Autonomia e riscatto, I principi libertari ed identitari di g m. angioy a 210 anni dal moto popolare



Yüklə 0,72 Mb.
səhifə10/16
tarix24.12.2017
ölçüsü0,72 Mb.
#17259
1   ...   6   7   8   9   10   11   12   13   ...   16

3 - Sono motivazioni etniche ed etiche, il senso e la ragione dell’appartenenza, che, ancora nel VI secolo d.C., tengono salde e compatte le indomite popolazioni dell’interno dell’isola, per un terzo della sua estensione: le civitates Barbariae con a capo Ospitone dux Barbaricinorum. E’ uno stato indipendente e sovrano ancorato alle tradizioni di lingua, cultura e costume e legato dalla religione primordiale nel culto delle pietre e degli alberi. Nel 549 d. C., il papa Gregorio Magno scrive un’epistola al governatore bizantino dell’isola Zabarda, residente a Forum Traiani (Xrisopolis), per ringraziarlo di aver collaborato a concludere l’accordo con Ospitone con la clausola di lasciare libertà di propaganda per il cristianesimo ai missionari pontefici Felice e Ciriaco. Impotente a occupare con le armi il territorio saldamente in mano delle Civitates Barbariae, l’abile funzionario venuto da Bisanzio si era rivolto al papa romano per trovare una soluzione politica, per la via pacifica della religione, d’uno scontro che durava da settant’anni. In tal modo si sarebbe potuto rimuovere il pericolo costante alla frontiera del territorio isolano in possesso dei Bizantini, dovuto alle reiterate violazioni, sconfinamenti e aggressioni delle forze “barbaricine”, imprese ritenute “banditesche” che mettevano in forse lo svolgimento regolare della vita, della società e dell’economia dei possedimenti imperiali. Se Ospitone e la sua gente si convinsero di convertirsi alla nuova religione, non cessarono i conflitti, tanto che il limes venne rafforzato con presidi di milizie locali (limitanei), tutto intorno alla roccaforte della Barbargia di Ollolai, centro del potere indigeno. E il magister militum, il governatore bizantino, dovette ristare ancora al Forum Traiani, capo-saldo della frontiera, ancora per 49 anni, sino al 598, quando la sede, rasserenato il clima, fu trasferita a Cagliari. La conversione al cristianesimo non estirpò tradizioni, costumi e statuti. Si abbatterono le pietre sacre degli antenati, ma restò il “codice barbaricino” (ancora oggi non del tutto rimosso) che punisce il furto in casa propria ma lo considera atto di guerra in terreno altrui e lava le offese e tutela l’onore personale e di gruppo vendicandolo col sangue. Un autogoverno, che può rasentare l’anarchia, un’eguaglitarismo quasi “solidarismo” che non ha radici soltanto nell’effimero scambievole economicistico e volgare, ma anche nel vincolo etico d’un sistema creduto e sofferto sia pure a livello di comunità di villaggio, quando non di regione o di popolo nel comune denominatore dell’antica e comune difesa storica da tutte le dominazioni e colonizzazioni. Un cristianesimo, quello di Ospitone, “libertario” e intriso di paganesimo, che ha lasciato traccia, se non umore, in quello odierno dell’antica “riserva barbaricina”.

4 - Un passo della Vita Ludovici imperatori (MGH, II, 632) fa parola del conte Bonifacio, prefetto della Corsica nominato da Ludovico I e preposto alla difesa generale dei possedimenti franchi nel Mare mediterraneo. Nell’anno 828, allestita una piccola flotta cui si aggiunsero il fratello Bernardo e altri, dopo aver perlustrato il mare senza trovarli, Bonifacio Sardorum insulam amicorum appulit. L’amicizia datava da tredici anni prima, da quando nell’815 legati di Sardegna si recarono alla corte dell’imperatore dei Franchi e d’Occidente per offrire doni non disinteressati. L’interesse stava nella necessità dell’impero d’Oriente, ancora sovrano della Sardegna, di avere aiuto dai Franchi contro gli Arabi per difendere il debole possesso, minacciato anche dai Sardi che già levavano voci di autonomia. Lo sbarco di Bonifacio è una forma di questo aiuto. Ovviamente un soccorso di “amicizia”, non uno stato di dipendenza della Sardegna dai Franchi. D’altra parte, nel quadro delle notizie sardo – franche, si può ravvisare la tendenza dell’isola, se non a staccarsi, non potendolo, dall’Oriente, a orbitare nell’area della nuova grande potenza occidentale, in un sogno di lontana libertà.

