Autonomia e riscatto, I principi libertari ed identitari di g m. angioy a 210 anni dal moto popolare



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30 - Da quanto detto appare che gli anni 1968/1972 segnano da una parte il tormento dell’autonomia e dall’altra la percezione della crisi e il proporsi di intenti, taluni radicali, e di atti, se pur pochi, ora fondati sulla base culturale, che si ritengono rigeneratori, per nuovi percorsi, dell’istanza autonomistica. In questa prospettiva, pur permanendo la crisi generale del meccanismo di sviluppo, l’insufficienza dei programmi, la stretta internazionale, il governo regionale del tempo, abbandonata la linea politica remissiva, della così detta “contestazione” del”66, nel 1974 apriva decisamente la vertenza Sardegna nei confronti dello Stato diventato “separatista” alla rovescia rispetto alla Regione. Si poneva in veste nuova la “questione sarda” non ancora risolta.

Nonostante così buoni auspici, il quadriennio 1974-1978 non riesce a produrre e a stabilire un diverso e più avanzato rapporto con lo Stato, una dialettica efficace. L’incipiente degenerazione del tessuto dei partiti tendenti ad accordi di vertice, l’assemblearismo, i blocchi strumentali portano i governi a impigliarsi in una rete regressiva da cui non riescono a uscire, adagiandosi in un alternarsi di pure formule: dal centro sinistra al monocolore, in quelle della “non sfiducia”, dell’intesa, della “unità autonomistica di base sardista”, del “compromesso in fiore”. Condizione, dunque, di governo regionale di instabilità e di indecisione, se non di stallo, indisponibile a raccogliere, non si dice a soddisfare, la domanda di autonomia che saliva forte e diffusa dall’esterno: da circoli di intellettuali “disorganici”, da movimenti politici estrapartitici, da frange volontaristiche della società sarda.

31 - In data 16 dicembre 1974 il Preside inviava una lettera ufficiale a tutti i Sindaci dei Comuni della Sardegna, richiamando l’attenzione sul documento della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo di Cagliari del 19/02/1971, per esprimere un parere o un’adesione all’iniziativa della Facoltà. Nel corso del 1975 e 1976 pervennero delibere di adesione di 28 Consigli comunali delle 4 Province dell’isola. Si dovevano inoltre registrare una serie di altri consensi e iniziative del mondo della scuola e dei circoli e federazioni culturali. Nell’autunno del 1975, a Ozieri, si costituiva un Comitato provvisorio di iniziativa e coordinamento per la lingua e la cultura sarda con successivi incontri a Ozieri, San Sperate e Bauladu. All’atto della costituzione il Comitato predispone una bozza di statuto della costituenda “Associazione per la lingua e la cultura sarda”. Negli anni 1975 e 1976 è stato vivo e notevolmente animato il dibattito, a serrato confronto, nei quotidiani e periodici dell’isola, con interventi assai significativi e incidenti sulla conoscenza della questione.

In questi atti di istituzioni decentrate, a livello locale, e nelle iniziative nelle sedi scolastiche e negli spazi culturali, si coglie da una parte una posizione politica e dall’altra il formarsi d’una opinione di massa che preme sull’istituto regionale perché si attivi nel rivendicare il riconoscimento di minoranza etnica – linguistica per la Sardegna e la tutela, anche attraverso l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado, della lingua e della cultura sarda. Ma ben più forte e decisiva è l’azione di stimolo e di spinta propulsiva alla Regione, dovuta al sorgere e costituirsi del movimento “nazionalitario” o “movimento di autocoscienza nazionale sardo”. Vengono infatti superati il sardismo storico del partito sardo d’azione e il sardismo concepito come base dell’unità autonomistica dei sardi. Il movimento si nutre di contenuti etnici, morali, politici, storici, dei valori della “diversità” e di “identità”, caratteristici e fondanti in una terra riconosciuta quale “nazione” a sé stante nello Stato italiano. E’ questo movimento, sono i gruppi di estrazione ideologica e culturale diversa che lo compongono - Su Populu Sardu, Sa Sardigna, Nazione Sarda, Sardegna Europa, “Forze Nuove” che fa capo al periodico “Il Popolo Sardo”-, i “paladini”, i “cavalieri”, i “signori dell’autonomia”, in termine di autodeterminazione del popolo sardo.

