Autonomia e riscatto, I principi libertari ed identitari di g m. angioy a 210 anni dal moto popolare



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Non stupisce che, dopo tale tragica débacle, Giovanni Maria Angioy, nel definitivo esilio a Parigi, non fosse rimasto altro che una vendetta “virtuale”: quella di diventare giacobino e repubblicano e, nel 1799, nove anni prima della morte, di sollecitare il governo francese a procurare la liberazione della Sardegna, occupandola militarmente.

10 - Per effetto della dura repressione dei moti angioyani, nel primo ventennio dell’800 caratterizzato dalla cresciuta integrazione e subordinazione politica ed economica dell’isola al Piemonte, e, poi, dalla ambita e subito deprecata fusione del 1847 conclusa con la Costituzione albertina, gli antichi istituti di autonomia sarda decaddero e l’autonomia stessa, come sentimento, entrò in una grande zona d’ombra. Né valsero a restituire le sorti, i sommovimenti rurali contro le chiudende e il ritorno a su connotu (1832, 1868). Né, tanto meno, il revival romantico della più remota storia patria, l’orgoglio retorico di popolo e nazione, celebrati dagli autori delle false Carte d’Arborea.

La fusione aveva addormentato gli spiriti, ma non di tutti. Il senatore Giuseppe Musio, già mentre si costruiva (1848), parlava di “fusione” condizionata, avvertendo la non utilità della “non perfetta mischianza di tutto nostro e di tutto noi con i continentali”. Nell’anno medesimo il canonico Fenu vedeva la soluzione delle sperequazioni tra la Sardegna e il Piemonte nell’istituzione di un Parlamento sardo, il quale “darà ai sardi una capacità di iniziativa che non hanno mai potuto avere perché tutte le cose sono state decise dagli altri”.

Una quindicina di anni dopo la fusione, Giovanni Battista Tuveri annunciava una nuova questione, la “questione sarda” e invocava un’insurrezione antipiemontese del popolo sardo a favore dell’Inghilterra. Egli saldava tale questione all’idea repubblicana, democratica e federalista, dello Stato. A questa idea si riferiva anche Giorgio Asproni il quale, però, inclinava al moto di unificazione dello Stato italiano rivolto soprattutto al sostegno delle impoverite plebi meridionali contro lo sfruttamento del capitalismo settentrionale. In lui era la coscienza di una patria isolana con una precisa etnia e una particolare cultura. Ne difese e promosse gli interessi ed esaltò la libertà, tanto da incitare i sardi a “muovere” i loro “Vespri”.

Scriveva Giovanni Siotto Pintor che “in ogni tempo i continentali tennero le isole come colonie, come spugne da spremere e da succhiare. Con piede tardo arrivò il 1848 allorché, invasa la popolazione da quella mattezza collettiva della quale più esempi si vedono nella storia, gridò l’unione immediata, la quale contro ogni buon costume confuse le sorti di un infante con quelle di un popolo maturo. Quando sarà che le isole raggiungeranno il continente senza chiedere venia allo statuto, io risponderò che non mai. Dunque, non può essere col continente unione, anzi separazione. Ciò è sentito da tutti gli isolani di ogni parte dell’isola. Se vi si facesse un plebiscito, compresi i ragazzi, senza dubbio nessuno voterebbe per essere lasciati a sé”. Il Siotto Pintor nella Storia civile dei popoli sardi, celebra i moti antipiemontesi dell’ultimo decennio del Settecento e il tentativo di G.M. Angioy e dei suoi seguaci teso a fondare su nuove basi politiche e sociali l’autonomia della Sardegna. In pari tempo (1878), collega l’autocritica collettiva dei sardi alla fusione del 1848, al ricordo degli istituti di antica autonomia e del triennio rivoluzionario.

11 - Nell’ultimo ventennio del secolo XIX la questione sociale, determinata dai turbamenti del mondo rurale e dai moti in quello minerario e operaio urbano, si accomuna alla rivendicazione politica, sostenuta dai partiti socialisti; né mancano riflessi in queste istanze della specificità etnica, storica e culturale dell’isola. Ma gli auspici di liberazione della Sardegna si palesano, più espliciti, con accenti di protesta e di riscossa, nella poesia colta e popolare, nell’arte, nella narrativa a sfondo popolare.