5 - La caduta dell’Impero di Bisanzio e la perdita dei collegamenti con l’Occidente (con gli stessi Franchi) danno la speranza ai sardi del riemergere dell’antica nazione. Si forma appunto un governo autonomo, con a capo dei giudici, forse anche per suggerimento della Chiesa bizantina che, a differenza dell’autorità civile, non aveva perso del tutto l’influenza, mantenendo la presenza fisica e il potere spirituale coerente ai tempi e determinante nello sviluppo, per aver riflessi anche di natura economica. In questo libero e in certa misura indipendente periodo di storia sarda, si colgono i presupposti politici e istituzionali della formazione dei giudicati nel secolo XI.

Ha scritto Umberto Cardia che il carattere autonomo del regime giudicale deriva dal fondo etnico e da un senso comune sociale e culturale che tende a realizzare l’unità di popolo e nazione. Un ordine “sovrano”, con soggettività statuale, si realizza alla fine del secolo XIV, nell’ambito del libero Giudicato di Arborea. Il quadro normativo è contenuto nella Carta de Logu, scritta il lingua sarda del tempo. Si palesa come un Regno indigeno (Barisone d’Arborea viene incoronato Re di Sardegna, in Pavia, da Federico Barbarossa, nel 1166). La memoria di questo Regno è rimasta nell’immaginario collettivo dei sardi, come istituzione di autonomia e di soggettività autonomistica, sino ai nostri tempi. Questa di Regno è un’idea centrale, un’idea forza che nutre circa centocinquanta anni di guerra d’una parte dei sardi contro lo straniero nell’isola. Un’idea pervasiva e resistente al punto che lo stesso conquistatore aragonese deve riconoscere alla Sardegna le caratteristiche di Regno, come continuum nel tempo della statualità giudicale. Ne mantiene, infatti, la legge e gli ordinamenti propri nel quadro istituzionale della corona di Spagna: i Parlamenti e gli Stamenti. E’ un farsi dell’autonomia come autogoverno, sia pure entro più ampi e dinamici sistemi statuali, con i quali non si confonde in quanto proprio d’un popolo che si identifica con una nazione: la nacion sardesca (così la titola il conquistatore iberico).

6 - Già dopo la conquista catalana – aragonese nel 1324 si manifesta un atteggiamento di opposizione non solo tra stato indigeno e stato invasore, ma tra elementi della società sarda e agenti della potenza dominante che tende ad occupare con suo personale tutti i gangli della vita ufficiale, laici e religiosi. Il nuovo ordine politico e la svolta ideologica ispanica si manifesta nei provvedimenti dell’Infante Alfonso d’Aragona prima e poi di Pietro IV il Giovane (1335) che fanno divieto di residenza e dimora nelle città e dintorni ai frati dell’Ordine dei Minori e dei Predicatori che non siano catalani e aragonesi. Forte la reazione, sino all’ostilità, dei frati sardi e corsi, in un sussulto di identità.

Con la fine del regno giudicale e, poi, del Marchesato d’Oristano nel 1478, a fronte della feudalità spagnola si afferma una nobiltà indigena, in specie la Casata dei Marchesi di Laconi (i Castelvì e gli Aymerich). Si fa più robusta la polemica tra il clero locale e quello d’obbedienza ispanica. Nel secolo XVI si avverte una ripresa e maturazione della lotta autonomistica del popolo sardo, nel senso di riserva di cariche e di governo per i sardi.