E’ dal Movimento nazionalitario sardo che, elaborata e poi presentata e approvata a Nuoro nel dicembre del 1977, viene la proposta di legge “Iniziativa legislativa del Consiglio regionale della Sardegna dinanzi al Parlamento a norma dell’articolo 51 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. l, a presentare al Parlamento una proposta di legge per la tutela della Minoranza linguistica sarda in applicazione dell’art. 6 della Costituzione della Repubblica. Si chiedeva il riconoscimento al sardo degli stessi diritti della lingua italiana nonché il suo uso non soltanto nella scuola ma anche negli organi e uffici della pubblica amministrazione e nelle adunanze degli stessi (Regione, Province ed altri enti locali).

Il 13 luglio del 1978 la proposta di legge fu presentata al Consiglio regionale, accompagnandola con 13.540 firme di elettori. Ma in aula non ebbe il consenso dei Consiglieri. Veniva così a scoprirsi (al di là degli infingimenti) quanto in basso fosse scesa la temperatura dell’autonomia divenuta un orpello in quel consesso e la pochezza dei componenti privi di cultura autonomistica e, peggio, senza coscienza nazionale, senso di appartenenza e orgoglio di sardi. Lo stesso Consiglio credette di rimediare il malfatto, dopo 4 anni, il 9 aprile 1982, con un provvedimento legislativo di iniziativa consiliare, anodino, criptico e già in partenza inefficace, affermante il principio di parità giuridica della lingua sarda rispetto a quelle italiana. Chiedeva inoltre al Parlamento italiano il riconoscimento del sistema del bilinguismo e la sua attuazione successiva con la legge della Regione, cosa costituzionalmente impraticabile. Netto rifiuto, a stragrande maggioranza, nella prima Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, in quanto la legge regionale andava oltre il concetto di tutela dell’articolo 6 della Costituzione e anche – è da presumere – per “l’imbroglio” di quel tardivo e immaturo parto legislativo.

32 - Tale era la situazione quando, svegliata dalla Commissione europea, la Regione si indusse a celebrare a Nuoro e poi ad Alghero, dal 2 al 5 di ottobre del 1986, un convegno con tema “Lingue diffuse e i mezzi di informazione: problemi delle radio - televisioni”. Il convegno fece voti perché il governo italiano volesse ascoltare le istanze prodotte da movimenti di minoranze etnolinguistiche, come la sarda, aspiranti ad un appagamento delle ragioni della loro identità storica e al loro riconoscimento. Ciò si chiedeva tenuto conto anche del voto del Parlamento europeo che, nella seduta del 16 ottobre 1981, aveva approvato la proposta di risoluzione su d’una Carta comunitaria delle lingue e delle culture regionali e una Carta dei diritti delle minoranze etniche. Il parlamento europeo si rivolgeva ai governi nazionali e ai poteri regionali invitandoli a porre in opera una politica nei campi dell’istruzione, dei mezzi di comunicazione di massa, della vita pubblica e dei rapporti sociali. Indicava inoltre alla Commissione (ossia al Governo) della Comunità europea di prevedere, nel quadro dell’educazione linguistica, progetti – pilota destinati a verificare i metodi di educazione plurilinguistici e raccomandava che il Fondo regionale finanziasse progetti rivolti a sostenere le culture regionali e popolari e a soddisfare le aspettative delle minoranze etniche e linguistiche europee. Per di più, il Parlamento europeo riteneva che la presenza dei mezzi di comunicazione di massa, tanto potenti, fossero indispensabili per un buon esito e, in generale, perché le minoranze etniche – linguistiche avessero strumenti di sostegno e di comunicazione delle loro culture. Si doveva assicurare, dove non ancora possibile, il diritto delle minoranze ad accedere alla radio e alla televisione con programmi autonomi e nella propria lingua, non limitati ai notiziari, ma estesi a tutti i settori nei quali le minoranze possono manifestare, nel confronto aperto, le loro specifiche culture.