La poesia popolare del su connotu, d’intonazione sociale con occhi volti ai valori del passato, prepara il clima culturale in cui produrranno Sebastiano Satta e Grazia Deledda. Il primo attinge l’ispirazione socialista negli anni di studio nell’Università di Sassari: un socialismo di natura “sardista” che non perde le implicazioni borghesi. Satta esalta il popolo sardo con una aggressione verbale di tipo sciovinista. Il suo indipendentismo socialista si alterna al desiderio della bara d’elce in cui porre la Sardegna per sprofondarla in mare . Nella Deledda, che non ha deviazioni socialiste ma non è immune dal positivismo, il “sardismo” è meno drammatico, non impegnato, perché il suo non è il sardismo politico. E’ il “sardismo” di coscienza della diversità. E’ un sardismo “enfatico”, ma sincero. La sardità autentica sta, per lei, nei valori che ripropone la forza fantastica e artistica dei suoi romanzi. Il “sardismo” è recuperato anche attraverso il folklore che non è di cornice ma si sostanzia di valori, è cultura sarda irrinunciabile senza di che i suoi romanzi non hanno senso.

12 - Le aspirazioni autonomistiche riemergono nel movimento di opinione antiprotezionista contro gli industriali del Nord, negli anni 1907 – 1909. Il movimento unisce nell’azione ambienti intellettuali, borghesi ed operai e si rispecchia anche nella stampa quotidiana e periodica del tempo. Nel foglio socialista “La Folla”, nel dicembre del 1907, si svolge un significativo dibattito sul “separatismo”. Altri fogli socialisti, nelle elezioni politiche del 1909, sostengono la candidatura del radicale e autonomista Umberto Cao. Sintomi interessanti di risveglio autonomistico si traducono, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, nell’intensa azione di propaganda svolta nel Sassarese e nel Logudoro, dal bonorvese Giovanni Antioco Mura. Egli tentò di sviluppare, operando nel mondo contadino, le idee del socialismo sindacalista con l’innesto di istanze autonomistiche e sardiste, nel solco nell’antico movimento angioyano.

Di notevole rilievo nella storia del “rinascimento” dell’autonomia, appaiono la visione teorica e l’attività politica del nuorese Attilio Deffenu. Di educazione anarco – socialista e antiprotezionistica, auspica la nascita d’una borghesia imprenditoriale sarda, autonoma, moderna, da porsi come nuova classe dirigente. Nel capitalismo endogeno e nell’economia liberista vede il “risorgimento” politico, sociale e morale. Dunque, un autonomismo di classe, avulso da un progetto istituzionale e territoriale di autonomia, fondamento di compiuto autogoverno.

Nel V° Congresso socialista sardo, governato da Angelo Corsi e Alberto Figus, emerge forte la richiesta d’un regime di autonomia politica, da realizzare con l’istituzione di un Parlamento sardo legiferante; dirigente la classe operaia. Nel 1918, anno di celebrazione del Congresso socialista, Umberto Cao, che ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende politiche cagliaritane del primo decennio del secolo, promosse un Manifesto per l’autonomia istituzionale e territoriale della Sardegna.

13 - Nel solco di questa tradizione, finito il conflitto mondiale 1914 – 1918, il movimento autonomistico e sardista fece un grande balzo in avanti. Diventò movimento di massa. Nacque dall’esperienza della guerra che vide “uniti” oltre centomila soldati, proletari e piccoli borghesi, reclutati nell’isola. L’istanza autonomistica fu raccolta dapprima appunto dall’Associazione di militari e reduci fondata nel 1918 da Camillo Bellini e Arnaldo Satta Branca. L’Associazione non fece suo l’appello del Cao per la creazione di un “Partito autonomista sardo che proclami la necessità dell’autonomia, già rivelata nella germinazione improvvisa e vigorosa d’un sentimento comune”. Un partito autonomista, come “Partito sardo d’azione”, dopo l’elaborazione teorica dovuta ai suoi più eminenti rappresentanti (C. Bellieni, E. Pilia, E. Lussu, U. Cao, Fancello e altri), nacque e si costituì nel congresso di fondazione, tenuto a Oristano il 16/17 aprile del 1921.