7 - Nel mondo ecclesiale, il 13 dicembre del 1559, i frati dell’Osservanza del Convento di Santa Maria di Gesù a Cagliari reagirono a un editto pubblico dell’Arcivescovo spagnolo Mons. Antonio Parragues de Castillejo che imponeva a tutti i fedeli di accudire agli uffici divini nelle loro parrocchie, pena scomunica, e non nel Convento degli Osservanti, frati non affidabili nella formazione e nello studio e poco devoti al Re. Questi risposero al Parragues attraverso la voce dal pulpito di fr. Arcangelo Bellid, nella chiesa del monastero femminile di Santa Lucia in Castello, proprio il giorno della festa della Santa. Il frate tra l’altro esortò i fedeli della chiesa di non aver riguardi né di accogliere la censura intimata dall’Arcivescovo, che egli “si gettava dietro le spalle”. Il discorso incauto gli procurò la prigione e la ritrattazione in pubblico. Ma diciotto giorni dopo la predica nel convento di S. Lucia, la replicò nella chiesa del proprio convento con le stesse parole e tono, questa volta protetto dal Viceré D. Alvaro Madrigal, a spregio dell’Arcivescovo che si era opposto alla celebrazione d’un Parlamento straordinario.

Il dissenso tra il Parragues (personaggio di vertice ecclesiastico e rappresentante della “grandeur spagnola”) e il Bellid che si oppone interpretando i sensi di “ribellismo” dei confratelli in maggioranza sardi e corsi, non si pone tanto a piano disciplinare quanto in polemica politica. E’ una contestazione che si colloca nel clima del secolo per così dire di “fibrillazione sardista”. Alto clero e autorità regia, per frenare l’egemonia del personale sardo dell’Osservanza, fanno ricorso a flussi di religiosi iberici. Filippo II procederà ad una progressiva e coercitiva desardizzazione socio culturale – ecclesiastica del contesto civile ed ecclesiale del Regno di Sardegna. E se da una parte lo Stamento militare sollecita il Re, in data 8 maggio 1565, ad imporre che gli Statuti Comunali antichi di Sassari, Bosa, e Iglesias, originariamente in lingua sarda e poi tradotti in lingua italiana, siano nuovamente resi, per decreto reale, “en llengua sardesca o catalana” “que los de llengua italiana sien abolits talment que non reste memoria de aquels”, dall’altra lo stesso Filippo II aveva proibito ai giovani sardi di recarsi, per motivi e ragioni di studi, alle Università italiane per costringerli a preferire quelle spagnole e sradicarli dall’area matrice culturale italiana. Ugualmente per il contesto ecclesiastico, e se, nelle chiese particolare o diocesi sarde, non c’era spazio per i prelati sardi e italiani, ma solo per quelli spagnoli, analogamente gli Ordini regolari dovevano essere totalmente integrati e assorbiti nel conteso spagnolo degli stessi Ordini.

Il trapasso dalla Provincia di Sardegna a quella Ultramontana e l’incorporamento e l’unione dei frati alla parte spagnola non furono senza una forte resistenza da parte sarda. Il tentativo di riforma, basata sulla sostituzione dei “sardos discolos” con frati spagnoli, ad opera di fr. Vincenzo Ferri, nel 1565, incontrò la ferma opposizione del gruppo di frati sardo – corsi. Non migliore accoglienza toccò al drappello dei trenta prima e quindici frati delle Provincie aragonesi, venuti al seguito del Commissario fr. Vincenzo Angles, nel 1575. A questo i frati corsi, in Sassari, negarono l’obbedienza e, per di più, levandoli contro falsi testimoni, lo accusarono nanti il Generale e Protettore dell’Ordine che lo esonerò dalla Commissaria di Sardegna. L’Angles, in spregio dell’ordine del Ministro Generale, continuò a mantenere l’ufficio, ciò che aumentò lo sdegno dei frati i quali insorsero in aperta ribellione al suo vice fr. Pedro Cortès. E’ verosimile che la ripulsa dei frati sardo – corsi ad essere agiti da superiori esterni per operare in autonomia, non fosse rimasta nascosta al popolo, data la consuetudine con i religiosi, predicatori d’ufficio e padri spirituali. Possibile, dunque, che si fosse ingenerata anche nella gente, una crisi di credibilità, il sospetto di essere suddita d’un potere estraneo e intruso e la voglia di eliminarlo, nel giusto momento, per fare da sé.