Nonostante le istanze, raccomandazioni, proposte emerse nel Convegno internazionale di Nuoro – Alghero, l’odissea della lingua sarda continuò senza ascolto. Soltanto nel 1989 fu presentato al Consiglio regionale della Sardegna un disegno di legge su “Lingua e cultura sarda”. Cadde in assemblea. Sui consiglieri più che la lingua poté la caccia al voto per la successiva legislatura. Nuova proposta su “Lingua e cultura” nel 1994, approvata dal Consiglio regionale con risicata maggioranza, respinta dal Governo italiano e dalla Corte Costituzionale alla quale la Regione aveva ricorso. Infine, nuovo testo di disegno di legge nel febbraio del 1995, approvato dal Consiglio con i voti dell’intera maggioranza e di gran parte della minoranza. Approvato anche dal Governo italiano nel 1997, dopo venti anni dalla prima proposta di legge nazionale di iniziativa popolare del 13 luglio 1978.

33 - La legge regionale n. 26 del 15 ottobre del 1997, consente di riconoscere qualche merito alla Regione, dopo tante incomprensioni, opposizioni e demeriti. Al fine ha risposto agli stimoli e alle insistenze venute da forze culturali e politiche, dai media, dai sindacati e da esponenti avvertiti della società civile sarda.

Insomma, la coscienza dei valori di radice ha toccato anche l’istituto regionale per lungo tempo inerte e sordo agli appelli. E’ riemerso dal profondo delle origini il valore dell’identità del popolo sardo. Una vittoria dell’autonomia innata nel codice genetico dei sardi.

A fondamento della legge n. 26 sta “l’assunzione dell’identità del popolo sardo come bene da valorizzare come presupposto fondamentale di ogni intervento rivolto al progresso personale e sociale”. Come “bene fondamentale” la lingua sarda è inscritta nell’articolo 2 del titolo I, riconoscendole “pari dignità rispetto alla lingua italiana”. La Regione pone la lingua sarda quale parte integrante della sua azione politica con impegno conforme ai principi di pari dignità e del pluralismo linguistico sanciti dalla Costituzione e a quelli che sono alla base della Carta dei diritti delle minoranze etniche. Il dispositivo della legge, quanto all’insegnamento della lingua nelle scuole sarde, prevede soltanto una forma di sperimentazione sullo studio della stessa con progetti formativi da adottare nelle scuole materna, elementare e superiore, nell’ambito dell’esercizio dell’autonomia didattica. Si potrà inoltre usare la lingua sarda come strumento veicolare in tutte le aree formative, in tutti gli ambiti disciplinari, e formulare programmi educativi biculturali e bilingui. Quanto ottenuto non è di certo tutto quello che si chiedeva e si chiede. Non è appagata l’istanza primaria, cioè l’insegnamento della lingua e la lingua sarda usata anche nell’apprendimento delle varie discipline. Insomma il bilinguismo è ben lontano dalla realizzazione. Ma lingua e cultura sarda escono dalla clandestinità e sono riconosciute e garantite con un atto formale che consente di operare legittimamente nella scuola e altri spazi, seppure angusti.

L’orizzonte operativo in autonomia viene ora allargato e la ragione fondamentale della rivendicazione per la Sardegna di entità etnica – linguistica minoritaria è stata soddisfatta dalla legge nazionale sulla tutela delle minoranze etniche linguistiche nel nostro paese, approvata dai due rami del Parlamento e promulgata in questo anno 1999: anno “benedetto” per lo specifico, ultimo dello sciagurato “secolo breve”. Ce ne è voluto del tempo – ventotto anni – per vincere una giusta causa sollevata dalla delibera, ormai diventata storica, della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo cagliaritano adottata il giorno 28 febbraio del 1971.

Questi due provvedimenti legislativi, tanto sofferti nella lunga attesa, e che ora ci sono, segnano eventi memorabili nella storia della autonomia sarda. Essi vengono a compensare amarezze e delusioni per le non poche defaillances alternate a non molti successi della Regione statutaria di cui or e da poco, si è celebrata la ricorrenza cinquantennale con toni purtroppo non esaltanti. L’autonomia regionale, arricchita da questi nuovi e fondati contenuti, può aprirsi a compiuti traguardi, segnare una svolta uscendo dal buio che oggi la avvolge per circostanze ambientali e debolezze politiche, e rilanciarsi per operare per il bene dell’isola. Occorre superare l’attuale sconcerto, richiamandosi, per conforto, alla memoria storica e al suo percorso millenario su due “costanti”: la “costante resistenziale” e la “costante autonomistica”. Quest’ultima è assimilabile a un corso d’acqua in un terreno carsico, che per lo più fluisce all’aperto e ravviva la terra e la gente e la fa crescere liberamente, ma a tratti si ingrossa sfuggendo a cose estranee che tendono a corromperlo e ad essicarlo, per riemergere quando il pericolo è cessato.