Motivo ideale del Partito era la “conquista dell’autogoverno e della sovranità per il popolo sardo e per il popolo italiano”. Partito di popolo inteso a “dare coscienza di sé al proletariato”. Autonomia regionale da esplicare nelle forme della libertà doganale, del libero mercato e scambio, in regime sociale di uguaglianza economica, da realizzarsi attraverso la costituzione di sindacati. La produzione che ne deriva “sarà tutta dei lavoratori e per i lavoratori”. Il maggior teorico – C. Bellieni – auspica uno Stato federale di Regioni-Stato con potestà d’imperio, con poteri primari nei campi di competenza riservati all’Ente-Regione, espresso dal basso, dall’ambito delle province. Nel Partito trovano rispondenza le aspirazioni di un mondo in prevalenza rurale e pastorale, ma non estraneo alle città e alle zone minerarie, diretto da intellettuali della piccola e media borghesia urbana e delle campagne. Nel Partito sardo d’azione si distingue, sebbene in minoranza, un’ala di sinistra, che fa capo a Emilio Lussu, nella quale l’autonomismo acquista una duplice valenza. Vuole rivendicare un nuovo quadro istituzionale federale o regionale a livello alto di “potere” e, insieme, riscattare le masse lavoratrici sarde indirizzate ad assumere ruolo e funzione di autogoverno. Con l’andare del tempo, nel 1972, Lussu diventa federalista, socialista e internazionalista. D’altronde, lo stesso Bellieni, nel 1925, quattro anni dopo la nascita del Partito, a fronte della crisi dello Stato democratico, affermava l’esigenza di riprendere il contatto con le masse proletarie d’accordo con quei partiti che le rappresentano, e che in questo ritorno alle masse stava il vero significato della parola “autonomia”.

14 - Se il maggior riferimento di appartenenza etnica, cementata dal sentimento unitario autonomistico, va al partito che assume significativamente il nome di sardo, nondimeno l’autonomismo regionale tocca, seppur con minore intensità, altre forze politiche di massa di ampio spettro nazionale.

Su d’un moderato autonomismo si fonda il Partito popolare italiano, di derivazione giobertiana e sturziana, con base larghissima nel mondo rurale e nei ceti medi urbani. Un grande partito di contadini, scriveva A. Gramsci nel 1920. In Sardegna attrasse a sé parte dell’aristocrazia post – feudale di tradizione piemontesizzante e sabauda e i transfughi dal coccortismo e dal democratismo radicale. Essenzialmente municipalista, incline alla conciliazione tra Stato e Regione, tendenzialmente monarchico, il partito sturziano è orientato a una semplice riforma dello Stato. L’Ente elettivo, rappresentativo, autarchico e legislativo previsto da Sturzo, non esclude poteri dell’apparato burocratico statale. Nel popolarismo entra pure il meridionalismo come suggestione salveminiana e l’interesse per la classe rurale ha preoccupazioni economiche e religiose a sé stanti.

Anche l’ala federalista e municipalista del Partito italiano d’azione propone un discorso autonomista. Rivendica l’indipendenza dell’ente – Regione dallo Stato per tutte le funzioni di natura economica e sociale con potestà d’imperio primario nella propria sfera di competenza determinata dai limiti posti dalla sovranità dello Stato federale costituito dalle Regioni.

All’interno del Partito comunista italiano risalta l’ipotesi gramsciana di autonomia. Già nel 1922 Gramsci avanza la parola d’ordine sulla trasformazione dell’Italia in una “Repubblica federale di operai e contadini” e suggerisce l’opportunità di dialogare in Sardegna, a tal fine, con il Partito sardo d’azione. La questione sarda è da risolvere a partire da una rivendicazione etnica – territoriale e dalla remota, diffusa e insistita aspirazione all’autonomia e all’autogoverno, con ripetuti tentativi, peraltro mai riusciti, di sottrarsi al dominio straniero e di darsi proprie istituzioni. Questo storico anelito al riscatto si rifletteva anche nel sovversivismo elementare, sino a forme deviate, delle masse contadine e popolari sarde e nel loro istintivo sentimento anti-continentale. Occorreva, dunque, riunire e organizzare queste forze matrici, implicitamente, dell’autonomia in un insieme di forze regolari da imporsi a guida del riscatto dall’oppressione secolare. Più nettamente, questa questione, di sardismo e autonomismo, è posta fa Gramsci, nel 1936, nello scritto Alcuni temi della questione meridionale. Qui la “questione” da sarda diventa meridionale e nazionale insieme. Il sardismo, cioè il Forza paris dei sardi, viene assunto come forza classista e omogenea dell’intellettualità libera dalla conservazione borghese, in alleanza con i ceti rurali e operai. La “questione” è posta in termini di un “quasi sardismo” che passa alle tesi del socialismo scientifico. C’è, in effetti, il superamento del sardismo e del regionalismo tradizionale e una svolta polemica con quest’ultimo, come nella questione meridionale Gramsci entra in polemica con le tesi salveminiane.