La rivendicazione “sardista”, nel senso di riserva di cariche o di ruoli di governo per gli indigeni in ogni campo, non viene meno nel secolo XVII. Ma costituì premessa ai moti angioyani della fine del ’700. Moti avversi al dominio piemontese che già all’inizio di secolo, nel 1718, aveva tradito l’impegno politico principale, assunto con il Trattato di Londra, di mantenere le leggi e gli statuti dell’isola, pattuiti con la Spagna; tra l’altro di avere Viceré indigeni.

8 - Il passaggio della Sardegna al Piemonte, frutto d’un baratto, dette occasione al costituirsi d’un partito “patriottico”, e luogo al formarsi d’un nuovo fronte di resistenza e di opposizione contro l’ultimo venuto. Questo era ritenuto un corpo alieno e repressivo, non meno dei precedenti, intento all’integrazione dei sardi e voglioso di istituire, come di fatto fu istituito, uno studiato rapporto di tipo coloniale. Il vantato riformismo del Ministro Bogino, a giudizio di storici di parte non piemontese, non può essere riferito ai quadri concettuali del vero riformismo settecentesco. Non procura una crescita dal basso né rimuove le incrostazioni del passato – soprattutto il feudalesimo – per il cambio democratico. Concesse talune realizzazioni positive (Università, Monti Granatici, pratiche agricole), il quadro strutturale risultò inefficace e tale da ingenerare credibilità nei così detti “riformatori”. Non ne sortì unione tra governanti e governati. La dissennata politica di “integrazione”, aprì un solco, creò un incompatibile dissidio tra le due parti. Era inaccettabile dal partito “patriottico l’inconsulto e incolto tentativo di piemontesizzare culturalmente e linguisticamente la Sardegna e di snazionalizzarla sottraendole quel che rimaneva ancora della propria identità con i diritti di autonomia, seppur “deboli”, acquisiti nel passato.

Dal passato rimaneva intatto il quadro negativo: problemi insoluti, le sofferenze del popolo e le angherie dei ceti elevati, l’economia stenta, lo sviluppo zero. Permanevano integri gli ordinamenti feudali, l’oppressione fiscale, l’espropriazione delle risorse del luogo, l’esclusione quasi totale dagli uffici dei “nazionali”. Il campo era tenuto dalle sopercherie del potere politico, civile e militare, da governatori forestieri corrotti e abbietti, circondati da cortigiani in prevalenza piemontesi e nizzardi non meno disonesti e corrotti, da ufficiali e soldati di ventura.

Tutto ciò non poteva non indurre i sudditi d’uno Stato tra i più “oscuri” d’Europa, tra i più piccoli ma più “assoluti” e “conservatori”, ad una avversione – specie nel cresciuto ceto borghese e nei pochi magistrati indigeni – e a uno stabile e diffuso sentimento antipiemontese che sfociò, di necessità, nell’azione rivoluzionaria di fine secolo.