Nel senso di questa metafora, va l’augurio che la Regione sarda si imbarchi, navigando serenamente verso il III millennio, e che, giunta a quel porto, riprenda il cammino, per vie nuove, e le opere sino a quando, sentendosi giunta al termine, si tramuti da Regione in Nazione.

 


La rifondazione dell'Università di Sassari e il rinnovamento degli studi nel Settecento

di Piero Sanna

 

1. La crisi culturale e l'assolutismo sabaudo



Nei primi anni sessanta del Settecento, mentre il governo sabaudo si disponeva a completare la riforma delle scuole del Regno di Sardegna1, le inchieste sulle Università di Cagliari e di Sassari mettevano definitivamente a nudo le condizioni di crisi in cui versavano i due antichi atenei dell'isola. La crisi aveva radici comuni, ma la situazione dell'Università di Sassari, nella quale il locale Collegio dei gesuiti monopolizzava la direzione e la gestione accademica dello Studio generale, apparve ben presto politicamente più spinosa di quella cagliaritana, governata dalla municipalità e da una pluralità di corpi e istituzioni che finiva per renderla più permeabile all'iniziativa regia.

In effetti la realtà sassarese presentava alcune vistose distorsioni che i funzionari sabaudi non esitavano a ricondurre alla debolezza delle risorse locali e soprattutto al pesante condizionamento dei gesuiti nel governo dell'ateneo: non era un caso che l'autonomia delle facoltà laiche di leggi e medicina fosse ridotta al lumicino e che l'unica parvenza di attività didattica riguardasse i corsi di filosofia e teologia.

A Sassari, infatti, in base agli atti fondativi dell'antico Studio, il rettore del Collegio massimo di San Giuseppe era anche, di diritto, il rettore dell'università: sicché, in virtù della duplice carica, l'energico padre Francesco Tocco non si faceva scrupolo di governare l'ateneo come una semplice appendice della comunità gesuitica. Dalla direzione dell'università risultava pertanto sostanzialmente emarginato quell'organo collegiale, il Magistrato della riforma, composto dal governatore del Capo settentrionale dell'isola, da due giudici togati e da due rappresentanti della municipalità, che era stato istituito nel 1738 da Carlo Emanuele III proprio per imbrigliare l'operato del rettore e far sentire la giurisdizione regia negli indirizzi e nel concreto funzionamento dello Studio generale. Peraltro, nello stesso provvedimento che disponeva la costituzione del Magistrato della riforma l'assenza di un adeguato contrappeso regio all'autorità del rettore era esplicitamente indicata come il vero punto debole – naturalmente secondo l'ottica del sovrano sabaudo – degli originari statuti di età spagnola: «essere l'Università di Sassari da' Reali nostri predecessori [...] eretta nel Collegio massimo di San Giuseppe de' padri gesuiti, senza che [...] il bon governo de' studi dipenda da un Magistrato il quale ne promuova sempre il bene, e in un tempo protegga li professori e la studiosa gioventù»2. Certo, negli anni seguenti il Magistrato della riforma fu convocato ogniqualvolta il suo parere era obbligatoriamente prescritto, ma le disposizioni che dovevano consentirgli di esercitare l'autorità regia furono sordamente osteggiate dal rettore e dai docenti gesuiti che le vivevano come indebite interferenze3.

