Autonomia e riscatto, I principi libertari ed identitari di g m. angioy a 210 anni dal moto popolare


Civiltà spagnola - occupazione austriaca



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Civiltà spagnola - occupazione austriaca


 Nel 1479 la Sardegna entrò sotto il dominio spagnolo. Rafforzato il sistema politico, con l’introduzione del tribunale dell’inquisizione e la riorganizzazione dell’apparato ecclesiastico, divenne una costante preoccupazione della Corona quella di contenere, a livello parlamentare e giurisdizionale, l’arrogante feudalità isolana.

Il Cinquecento fu segnato da violenti attacchi barbareschi e carestie, ma vide una razionalizzazione delle strutture burocratiche (istituzione della Reale Udienza, 1564) ed il nascere di un ceto togato laico e riformatore, in contrasto con la nobiltà ed il clero, che ebbe nel cagliaritano Sigismondo Arquer la sua vittima più illustre. Il problema della difesa dell’isola portò, invece, nel 1583, alla creazione di una specifica amministrazione delle torri litoranee.


 Il Seicento segnò la nascita delle università di Sassari (1617) e Cagliari (1626) ed un forte inasprimento del sistema fiscale, dovuto alle pressanti esigenze finanziarie della Corona spagnola. Ma sulla già prostrata isola si abbatterono anche congiunture agricole, carestie ed una violentissima epidemia di peste (1652-1657), che decimarono la popolazione, mentre si acuiva il parassitismo delle classi dirigenti e si radicava la piaga del brigantaggio.

Lo stato di precarietà rendeva inoltre difficoltoso il pagamento dei donativi, con conseguente indebitamento del bilancio sardo. Il formarsi di due grandi “partiti” feudali, i contrasti di potere tra grande nobiltà e burocrazia regia, la rissosità della piccola nobiltà e le rivendicazioni del patriziato urbano, andavano nel frattempo rivelando, anche con episodi sanguinosi, la profonda crisi socio-istituzionale nella quale versava l’isola. Crisi che la Spagna non ebbe l’interesse né la forza politica di risanare.


L’isola restò sotto il dominio spagnolo, con la breve parentesi dell’ occupazione austriaca (1708-1717) fino al 1720, quando in seguito al trattato di Londra (1718) fu ceduta ad Amedeo II di Savoia.

 

 

Dominio Piemontese


Con il trattato di Londra (1718), il Regno di Sardegna venne assegnato ai duchi di Savoia principi di Piemonte, che lo aggregarono in forma federativa ai propri stati di terraferma. Quando la nuova dinastia prese possesso dell’isola, nel 1720, si trovò di fronte ad una terra dai complessi problemi, per giunta spagnolizzata e non immune da sentimenti autonomistici: permanevano il sistema feudale e i privilegi del clero; l’ordinamento politico-amministrativo era inefficiente e il sistema legislativo confuso ed arretrato; l’economia era depressa e condizionata dal persistere del sistema feudale e dell’ uso comunitario delle terre; mancavano infrastrutture viarie e marittime; il livello di scolarizzazione e delle università era bassissimo; molte zone erano deserte e insalubri, persisteva la minaccia barbaresca e dilagavano banditismo e abigeato.

L’intervento piemontese interessò da subito l’apparato finanziario, l’istruzione pubblica, lo sviluppo demografico e la bonifica del territorio. Una più incisiva politica di riforma amministrativa e sociale fu avviata da Gianbattista Lorenzo Bogino, illuminato reggente della Segreteria di Stato per gli affari della Sardegna (1759-1773). La ventata di rinnovamento e modernizzazione non sciolse tuttavia i nodi profondi del malessere di un’isola che rimaneva sostanzialmente estranea e che veniva ignorata nelle sue specificità culturali e ambientali. Né l’azione riformista riusciva a mascherare il volto assolutista repressivo e fiscale del governo sabaudo. 


 La mancata difesa dell’isola da parte dei piemontesi, in occasione dell’attacco della Francia rivoluzionaria, nel 1973, ed, al contrario, l’eroica resistenza messa in campo dai miliziani sardi, diedero nuova linfa alle aspirazioni autonomiste e ai sentimenti antisabaudi dell’aristocrazia sarda. Sentimenti che sfociarono, dopo il rifiuto delle “cinque domande”, nell’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794, con la cacciata dei piemontesi e del viceré. I moti antisabaudi antifeudali e filo-giacobini dilagarono nell’isola, anche grazie alla figura carismatica di Giovanni Maria Angioy, ma furono duramente repressi, cosicché la corte piemontese in fuga dalle armate francesi poté trovare riparo a Cagliari nel 1799.