9 - I fatti rivoluzionari del triennio 1794-1796, lungi da essere stati, come nell’interpretazione d’una certa storiografia di “palazzo”, jacqueries contadine, senza negare il carattere peculiare sardo, si spiegano nel quadro dei sommovimenti sociali che da Parigi si irradiavano in Europa e nel mondo nel segno repubblicano e autonomistico. La vittoria sui Franchi nel 1793, con azione congiunta e unità d’intenti di aristocrazia, borghesia, clero e popolani indigeni, fu un “trionfo” della volontà di indipendenza dei sardi, il risultato d’un popolo che si compatta nel segno e nella coscienza di appartenere a una nazione che si risveglia e insorge, vincendolo, contro lo straniero. I moti espressi dalla borghesia urbana – leader la magistratura indigena della Reale Udienza in uno ad elementi popolari, usciti alla espulsione di piemontesi e nizzardi della città di Cagliari e di altri luoghi dell’isola (in capo il Viceré Balbiano, nel 1794), trovano l’input nell’onda secolare della rivendicazione di autogoverno dei sardi. All’idea di autogoverno, riscatto dalla servitù al dominio, espressione di libertà democratica, si rifaceva la Carta dei diritti della Sardegna, elaborata e approvata dagli Stamenti quasi all’unanimità. Nell’evento di ribellione, esaltato sino alla cacciata del conquistatore di turno, è da vedere, secondo Umberto Cardia, la prima, per rimanere l’ultima, vendetta storica della nazione sarda.

Vendetta effimera in quanto l’unità degli anni 1973 e 1974 si ruppe già nella seconda metà di quest’ultimo anno con il colpo di forza termidoriano del Pitzolo e del La Planargia, circuiti da emissari del governo sabaudo, finito per loro in tragedia. Nel contempo vi fu la secessione della città di Sassari e del Capo di sopra, procurata dalla feudalità sardo-iberica, complice lo stesso governo sabaudo. L’ala moderata della borghesia cagliaritana (i Cabras, i Pintor, il popolano Sulcis), leaders della sommossa autonomista antipiemontese e gli esponenti dell’aristocrazia e della feudalità sarda arretrarono rispetto alle precedenti posizioni unitarie. Gli elementi della borghesia giacobina e repubblicana, fautori dell’indipendenza dell’isola e filofrancese (il Cilocco e il Mundula) si misero a capo dei moti di jacquerie rurale, del movimento popolare antifeudale delle villi del Capo di sopra che, nel 1975, si era concentrato nell’assalto e nel saccheggio di Sassari e concluso con la cacciata dalla città dei “realisti” (esponenti del governo, del clero e della feudalità conservatrice).

In questi fatti si inserisce, come moderatore, Giovanni Maria Angioy, il personaggio più eminente (tale resterà anche nel ricordo storico) delle vicende del tempo alimentate dalle speranze di liberazione dell’isola viste in un quadro europeo. Angioy, nato a Bono, nella profonda regione montana di Sa Costera, nel 1751, da genitori nobili e possidenti, era uomo delle zone interne, quella generatrice, per natura, di “ribellismo” e di coscienza “resistenziale”, accetto dunque a un fiero popolo agreste. Uomo grato anche all’ambiente chiesastico; il fratello maggiore arciprete della Cattedrale di Nuoro, lo zio materno canonico della cattedrale di Sassari, per di più il padre fattosi prete in vedovanza. D’altra parte, laureatosi in giurisprudenza nell’Università turritana, aveva attinto in questa città di tradizioni repubblicane stimoli e umori culturali laici. Da ultimo, portatosi a Cagliari per la pratica forense, vi esercitava apprezzata avvocatura e, provvisto di profonda dottrina giuridica, toccava l’apice dell’accademia con l’insegnamento di diritto civile in quell’Ateneo. Impiego, quest’ultimo, parzialmente appagante ma non soddisfacente in pieno le sue ambizioni di soggetto attivo nella classe dirigente, da lui esplicata nel raggiungimento del grado elevatissimo di giudizio di giudice della Reale Udienza, braccio di giurisdizione e di governo in vacanza viceregia. Uomo, dunque, Angioy con radici e interessi negli ambienti culturali, economici e sociali, differenziati, dei due capi dell’Isola. Impegnato anche nella conduzione dei suoi possedimenti terrieri e nel mercato, realizzata secondo gli indirizzi in materia dell’illuminismo.