Il predominio della piccola ma agguerrita comunità gesuitica locale si faceva sentire soprattutto sul piano didattico. Appannaggio indiscusso dei membri della Compagnia erano infatti non solo le due cattedre di teologia scolastica e quelle di filosofia, di teologia morale e di sacra scrittura, ma anche quella, assai disputata e contesa, di sacri canoni, che nel passato veniva assegnata a docenti secolari, o anche ecclesiastici ma non appartenenti alla Compagnia, e che invece era ormai diventata prerogativa esclusiva dei membri del locale collegio dell'ordine. Accanto alle sei cattedre riservate ai gesuiti, solo quattro, due di ius civile e due di medicina, erano affidate a docenti laici, spesso discrezionalmente ingaggiati dal rettore e direttamente pagati dal Collegio, che dalle sue rendite era tenuto a ricavare gli «stipendia quatuor cathedraticorum externorum qui in hac Universitate ius civile medicinamque exponunt ac interpretantur»4.

Raramente, però, nello Studio sassarese si tenevano lezioni pubbliche. Secondo le informazioni pervenute a Torino, alcuni corsi andavano totalmente deserti, mentre altri erano frequentati unicamente dai pochi studenti interni al collegio; i docenti gesuiti non redigevano i trattati prescritti per le lezioni, e i professori laici di legge e medicina si limitavano a ricevere gli studenti «nelle proprie case». Ce n'era abbastanza per far inorridire i magistrati e i funzionari sabaudi che avevano ben presente l'ordinato sistema dei corsi e degli esami pubblici su cui si fondava la vita accademica dell'Ateneo torinese. Eppure il distacco della concessione dei gradi accademici da un'effettiva attività di insegnamento e la sostituzione dei corsi ufficiali con un praticantato professionale basato su lezioni domestiche rappresentavano una caratteristica comune a molti atenei italiani alla vigilia delle riforme universitarie del secondo Settecento5. Era semmai l'Ateneo torinese precocemente riformato da Vittorio Amedeo II a costituire una vistosa anomalia rispetto all'infiacchita attività didattica che caratterizzava non soltanto gli atenei minori o periferici ma anche le università più importanti da Pavia a Milano, da Bologna a Roma a Napoli.

Ma due particolari assai significativi, al di là dello svuotamento dei corsi universitari, attiravano l'attenzione dei funzionari sabaudi: nell'organico docente dello Studio sassarese non erano previste «né la cattedra di Chirurgia né quella di Geometria»; e – punto particolarmente dolente – il delicato insegnamento del diritto canonico era in mano a «soggetti in apparenza insufficienti»6. Insomma, la situazione, come riferiva l'autorevole funzionario della segreteria di guerra Antonio Bongino, appariva così compromessa da giustificare l'idea, attentamente esaminata dal ministero torinese, che convenisse sopprimere le facoltà di leggi e medicina per concentrare le risorse e gli interventi sull'Università di Cagliari, facendovi convergere gli studenti di ogni parte dell'isola7. La proposta presentava diversi inconvenienti, ma era la riprova del tentativo, che stava già maturando negli ambienti governativi, di affrontare la crisi dell'Ateneo sassarese all'interno di un ripensamento complessivo del sistema dell'istruzione superiore del Regno.

È, in sostanza, la grande novità che contraddistingue le riforme scolastiche e universitarie degli anni sessanta del Settecento: per la prima volta nella storia del Regno i problemi della formazione delle élites dirigenti erano oggetto di un approccio tendenzialmente unitario che differenziava alcune soluzioni, ma puntava a un intervento organico e uniforme.

In effetti il degrado degli studi nelle Università di Sassari e di Cagliari rifletteva una crisi culturale più profonda che durava ormai da molti decenni. I primi segni della crisi (un crescente disorientamento che aveva contemporaneamente colpito l'ateneo di Napoli e i principali centri intellettuali dell'Italia spagnola) si erano manifestati nella seconda metà del Seicento, quando il declino della monarchia cattolica e la diminuita capacità di integrazione delle sue istituzioni politiche e culturali avevano innescato un processo di decadenza che si era inevitabilmente accentuato con le tumultuose vicende della guerra di successione spagnola, dell'occupazione austriaca dell'isola, della riconquista borbonica e dell'insediamento sabaudo8. Ma, al di là delle vicissitudini dei primi decenni del XVIII secolo, la crisi d'identità dei due atenei divenne irreversibile sotto la dominazione piemontese, quando la definitiva rottura di tutti i vincoli che legavano gli ambienti culturali sardi al mondo iberico determinò il progressivo inaridimento di quei canali di scambio e di circolazione delle idee da cui la cultura accademica e le élites intellettuali dell'isola avevano tradizionalmente tratto stimoli e sollecitazioni9.