Non ancora sopiti i movimenti insurrezionali (congiura di Palabanda) e dopo devastanti carestie, fu chiaro al governo sabaudo che la crisi dell’agricoltura sarda doveva essere radicalmente risolta. Nel 1823 venne pubblicato l’”Editto delle Chiudende”, mentre tra il 1835 e il 1843 venne abolito il sistema feudale, interventi che in realtà non sortirono gli effetti desiderati. Ma la politica riformatrice di Carlo Alberto conquistò molti intellettuali sardi e la rinascente borghesia agraria e mercantile isolana. Nel 1847 gli stamenti, rinunciando alla vecchia aspirazione autonomista, chiedevano e ottenevano la “fusione” della Sardegna con gli Stati di terraferma. Aveva così fine il Regnum Sardiniae e nasceva il Regno sardo-piemontese.

Il regno sardo-piemontese ebbe vita dal 1847, anno della “fusione” del Regno di Sardegna con gli Stati piemontesi di terraferma fino all’Unificazione italiana del 1861.

 

Civiltà giudicale e comunale

 A causa delle incursioni arabe, la Sardegna si trovò, nell’VIII secolo, isolata da Bisanzio. L’isola vide così nel tempo strutturarsi, in forma originale rispetto al resto d’Europa, quattro regni : i “giudicati” di Cagliari, Arborea, Gallura e Torres. Questi si avvalsero dell’alleanza politica e del sostegno economico di Pisa e Genova, e favorirono, in particolare il Giudicato d’Arborea, il riordinamento amministrativo, istituzionale e giuridico. Ogni regno (logu o rennu) era sovrano, retto da un re o “giudice”(iudex o iudike) affiancato dai rappresentanti del popolo riuniti in parlamento (corona de logu), e dotato di leggi proprie (cartas de logu). Frontiere fortificate ne segnavano i confini, proteggendo il territorio. Questo era diviso in “curatorie”, ciascuna retta da un curatore.

La popolazione, di liberi e, per la maggior parte, servi, viveva nelle città e nelle campagne, in piccoli centri o “ville”. Le amministrazioni giudicali, anche grazie alle strette relazioni con Pisa e Genova, incrementarono notevolmente l’economia sarda, favorendo lo sviluppo dell’agricoltura, dell’allevamento, dell’artigianato, dell’industria mineraria, dell’estrazione del sale e del commercio marittimo. Furono attivi il clero e gli ordini monastici: Benedettini, Vittorini di Marsiglia, Camaldolesi, Vallombrosani. Sorsero splendide chiese romaniche realizzate da maestranze toscane, lombarde e francesi (XI-XIII sec.).


 I rapporti dei giudicati con Pisa e Genova, inizialmente commerciali, divennero gradualmente di dipendenza, e le due repubbliche, forti delle posizioni acquisite e sfruttando i problemi di successione ed i contrasti tra gli stessi giudici, cominciarono a contendersi l’isola, ingaggiando sanguinose battaglie. Alla fine del XIII secolo, i pisani ormai spadroneggiavano, contrastati dall’ultimo giudicato rimasto indipendente, l’Arborea, dai liberi comuni e da alcune grandi famiglie liguri che difendevano i propri interessi. In questa situazione di instabilità, il papa Bonifacio VIII, in virtù della sovranità nominale sulla Sardegna, il 4 aprile del 1297, concedeva l’isola in feudo al sovrano aragonese Giacomo II. Ventisei anni dopo l’Infante Alfonso sbarcava nel Sulcis e iniziava la conquista.

 

Civiltà Aragonese



La conquista aragonese dell’isola, sostenuta da papa Bonifacio VIII (1297) e contrastata da Pisani, Genovesi e Arborensi, fu realizzata tra il 1323 ed il 1478, anno che coincise con la fine del marchesato d’Oristano, ultimo baluardo della resistenza del glorioso giudicato d’Arborea.
Il Regnum Sardiniae( et Corsicae) fu diviso nei Capi di Cagliari e Gallura e di Logudoro e fu sottoposto ad un viceré che aveva sede a Cagliari. Il nuovo governo istituì il parlamento ed estese al territorio sardo il codice rurale della Carta de logu, con l’eccezione delle città “reali cui vennero concessi particolari privilegi. La più importante di queste città fu Alghero, popolata da catalani, che costituì il caposaldo della dominazione aragonese nell’isola.