Agli inizi della carriera Angioy non era giacobino né repubblicano. Era un autonomismo, fiero di appartenere a una “nazione minore” e far parte d’un gruppo etnico ben definito: il sardo. Era fautore dell’abolizione del sistema feudale, ma per gradi, nella prospettiva dell’autogoverno da realizzarsi, nel tempo, all’interno della monarchia. A fondare e concretare il governo autonomo sardo avrebbero dovuto concorrere, in unità d’intenti, forze borghesi e popolari urbane, ma fondamentale sarebbe stata la sinergia del mondo rurale di tutta l’isola con le proprie risorse umane ed economiche attivate in un sistema di corretto capitalismo, come quello allora emergente nel contesto europeo. Questo era il progetto dell’Angioy, riformista e illuminista, atto al progresso integrale della Sardegna, quando il Viceré, d’accordo Stamenti e Reale Udienza, gli affidavano una delicata missione. Al giovane e intraprendente leader del partito democratico, a cui cultura e culture della terra sarda stavano in testa e in cuore, veniva dato l’incarico di pacificare il Capo del Nord turbato dalle jacqueries, e di governarlo e normalizzarlo, con titolo e carica di Alternos, munito di pieni poteri. Nel pieno vigore dei suoi quarantacinque anni, con la coscienza d’un grande dovere patriottico e d’una missione quasi salvificata in un certo senso della nazione sarda in attesa di tempi liberatori quali erano quelli che andavano compiendosi nel contorno europeo, l’Alternos partiva da Cagliari dove per un destino infausto quanto fausto l’inizio, non avrebbe fatto ritorno. Era il 13 febbraio 1796.

Un viaggio lungo il suo, esaltante, tra speranze e acclamazioni d’un popolo fiducioso del riscatto dopo tanto dominio di padroni esterni e mediatori interni. A Sassari l’Angioy entrava trionfante nella città, alla testa di oltre mille cavalli e uno stuolo di paesani a piedi, in variopinto corteo, per la porta di Sant’Antonio. Qui veniva accolto dai suoi fans con evviva, grida, lazzi contro i baroni feudali e i traditori “realisti” della nazione sarda di cui si osannava la libertà. Nel dare inizio al governo democratico, l’Alternos reintegrava il vuoto di potere adottando alcuni provvedimenti normativi al “nuovo”: atti rivolti alla pacificazione. Quanto all’anarchia e le ribellioni che si erano fatte più forti e organizzate nelle ville, inviava il personale di propria fiducia e vicino politicamente, a temperarne l’emozione. Ma dal contado rispondevano che egli in persona si recasse tra le comunità villatiche per ascoltare le impellenti volontà di riscatto e si ponesse alla guida del movimento. Dalla vasta confederazione antifeudale, formata da rappresentanti del clero, dei consiglieri comunitativi, dei prinzipales, venivano voci su sempre maggiori abusi e danni irreparabili procurati dal regime feudale.

Alfine, mosso dall’intento di indurre i rivoltosi alla moderazione e dalla duplice sollecitazione, quella dei vassalli e quella pressante e quasi minacciosa del Viceré, l’Angioy si partì da Sassari verso le ville in agitazione il 2 giugno 1796, con la scorta di miliziani, dragoni e amici. Ai vassalli egli fece balenare la speranza di ottenere dall’autorità preposta il riscatto dei feudi, quando questa fosse la ferma volontà popolare. Si trattava di far constatare al governo regio, del quale non si contestava la legittimità, rinnovando anzi il pieno sentimento di fedeltà al Sovrano sabaudo, la decisa intenzione dei villici di liberarsi dal giogo feudale. E ciò poteva essere reso visibile attraverso una marcia pacifica di popolo verso la sede viceregia guidati dall’Alternos. Pertanto i convenuti si accordarono di accompagnarsi con le loro milizie a cavalli e a piedi, al viaggio dell’Angioy.