15 - Già all’inizio del formarsi di questo schieramento autonomistico di differente estrazione ideologica, preludio di una felice età dell’autonomia e del conseguente progresso democratico e civile dell’isola, irrompe il fascismo. Il fascismo tentò di attrarre nella sua orbita lo stesso Partito sardo per un confronto sulla base della comune matrice combattentistica e con richiamo ai contenuti meridionalistici e rinnovatori.

La trattativa, nel 1923, fu posta sul terreno della concessione alla Sardegna d’un regime di autonomia regionale legislativa e amministrativa in materia economica e non solo economica. Su ciò poteva configurarsi uno schema di patto di fusione del P.N.F e del P. s. d’azione. La risposta di Mussolini fu negativa. Si ruppe la trattativa e si spaccò anche il P. s. d’azione in una destra filofascista o sardofascista e il grosso del personale dirigente e della base di massa del partito, passato all’opposizione, fermo sulle posizioni originarie dell’autonomismo regionale, in aperto e schierato antifascismo.

Con le leggi eccezionali del novembre 1926, la dittatura fascista spense tutte le voci libere, interrompendo, per un ventennio, il percorso della stagione felice dell’autonomia diffusa e del sardismo partitico e generalizzato. Ma non cessò il desiderio di autonomismo e di libertà. Nello stesso piccolo mondo del sardofascismo rimase qualcosa del programma del Partito sardo d’azione. Nel terreno economico Paolo Pili, diventato da sardista deputato e segretario del fascio cagliaritano, creò la Federazione delle latterie sociali della Sardegna per sottrarsi al giogo del capitale caseario privato continentale e procurò canali autonomi di credito e commercializzazione in primo luogo negli Stati Uniti d’America. Impresa fatta fallire dal grosso capitale italiano che aveva in prima linea promosso e sostenuto il regime dei fasci. A Pili non toccò migliore sorte all’interno del partito perché fu sostituito in tutti i suoi incarichi economici e politici, riducendosi, alla fine, a vita privata. Uomo retto, rimase nell’animo “sardista”. Egli cadde nell’errore di voler conciliare contenitori di libertà quali l’autonomismo e il sardismo con una espressione di tirannia. Per il resto, il sardismo – autonomismo si ritrasse nella coscienza, nella ricerca e negli atti in favore dell’identità e dei valori isolani da parte degli storici (C. Bellieni, R. Carta Raspi, B.R. Motzo)) degli artisti (Carmelo Floris), di letterati (Egidio Pilia) del diritto (Antonio Marongiu) e in riviste di storia, cultura e tradizioni popolari sarde.

16 - E’ nell’approssimarsi alla fine dell’ultima grande guerra che si risveglia l’istanza sardista e autonomista di segno antifascista, nel tentativo di liberazione della Sardegna. In concomitanza con la guerra civile di Spagna, E. Lussu promosse una cospirazione, cercando di coinvolgere antifascisti sardi (popolari e sardisti residenti nell’isola) e volontari (anarchici, comunisti, sardisti e senza partito combattenti nelle brigate internazionali repubblicane in terra iberica) per uno sbarco in Sardegna che avrebbe dovuto provocare un’insurrezione e un colpo di Stato. Progetto andato a monte a finito con l’arresto di alcuni cospiratori del Nuorese.

Il ritiro spontaneo delle truppe tedesche (la 90° divisione corazzata) dall’isola nel 1943, il vuoto di fascismo nella maggior parte del territorio sardo, oltre che la pronta occupazione delle forze anglo – americane al comando del generale Webster, tolse l’occasione al manifestarsi in Sardegna, se non in forme sporadiche senza risonanze, del movimento di liberazione nazionale che, nel 1945, pose fine al conflitto internazionale e alla guerra civile nella penisola italiana. Il potere reale fu assunto dal comando militare alleato. Si formò un Comitato regionale con una giunta consultiva. Il 27 gennaio 1944 il governo fu affidato a un Alto Commissario nella persona del generale di squadra aerea Pietro Pinna, con la somma del potere politico e civile.

17 - Si ricostruirono i partiti dell’antiguerra, con i programmi più o meno variati, ma tutti con l’intento di dotare i sardi di più ampi poteri rispetto al passato.