L’età aragonese vide l’infeudamento delle campagne sarde ai baroni iberici e l’inizio di un dispotico regime di sfruttamento. I privilegi feudali, l’iberizzazione dei quadri di governo e del clero, lo spopolamento dovuto alle lunghe guerre e alle epidemie impedirono lo sviluppo di un ceto dirigente locale e gettarono l’isola in uno stato di profonda decadenza. 

 

 

 



 

http://www.sardinyarelax.it/spagnola.htm

 

 

 



 

 

 



 

 

 



 

 

Cavalierato e nobiltà



 di Francesco Loddo Canepa

 

Il cavalierato ereditario introdotto in Sardegna con la dominazione aragonese del 1323, era concesso dal Re con speciale diploma (privilegio militar, de cavallerat) emanato in forma solenne e munito delle segnature del Supremo Consiglio d'Aragona (sotto la Spagna) o di quello di Sardegna nell'epoca sabauda. I diplomi spagnoli recano il nome e cognome dell'investito (non la paternità) e anche (ma non di frequente) il luogo di nascita. In quelli sabaudi sono contenuti in genere dati più precisi sul concessionario (paternità, luogo di nascita) e più particolari specificazioni circa i motivi che danno luogo alla concessione che, negli spagnoli, sono espressi in formule cavalleresche generiche, comuni a tutti i diplomi. Non mancano però, anche nei diplomi spagnoli, casi di motivazione specifica, specie quando il titolo è concesso in conseguenza di un atto singolarmente gradito alla Corona, come la partecipazione ad un fatto d'armi, o altro che riveli un particolare attaccamento al Re o alla causa regia.


Non di rado i motivi personali che danno luogo alla concessione sono di scarso rilievo e hanno bisogno, particolarmente nei diplomi sabaudi e specie in quelli degli ultimi anni della monarchia, di essere integrati dal versamento di una somma , alla Regia Cassa, il cui ammontare (da 1500 a 6000 lire sarde) è indicato nei diplomi stessi. Le motivazioni per il conferimento del cavalierato e della nobiltà sono: particolari servizi resi allo Stato in determinate circostanze speciali, benemerenze acquistate nel campo della scienza, nelle pubbliche cariche, nel Regio servizio e anche, più recentemente, l'incremento dato all'agricoltura nonché le opere edilizie fatte a cura di privati nel pubblico interesse. Un requisito che è sempre specialmente menzionato, è la fedeltà e il particolare attaccamento del concessionario alla causa regia ed alla Corona.


Precedeva l'invio del diploma di cavalierato la commissione regia (cartilla de armaçon) diretta al Viceré (o ad altro illustre personaggio che lo rappresentava), per mezzo di particolare lettera regia, perché armasse cavaliere il concessionario.


Il Viceré con cerimonia solenne in cui non era neppure dimenticata l'accolade degli antichi tempi, lo cingeva della spada. Dopo tale cerimonia il Re rilasciava il diploma o privilegio in cui approvava l'operato del Viceré, autorizzando il concessionario a chiamarsi cavaliere in tutti gli atti pubblici e privati, e ad adottare le armi gentilizie concessegli (particolarmente descritte nel diploma di concessione), e cioè a farle figurare nella propria casa, a portarle nei tornei, a fregiarsene secondo le norme consuete, col diritto di trasmetterle ai suoi figlie e discendenti maschi.


In pari data, o qualche giorno più tardi, veniva rilasciato, all'investito del titolo, anche il diploma di nobiltà, che dava in Sardegna il diritto alla qualifica di Don. Non di rado le armi gentilizie, anziché essere concesse, come di consuetudine, col diploma di cavalierato, erano conferite a parte, mediante speciale diploma. Durante il governo sabaudo, è frequentissimo il caso di conferimenti di cavalierato e di nobiltà non accompagnati dalla concessione di alcuno stemma gentilizio.