Il viaggio si svolse non senza difficoltà, a causa di scontri con milizie della parte baronale e insinuazioni d’un sollevamento dei commissari governativi del Marghine e di Bosa. Giunto con i suoi a Oristano, l’Alternos si premurò di inviare un messaggio nel quale diceva di trovarsi colà a capo d’una schiera di vassalli del Logudoro in armi, i quali chiedevano un abboccamento col Viceré, o in sua vece, con una deputazione degli Stamenti in luogo da loro scelto allo scopo di esporre le lagnanze e l’indignazione per non aver avuto alcun riscontro circa provvedimenti atti a rimuovere l’oppressione feudale. La provincia logudorese rimaneva “fedele a Sua Maestà”, ma era altrettanto ferma e risoluta nel difendere diritti, interessi e privilegi della “Sarda Nazione”. La lettera dell’Alternos si incrociava con ben diverse determinazioni del Viceré, avvallate dagli Stamenti. Una missiva viceregia spedita ai ministri di giustizia delle singole comunità del Capo di sopra, li informava che l’Angioy era stato rimosso dalla carica di Alternos, e gli si ordinava di non prestare obbedienza, sotto pene gravi estensibili alla morte. Inoltre il Viceré radunava con urgenza gli Stamenti e le due Sale della Reale Udienza, denunziando il movimento dell’Alternos come rovinoso per la monarchia, al punto di dover essere represso con le armi. Si decideva, in conseguenza, di apprestare un corpo di esercito da mandare incontro alle milizie dell’Angioy prima che si muovessero da Oristano verso la capitale, attivandone la difesa.

L’Angioy, avuto sentore delle determinazioni di guerra, decise di arretrare le sue truppe verso il villaggio di Massama, accampandovisi. Al ponte del Tirso venne lo scontro di fucileria tra i contendenti, alla pari per qualche tempo. Ma essendo poi caduto il capo dell’avanguardia angioyana, i restanti combattenti ripiegarono verso il campo di Massama, dove l’Angioy, constatata la situazione di disfatta, sbandati e dispersisi parte dei militari, ordinò la ritirata verso Sassari, con i resti! A Sassari venne ricevuto dal Mundula e dai suoi amici. La città lo accolse ancora con esultanza assiepandosi nelle vie e inneggiando alla libertà, persino col grido francese del ça ira. Un modo, questo, per mascherare la sconfitta e tenere in vita un sogno di futura rivincita. Ma la sera dello stesso giorno del festoso reingresso, Angioy lasciava silenziosamente la città, dirigendosi a cavallo con una piccola scorta armata a Portotorres. A notte, con i fidi amici di ideali e di battaglie democratiche, s’imbarcava su un veliero napoletano diretto ad Ajaccio. Era la prima tappa dell’esilio, per lui senza ritorno. Per la storia l’epilogo del triennio rivoluzionario. Si vanificavano gli empiti di libertà, di autonomia. di autodeterminazione, di orgoglio nazionale espressi con la vittoria sui Francesi, la cacciata dei Piemontesi, l’autogoverno stamentario dopo l’esecuzione popolare dei “realisti” Pitzorno e Paliaccio, i moti antifeudali, la marcia dei vassalli logudoresi per la difesa della nazione sarda. Tutti questi esaltanti avvenimenti, tesi alla liberazione nazionale, diventavano per i democratici rovello di memoria e pena per le battaglie perdute, per i reazionari un oggetto di fastidio da cancellare anche dal ricordo storico. Ancora una volta la Sardegna accumulava la storia delle occasioni perdute per effetto delle divisioni e per una sorta di accettazione d’un ruolo di martire del dominio secolare.


Yüklə 0,72 Mb.

Dostları ilə paylaş:
1   ...   6   7   8   9   10   11   12   13   ...   16




Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©genderi.org 2024
rəhbərliyinə müraciət

    Ana səhifə