In diverse occasioni, tra gli anni venti e gli anni cinquanta del Settecento, il governo sabaudo aveva dovuto registrare lo scadimento delle attività didattiche, il prevalere delle diatribe provinciali e il progressivo indebolirsi delle funzioni formative delle due università. E tuttavia i rarissimi interventi governativi non erano mai andati al di là di qualche palliativo finalizzato per lo più alla salvaguardia delle prerogative regie di volta in volta minacciate dal particolarismo municipale o dalle pretese dei gesuiti.

Il problema della formazione dei ceti intellettuali dell'isola assunse un'importanza del tutto nuova a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, quando il ministro Bogino andò concentrando sotto la sua direzione la trattazione di tutti gli affari riguardanti il regno di Sardegna. Fu allora che la necessità d'intervenire sul sistema dell'istruzione superiore divenne uno dei punti nevralgici di quel disegno riformatore che faceva leva sul potenziamento dell'economia locale e che spingeva ad affrontare con uno spirito radicalmente mutato i principali problemi della società sarda.

Un nuovo protagonista, che aveva recitato fino a quel momento una parte marginale, s'imponeva prepotentemente al centro della scena: superate le incertezze e le molteplici cautele del periodo precedente, l'assolutismo sabaudo mostrava di voler mettere a frutto il suo possedimento d'oltremare e di volervi realizzare quelle trasformazioni politiche e sociali che gli ideali della pubblica felicità muratoriana e il cattolicesimo riformatore sabaudo indicavano come architravi dell'azione del principe. Nel corso degli anni Cinquanta la rassicurante fiducia nella praticabilità di un cauto e ordinato riformismo, imperniato sul ruolo dello stato nel rinnovamento dell'istruzione e nell'educazione della gioventù, aveva via via conquistato diversi settori delle élites dominanti subalpine. Sicché all'inizio del decennio successivo il governo di Torino aveva già maturato un chiaro interesse per il buon funzionamento delle università del Regno da cui dipendeva la formazione di una nuova generazione di sudditi, laici ed ecclesiastici, professionalmente preparati e capaci di collaborare con lealtà ed efficacia ai progetti di valorizzazione delle risorse dell'isola10.

La stessa riforma delle scuole inferiori, affidata nel 1760 ai gesuiti e agli scolopi, richiedeva una nuova leva di maestri che padroneggiassero la lingua italiana e fossero in grado d'insegnarla insieme con le regole della grammatica e con i contenuti culturali dei nuovi programmi. Di qui la necessità di valorizzare, sulla scorta dell'esperienza subalpina più recente, non solo le facoltà tradizionali di teologia, leggi e medicina, ma anche il Magistero delle arti, nella sua duplice funzione di canale privilegiato per la formazione dei maestri e di strumento di trasmissione di saperi che, utili per diverse figure tecnico-professionali, erano insieme propedeutici agli studi specialistici11.

 

 2. Le linee della riforma



 Le decisioni che condussero alla rifondazione dell'Ateneo sassarese maturarono in concomitanza con la definizione delle nuove Costituzioni dell'Università di Cagliari, promulgate il 28 giugno 1764, che vennero poi estese all'Università di Sassari con il Diploma e con il Regolamento «particolare» emanati dal sovrano il 4 luglio 176512. Le nuove Costituzioni, elaborate sul modello di quelle dell'Ateneo torinese, ridisegnavano gli organi di governo e l'organizzazione della didattica universitaria, disciplinando i compiti del Magistrato sopra gli studi e regolando la vita delle facoltà, l'organizzazione dei corsi, il conseguimento dei gradi, l'assegnazione delle cattedre e perfino i criteri per la definizione del calendario accademico. Ai ventiquattro articoli del Regolamento «particolare» era affidato il compito di integrare le Costituzioni cagliaritane, adattandole alle peculiarità della realtà sassarese, per la quale occorreva tener conto delle prerogative e del ruolo svoltovi dai gesuiti.


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