Nonostante la mancanza di tale concessione, i discendenti dei concessionari si trovano oggi quasi tutti in possesso di uno stemma di famiglia la cui legittimità viene ammessa dalla Consulta Araldica, con la dimostrazione dell'uso ultratrentennale di esso, corroborata, quando è possibile, da altre prove equipollenti quali l'esistenza dell'arma in uso in tombe, monumenti o cimeli familiari.
Le formule di concessione della nobiltà erano piuttosto generiche. Nell'Archivio di Cagliari non si conservano concessioni (di cavalierato e nobiltà) anteriori alla prima metà del secolo XV. Nelle più antiche che si possiedono, il titolo di nobile è conferito anche collettivamente, non singolarmente, a più persone, con un unico diploma.

Si dà pure il caso che alla concessione del cavalierato non si accompagni quella della nobiltà. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che del secondo diploma, per smarrimento o mancata registrazione, non è rimasta traccia; o che il concessionario non fu, sic et simpliciter, gratificato della nobiltà. O infine che il concessionario stesso non adempì, dopo la concessione del cavalierato, alle indicazioni impostegli, purché venisse gratificato di entrambi i privilegi.


La nobiltà si estende a tutta la discendenza maschile e femminile dell'investito, ma la donna non la trasmette ai discendenti. Il cavalierato si trasmette ai discendenti maschi (cioè in linea retta), ma non, naturalmente, alle femmine. La donna maritata può portare maritale nobili i titoli di Nobile e Donna, ma non li conserva oltre lo stato vedovile (Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, del 1929, art.18). Secondo una disposizione, la donna nubile perde le qualifiche nobiliari per effetto del matrimonio e quindi anche quello di Donna, anche se si deve ammettere che la disposizione non abbia effetto retroattivo (cfr. Gazzetta Ufficiale n°55 del 1930, R° D° 14-2-30 n°101).


Così il diritto della donna a tali qualifiche derivante dalla nascita, prima personale a vita, viene a subire una grave restrizione, con la conseguenza che le donne nubili non nobili, sposando un nobile, lo diventano; mentre le donne nobili, sposando un non nobile, perderanno la qualifica.

 

Prova del cavalierato e della nobiltà

Per provare il cavalierato o la nobiltà, occorre dimostrare l'attacco genealogico cl primo concessionario. A ciò soccorrono gli atti di nascita o di matrimonio dei discendenti, o altri documenti idonei a tal prova. Grande utilità offrono a tale scopo i registri dello stato civile conservati nelle Curie Arcivescovili o Vescovili anteriormente al 1865. Mancando uno degli attacchi genealogici può suffragare, come criterio equipollente, la prova del possesso del titolo di cavaliere o di nobile (congiuntamente ad altre circostanze e documenti), per varie generazioni di ascendenti del richiedente. Costituiscono valido elemento per la prova anche gli elenchi dei cavalieri, nobili, feudatari, compilati dalle singole Prefetture dell'isola nel 1822 per ordine del Governo.

 

Privilegi dei Cavalieri e Nobili

I Cavalieri e i nobili che erano esenti dalla giurisdizione del Veghiere e del loro assessore al pari dei loro servi e familiari, erano soggetti da tempo immemorabile, a quella dei Luogotenenti Generali e dei Governatori. L'ingiuria arrecata ad un nobile da una persona di bassa condizione era punita più gravemente che non quella arrecata ad uno del popolo. I nobili potevano liberarsi con denaro dalle ingiurie arrecate ai plebei (v. Dexart). Essi erano colpiti con la deportazione quando ai plebei si applicava la pena di morte, e la relegazione era, in loro riguardo, sostituita alla pena del remo cui era condannato il plebeo. I membri dello Stamento, e cioè i feudatari, i nobili e i cavalieri, dovevano essere giudicato da un Consiglio di Pari. Si eccettuavano i delitti di lesa maestà divina e umana, la sodomia, la falsificazione di moneta, il sacrilegio in monastero. Con Carta Reale 23-8-1633- S.M. confermava il capitolo di corte 18° concesso nel Parlamento celebrato nel 1511, prescrivente che i cavalieri, in materia criminale, venissero giudicati con il voto del Reggente la R. Cancelleria, d'un giudice della Reale Udienza e di sette pari.

