariōgi. Le tematiche e la struttura retorica hanno caratterizzato
fin dall’inizio il kōdan come un’arte che veniva declamata davanti alle folle dei
templi, dei matsuri e delle grandi arterie di comunicazioni, ma veniva anche
rappresentata nelle residenze dei nobili e dei signori feudali (zashiki kōshaku),
arrivando perfino a essere presentata al cospetto degli shōgun Tokugawa. Questo
privilegio venne ben sfruttato da uno dei primi nomi di declamatori rimasti nella
tradizione, Itō Enshin, il quale chiese e ottenne dalle autorità Tokugawa di poter
declamare ovunque, non solo all’interno di templi e santuari, e di costruire una
pedana (kōza), la prima all’interno dello Yushima Tenjin, trattando, a differenza di
altri declamatori, importanti argomenti storici e cronache di battaglie che avevano
come protagonisti i Tokugawa. Ciò aggiunse simbolicamente un’altra valenza al
kōdan: quella di un’arte che guarda dall’alto in basso la massa degli ascoltatori
nonché gli altri generi del teatro popolare di strada (daitōgei). Il prestigio del kōdan
si consolida durante tutto il periodo Tokugawa quando vengono costruiti dei
piccoli teatri dedicati alle arti declamatorie, gli yose, che arrivano fino al numero di
170. I declamatori, che nel momento di maggior splendore pare raggiungessero
anche il numero di 500, avevano una funzione di giornalisti, o critici, ruolo che fu
drasticamente ridotto dalle Riforme dell’era Tenpō (1841-1843).
Del periodo Tokugawa conosciamo ampiamente il repertorio, trascritto negli
anni a cavallo con l’era Meiji, ma di pochi testi conosciamo l’autore o colui che ha
ideato un eventuale adattamento di storie già famose. Più di frequente infatti ai
kōdan di questo periodo viene associato il nome dell’artista al quale si deve la
migliore interpretazione, o di colui che ha portato alla fama un determinato
personaggio. Anche nel periodo Edo esistevano le scuole, ma la popolarità era
comunque basata sul genio e la fama dei singoli artisti, come Baba Bunkō o
Morikawa Bakoku che determinarono una svolta verso una forma artistica
vendibile e pubblicizzabile.
L’esistenza di un ampio repertorio, unito al successo del genere, porta in questi
anni a una condivisione di trame molto interessante tra il kōdan, il kabuki e il jōruri.
Infatti, se negli yose si riproducevano sinossi degli spettacoli troppo costosi per la
massa, è altrettanto vero che le più ricche produzioni del kabuki e del jōruri
prendevano ampiamente spunto dai testi costruiti per il kōdan. Essendo
quest’ultima un’arte maggiormente a diretto contatto con il pubblico, era infatti
più facile e rapido per i declamatori venire a conoscenza di episodi di cronaca o
incidenti da adattare per le loro storie, e a questa inesauribile fonte di creazione si
trovavano talvolta ad attingere gli autori di drammi kabuki o jōruri. Anche il
famoso Takeda Izumo II (1691-1756) pare che inizialmente fosse attivo proprio nel
genere del kōdan di cui conservò alcune impostazioni artistiche, e su molti titoli
diventati ‘classici’, come Kanadenhon chūshingura (Il manuale sillabico: il magazzino
di vassalli fedeli, 1748), viene talvolta rivendicata la paternità del genere del kōdan.
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Aritake, 1973, p. 198; Takarai, 1971, p. 42.