Con l’Appello del Partito comunista di Sardegna nacque il Partito comunista sardo, di orientamento federalista, in tono con i motivi e le parole d’ordine gramsciani presenti già nel programma approvato nel 1920 dal congresso comunista di Lione. Il Partito comunista di Sardegna si dichiara autonomo ma direttamente collegato con l’Internazionale comunista. Ma nel primo congresso del Partito comunista italiano, tenuto a Iglesias l’11/12 marzo del 1944, fu sciolto per averlo ritenuto separatista. Soltanto nel 1947 il P.C.I si incammina sulla via dell’autonomismo di ispirazione gramsciana.

Il risorto Partito sardo d’azione, a parte una frangia iniziale separatista con segrete simpatie filoamericane e filobritanniche, nei congressi del 1944 e 1945, fedele al principio d’uno Stato federalista repubblicano italiano, continua a rivendicare un autonomismo regionale forte e radicale, con poteri legislativi sovrani e piena competenza nei settori finanziari ed economici di base liberista. Rispetto al passato emerge l’attenzione a un programma di riforma sociale.

Nel partito della Democrazia cristiana, erede del Partito popolare sturziano, si avverte un più attento interesse alla “questione sarda”. Antonio Segni, anticipando le decisioni del Consiglio nazionale sulla necessità d’un ordinamento regionale autonomo del Paese, prese per primo e risolutamente posizione per l’autonomia regionale della Sardegna. L’isola, - scrive – al pari della Sicilia, è una regione prima ancora di qualunque argomentazione politica. E’ regione per aspetti peculiari geografiche, storici, aspirazioni e atti intesi a governarsi da e stessa. Segni, nel maggio del 1944, sostiene le necessità di istituire una Camera delle Regioni in luogo del vecchio Senato. Il gruppo della D.C di Pozzomaggiore, paese nativo dell’Alto Commissario Pinna, rasentava posizioni di radicale autonomia per la Sardegna, ai limiti della secessione.

Autonomisti erano nell’isola, pure nelle differenti ideologie, repubblicani, azionisti e persino i liberali radicali del giovane Francesco Cocco Ortu, di orientamento “gobettino”.

18 - Era, questo, il clima politico nel 1945, così che Gonario Pinna, allora militante nel Partito sardo d’azione, poteva affermare che “tutti ammettono la necessità dell’autonomia per l’isola” e il suo correligionario Luigi Battista Puggioni osservava “l’impressionante fenomeno che tutti i partiti, qualunque sia la loro tendenza o colore, si professano autonomisti”.

Ma si tratta di puro sentimento, per così dire virtuale, che non porta a una coscienza e a un’azione comune, ad unità reale.

Da queste ambiguità e contraddizioni non poté sorgere un compatto movimento sardo per l’autonomia, un fronte unico di sostegno e di realizzazioni, pur auspicato da talune parti. Infatti, non usciranno a buon fine la “Giornata unitaria dell’autonomia” celebrata a Cagliari nel giugno del 1947 per l’emanazione dello Statuto sardo poco dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente della riforma regionalistica dello Stato, né il successivo “Convegno per l’economia” a Macomer, presenti sardisti, democristiani, socialisti, comunisti e repubblicani. Infine, le divisioni dei partiti in campo nazionale indussero gli stessi partiti in Sardegna a separarsi sino a confliggere.

19 - Di questo clima politico incostante soffrì la prima Costituente sarda insediatasi nell’aprile del 1945 e successivamente rinnovata nei suoi componenti nel giugno del 1946, per esprimere, alla fine, un testo statutario approvato a maggioranza il 20 aprile del 1947. Nel corso dei lavori, assai travagliato, si confrontarono vari progetti di Statuto, di diversa misura e peso autonomistico, né si volle accogliere il modello dello Statuto siciliano già approvato dalla Consulta nazionale nel 1946, uno Statuto con ampi poteri di autonomia, a base quasi federale. Ne sortì, al termine dei lavori, uno Statuto sardo già in partenza mutilato e svuotato di poteri, privo d’imperio. Per di più, il testo statutario, trasmesso all’Assemblea costituente nazionale per l’approvazione che si sollecitava immediata, fu rimessa da questa al Governo con l’invito a provvedere un disegno di legge costituzionale che tenesse conto anche del progetto di Statuto elaborato dalla Costituente sarda. Dopo tanta pena, il progetto fu approvato, a larga maggioranza, in extremis, proprio nell’ultima seduta dell’Assemblea costituente, il 31 gennaio del 1948. Diventò legge costituzionale il 26 febbraio 1948, col n. 3, pubblicata nella G.U. n. 58 del 9 maggio di quell’anno. Il 28 maggio del 1949, si insediò il primo Consiglio regionale della Sardegna. Si badi, “Consiglio”, non “Parlamento” come si titola l’Assemblea siciliana.