Godevano del privilegio di portare armi e di non potere essere disarmati (così pure i loro familiari) dagli ufficiali regi. Se poi in teoria i cavalieri non potevano essere torturati se non nei casi citati di lesa maestà, di sodomia, di falsa moneta, ecc…nel Regno di Sardegna, ci dice il Dexart, "no hi ha memoria de homens en contrari que hage vist militar torturat". Il pregone prescrivente che non si ponesse mano alla spada, non si intendeva esteso ai militari e alle persone dello Stamento. I cavalieri e i militari non potevano essere presi e carcerati per debiti civili. Inoltre i militari erano esenti da molte imposizioni.


I cavalieri non feudatari potevano essere imbussolati e estratti a sorte per la carica di consigliere di Cagliari. I cavalieri e i nobili facevano parte dello Stamento Militare e potevano pertanto intervenire di diritto tanto alla riunioni stamentarie dei tre bracci congregati insieme, quanto a quelle separate, che lo Stamento Militare era autorizzato a tenere. Infine i cavalieri potevano in Sardegna attribuirsi la qualifica di Don in quanto fossero pure nobili, essendo essa, come pure oggi, il distintivo della nobiltà sarda, nonché di varie famiglie principesche e di molte famiglie lombarde. Non spettava quindi tale qualifica ai semplici cavalieri.


Il Codice feliciano mantenne ancora il giudizio dei pari sancendo che i feudatari, i nobili e i cavalieri fossero esenti dalla giurisdizione ordinaria e che non potessero essere citati se non davanti alla R.Udienza o alla Real Governazione (rispettivamente nel capo di Cagliari e in quello di Sassari). Le sentenze poi che condannavo un nobile o un cavaliere alla pena di morte non potevano eseguirsi senza la regia approvazione. I nobili e i cavalieri che dessero ricetto a banditi, oltreché con la pena pecuniaria sancita dalle prammatiche, erano puniti con quella di dieci mesi di presidio, o con altra maggiore o minore, a seconda dei casi.


Quelli che semplicemente li proteggessero, erano soggetti al sequestro della giurisdizione baronale e alla pena di 1000 scudi. Per il codice feliciano i ricettatori di banditi di qualunque stato, grado o condizione, erano puniti con la pena da un anno di carcere a tre anni di galera (Codice Feliciano, art.1752).

 

Esclusione delle nobiltà dalle cariche civili.

I feudatari ed i nobili (non i cavalieri) erano esclusi dal reggimento della città di Cagliari, ostandovi i privilegi concessi a questa. Le domande per essere ammessi alle cariche cittadine, fatte nei parlamenti, non furono accolte. L'influenza dei feudatari e dei nobili con tutti i loro grandi privilegi avrebbe assicurato infatti ad essi una forza preponderante in seno al Consiglio. Così i consiglieri e l'Università del Castello ottennero l'esclusione ad tempus dell'elemento militare dal Corpo Consolare. L'esclusione si estendeva un tempo sia ai nobili che ai semplici cavalieri. Ma mentre per i feudatari e signori di vassalli esisteva un valido motivo di incompatibilità, a cagione di alcuni privilegi posseduti in loro pregiudizio dalla città, come la provvisione di frumento, di carne e altre derrate, non ne esisteva alcuno contro i militars non heretats. Perciò nel Parlamento del 1497, concluso nel 1511, si chiese dallo Stamento e si ottenne "que los militars non heretats" potessero entrare nel reggimento della città. Il Re Ferdinando, con prammatica 14-4-1511 (v. Dexart), aderendo all'istanza del sindaco dello Stamento Militare stabilì, in analogia ai principi della costituzione barcellonese, che per un triennio venissero imbussolati per le cariche di consigliere i nomi di dieci cavalieri (esclusi i nobili, i baroni e i feudatari), con qualche altra condizione o limitazione. Sembra lecito ritenere che, ferma sempre l'esclusione dei nobili e dei feudatari (i quali non potevano esercitare alcuna carica regia se non rinunciano ai loro feudi, né coprire quella di vicario), siano rimasti, anche in seguito, abilitati i semplici cavalieri. Tale norma almeno vigeva ancora nel 1641, come risulta dal Dexart.

 

La nobiltà sarda dopo il 1848

Con l'unione della Sardegna agli stati continentali (30 novembre 1847), l'isola cessava di reggersi, oltre che con bilancio separato, con legislazione indipendente da quella del Piemonte. Da quella data di fondamentale importanza storica, i codici e le leggi di terraferma sostituirono la secolare legislazione costituita dai vecchi codici spagnoli, dalle carte reali, dagli editti e pregoni iberici e piemontesi, già riuniti e compendiati sistematicamente in un solo corpo, col codice feliciano (1827). I feudi erano stati riscattati pochi anni prima dell'annessione (1836-1844) con la clausola che ai feudatari e ai discendenti di essi, fossero riconosciuti i titoli loro spettanti in base ai diplomi di infeudazione.


Il riscatto feudale e l'accennata unione venivano pertanto a chiudere definitivamente il libro delle concessioni nobiliari sarde fatte in base alle antiche leggi e consuetudini e ne circoscrivevano l'ambito ai discendenti delle antiche famiglie, che continuano tuttora a portarli, mentre i titoli di tante altre, per graduale estinzione degli eredi maschi, non hanno più rappresentanti.
Il R.D. del 16-8-1926, n°1489, trasfuso nell'Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, approvato con R.D. 21-1-1929 ha inoltre disposto, in deroga alle vecchie concessioni sovrano del diritto sardo, variamente disciplinanti i feudi impropri (cioè trasmissibili per linea femminile in mancanza di maschi), che "i titoli, i predicati e gli attributi familiari non si trasmettano alle femmine, né per linea femminile (art.54); che quelli già concessi alle femmine, spettino alle medesime durante lo stato nubile e non diano luogo a successione (art.57) e che la successione dei titoli, predicati e attributi nobiliari, abbia luogo a favore dell'agnazione maschile dell'ultimo investito, per ordine di primogenitura, senza limitazione di gradi e con preferenza della linea sul grado (art.54). estinte le linee maschili, aventi per stipite comune la femmina intestataria del titolo, questo con gli annessi predicati dovrà tornare, previe lettere patenti di regio assenso, all'agnazione maschile della famiglia cui apparteneva prima della promulgazione delle leggi abolitive della feudalità., osservate le norme dell'art. 54 (art.59).

Pertanto anche questa legge porta indubbiamente a circoscrivere e restringere sempre più la cerchia dell'antica aristocrazia sarda, molte famiglie della quale godevano del privilegio di trasmissione dei titoli per linea femminile. Così il libro delle famiglie isolane, chiusosi definitivamente nel 1848, andrà sempre più assottigliandosi e perdendo i rappresentanti degli antichi titolati (cavalieri, nobili e feudatari). Si noti ancora che in Sardegna, a differenza delle antiche repubbliche italiane, non esisteva una nobiltà decurionale, poiché i comuni vi ebbero vita breve e poco fiorente.

 

Caratteri della nobiltà sarda

Si è notato altrove che i conferimenti di cavalierato e nobiltà a sudditi sardi cominciano a riscontrarsi nei primi decenni del secolo XV come risulta dalla serie dei più antichi rilasciati in favore degli isolani. Per quanto riguarda le concessioni feudali, in numero ben limitato furono quelle fatte a sardi fedeli nei primi tempi della conquista e più tardi a cittadini di Sassari e Bosa distintisi nell'assedio di Monteleone e Bonvehi (1436) contro Nicolò Doria, quali validi cooperatori degli aragonesi. Gli isolani cominciarono quindi ad essere ammessi nei ranghi della nobiltà non fornita di feudo solo nel secolo XV e, in misura ristrettissima, continuano ad appartenere a quella feudale, partecipando così dei benefici riservati ampiamente ai conquistatori. Cedeva man mano la diffidenza di questi verso gli indigeni, di fronte a prove inconcusse e manifeste di fedeltà alla causa regia, che facevano allontanare ogni sospetto di ribellione e di autonomia.

Nondimeno la più alta e potente aristocrazia restava sempre etnicamente e politicamente, come all'inizio della conquista, catalano-aragonese (e tale continuerà a restare in seguito), poiché i feudi più numerosi ed importanti si trovavano in potere di quelle famiglie i cui antenati erano venuti dalla Spagna a fianco dei re e dei principi, per la spedizione di Sardegna. Né i re vollero permettere che l'elemento sardo acquistasse importanza politica nell'isola, non accedendo mai alla domanda degli impieghi e delle prelature agli isolani, più volte ripetuta nei parlamenti, sia per poterne disporre a favore dei magnati spagnoli, sia per prudenziale misura di governo. È significativo che le maggiori cariche, soprattutto quelle di viceré, siano rimaste durante i secoli, monopolio esclusivo, o quasi, degli spagnoli e dei piemontesi.