20 - Questo Statuto, nato zoppo, di parziale autonomia, non consacrava le aspirazioni e le lotte secolari dei sardi per vedere riconosciute ed esaltate, in una solenne Carta costituzionale, la peculiarità etnica, culturale, storica, politica e territoriale d’un popolo distinto, risorto a nazione. Nei suoi limiti e nelle sue mutilazioni era implicito che sarebbe stato faticoso e aspro il cammino per realizzare un sistema efficace e moderno di autogoverno. In uno Statuto “incompiuto” era in nuce una “autonomia incompiuta”, una nazione sarda “dimidiata”. Una Carta con poteri “deboli” rendeva impari il confronto tra la Regione e lo Stato, la prima “suddita” del secondo. Difatti la Regione sarda non aveva le “radici” statutarie, la forza intrinseca costituzionale per agire in proprio, secondo il proprio “genio”, in modo “eccentrico” rispetto allo Stato, bizzarra, fantasiosamente creativa. Non poté farsi e tanto meno mantenersi continuamente in “giro” autonomo e autonomistico. Invece ha dovuto mimare il sistema e gli schemi dello Stato, duplicando competenze, seguendone pedantemente legislazioni e ordinamento. Si è introdotta (o costretta a introdursi) nella morsa d’un ingranaggio “copernicano”, in un sistema di anelli concentrici dove il cerchio minore (la Regione) gira perfettamente concentrico al cerchio maggiore (lo Stato), per cui lo Stato gira in maggiore e la Regione gira in minore, in un rigoroso e astratto sistema matematico. Impigliata nella tela del ragno statale, la Regione finisce col diventare succursalista dello Stato.

Si credette di poter soddisfare le antiche passioni e pulsioni di riscatto autonomistico per il progresso, introducendo all’articolo 13 dello Statuto, unico fra tutti gli Statuti di autonomia speciale, un “Piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna, da predisporre e attuare con concorso della Regione”. E’ vero che l’articolo 13 si rifà a una logica di sussidiarietà, ma anche di corresponsabilità, di compartecipazione, di solidarietà. Ma nel processo dell’attuazione è rimasto mero enunciato giuridico formale, perché non vi hanno corrisposto le garanzie e gli atti delle politiche del governo nazionale. Del resto, le ragioni dello scarso successo del Piano, denunciato già nella relazione generale che introduce il progetto del quarto programma esecutivo del Piano di Rinascita per gli esercizi 1967 – 1969, stanno in realtà nella natura degli interventi previsti dalla legge attuativa del Piano (la n. 588), che si riferisce a intervento straordinario. La legge n. 588 è una legge di “riforma” e della sfera “economica e sociale” generale (per il contenuto politico, l’indirizzo ideologico, le conseguenti forme e tecniche d’attuazione). Perciò lo Stato può richiamare (come più volte ha richiamato suscitando contestazioni e conflitti) l’interesse nazionale, con tutti i vincoli, i limiti e le ingerenze sull’attività regionale che ciò comporta. Sebbene sembri una legge “motoria” dell’attività autonomistica regionale sarda, in quanto legittima la Regione ad essere soggetto e rappresentante degli interessi generali emergenti nell’ambito locale e determinati dalla programmazione autonoma, e la delega anche all’attuazione, in sostanza la legge stessa prevede una serie di blocchi per cui sembra piuttosto doversi parlare di una programmazione e di una attuazione condizionate. Può dirsi, questa, una programmazione autonomista, dinamica, effettivamente (non soltanto verbale) democratica, sinceramente regionalista? Si tratta d’una pianificazione “arbitraria”, di vertice, non di base, senza controllo sociale né all’origine né per i risultati. Se poi si guarda al rapporto tra la programmazione regionale sarda (nella specie della legge 588) e la programmazione macroeconomica nazionale, la prima è stata egemonizzata e condizionata dalla seconda alla quale – volente o nolente – si è dovuta arrendere nella logica del sistema centralistico e autoritario dello Stato.


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