Così si spiega facilmente come al momento del riscatto feudale la Sardegna era ancora infeudata per massima parte ai discendenti delle antiche famiglie d'origine iberica quali i Sanjust, gli Aymerich, i Pilo, i Zapata e gli Amat, per tacere di altre potentissime, che non si degnavano ormai più di risiedere in Sardegna. La conquista aragonese aveva evidentemente segnato il tramonto dell'antica nobiltà indigena costituita dalle dinastie dei giudici, dai loro parenti e dai loro principaliores degli staterelli sardi nel lungo periodo dell'autonomia (gli Athen, i De Serra, i De Laccon, i De Thori).


Pur tuttavia gli isolani, dal secolo XV in poi, continueranno ad essere ammessi, sempre più largamente, nei ranghi del cavalierato e della nobiltà, come rivelano le concessioni relative, che si fanno più numerose nei secoli XVI-XVII e numerosissime sotto la dominazione sabauda, favorite anche, come abbiamo visto, da ragioni patrimoniali e da motivi d'interesse pubblico.

Venne pertanto meno alla Sardegna la sua remota nobiltà indigena la quale, in un primo tempo, per la vigorosa penetrazione pisana e genovese e poi per il processo rapido e violento dovuto alla conquista, fu soppiantata da una nobiltà di importazione. Quella nuova composta di elementi locali, che cominciò a formarsi un secolo dopo la prima spedizione iberica, non sorse per forza propria né in contrasto con l'autorità regia, come, in antico, nei grandi stati continentali, ma come benigna emanazione della monarchia e priva per lo più di feudi, e mal si fuse con quella feudale e potentissima che era figlia della conquista. Infatti non pochi avversari della potenza o prepotenza dei baroni che, nella memoranda rivoluzione del 1796 si schiereranno con Don Giovanni Maria Angioy, leader del movimento, erano insigniti del cavalierato e della nobiltà.


I sardi nella maggioranza dei casi impetrarono dalla maestà sovrana i privilegi nobiliari (anche se non mancarono concessioni di cavalierato e nobiltà fatte dalla Corona in ricompensa di benemerenze in imprese belliche o per sussidi pecuniari offerti in tali imprese) e non di rado, soprattutto negli ultimi tempi, corroborarono le loro istanze col versamento di somme considerevoli al tesoro regio, come dimostrano incontrastabilmente i diplomi di concessione. Così ben poco poté fare per l'isola questa nobiltà indigena di uomini nuovi asservita alla corona, nella cui orbita e secondo i cui interessi, era portata a muoversi e ad esplicare la sua azione.


La casa di Savoia, seguendo qualche esempio precedente, creò, specialmente negli ultimi tempi (fenomeno del resto non peculiare al regno sardo) una nuova nobiltà a carattere feudale.

Non avendo campo o non trovando opportuno di concedere nuovi feudi e dopo l'abolizione dei medesimi, non avendo la possibilità, ricorse all'espediente di annettere titoli feudali a territori demaniali o anche di proprietà privata del concessionario, oppure di conferire sic et simpliciter (ad es. nel caso del Barone Rossi), i titoli stessi senza alcun speciale predicato. Su queste concessioni prive di giurisdizione o di diritto, o almeno di fatto per mancanza o quasi di vassalli, abbiamo altrove fermato l'attenzione chiamandole impropriamente feudali.

Alcune di esse hanno infatti un contenuto esclusivamente onorifico, essendo soltanto dirette a conferire un lustro e decoro al concessionario, e alla sua famiglia. Possono dirsi di tale natura e di data assai recente, molte fra quelle che hanno per predicato il nome di un santo o il cui predicato è per lo più il nome di un possesso territoriale privato dell'investito. Queste concessioni nulla hanno di feudale se non il titolo, il territorio e la fedeltà alla corona, né presentano alcuna affinità, se non formale, con le antiche concessioni di feudi, le quali avevano la base politica della conquista armata e della difesa contro i non infondati pericoli di una ribellione allo straniero. Resta però ad esse il carattere remuneratorio di speciali e devoti servizi resi alla corona e pertanto è evidente e preponderante in esse l'elemento del vassallaggio.

In epoca recente, la concessione di feudi e dei relativi titoli, rappresenta anche un compenso dato dalla corona in contraccambio di cessioni di diritti patrimoniali.



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