Autonomia e riscatto, I principi libertari ed identitari di g m. angioy a 210 anni dal moto popolare



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Circa la sfera di attuazione del Piano, i blocchi non sono stati meno cogenti. La progettazione è conformata su schemi fissi, su “modelli nazionali”. L’assistenza tecnica in agricoltura delegata delle Regioni agli organi burocratici della Cassa del Mezzogiorno, senza che possa intervenire nelle direttive e nel controllo in quanto si interferirebbe su organi e direttive riservate allo Stato. L’Ente di sviluppo, strumento “estraneo alla Regione”, un tabù dello Stato dal quale dipende in orientamenti e forme di intervento tecnico (e non soltanto tecnico). Dove e come possono dunque manifestarsi la capacità politica, la volontà autonomistica, la responsabilità direzionale e di controllo, in definitiva l’autodeterminazione e l’autogoverno che sono caratteri fondamentali e obiettivi finali delle autonomie regionali?

Nell’articolo 13 dello Statuto ne è contenuto e consacrato il logos, la ratio, ma, nello stesso tempo, ne risaltano i limiti e l’incompiutezza. Vi appare un’indicazione della “specialità”, dell’autonomia esclusivamente economica. Si tende a raggiungere una parità economica e di condizioni di vita con il resto del Paese, ma non un vero e proprio autogoverno. Si ignora che la storia d’un popolo non progredisce soltanto con i fatti economici e che lo sviluppo non si riduce a una semplice crescita economica. Dunque una “Rinascita” materialistica, senza anima, senza identità, senza il supporto di valori immateriali (di stirpe, di lingua, di costumi). Un’attenzione volta soltanto al plafond strutturale, senza la base etnico – etico – culturale, non avrebbe potuto realizzare progresso, emancipazione, protagonismo, il “fare da sé” in libertà pur senza chiudersi al respiro del mondo. A parziale discolpa di questo Statuto “moderato”, va detto che nasceva come una sorta di acquisizione ereditata, un punto di arrivo, un passato, quasi la definizione politica d’un processo concluso. Radici, ma non ali. Per di più si usciva da una guerra perduta, da macerie, da lacerazioni dei partiti riemersi, dalla presenza nella Costituente di esponenti d’un tessuto sociale polimorfo, prevalentemente piccolo borghese, con dirigenza costituita in maggior parte da elementi di borghesia intellettuale e professionale, e da rappresentanti, tutt’altro che coesi, del mondo contadino e operaio; l’insieme, se non impreparato, scarsamente attrezzato a realizzare il sogno ambizioso dell’autogoverno.

21 - L’attenzione dei primi governi regionali fu indirizzata alla valorizzazione delle tradizionali risorse locali, agro-pastorali e miniere. Non poté esperirsi, per opposizioni del governo nazionale e interne, l’offerta americana della Fondazione Rockfeller, in tecnici, attrezzature e liquidità per concorrere a realizzare in certi settori il Piano di Rinascita. Ci vollero dodici anni per l’evento di questo Piano, col disegno di legge del Consiglio dei Ministri del 17 giugno 1961, modificato con legge del 17 giugno 1962. Il Piano fu accolto con favore, nonostante gli obiettivi si appiattissero sui contenuti generali della politica meridionalistica, fossero troppi e scarsamente coordinati gli organi che vi avevano parte e fosse dislocato il potere decisionale locale riguardo al tipo di industrializzazione rivolta in modo prevalente se non esclusivo alla monocoltura chimica e petrolchimica, chiusa in alcuni “poli di sviluppo”. Altri erano gli enunciati originali del Piano che teneva conto dell’equilibrio tra il comparto industriale e quello agricolo ora penalizzato, come limitata a poche aree l’occupazione, ipotizzata diffusa. La Regione non risultava preminente soggetto di attuazione né completi erano gli strumenti attuativi, scarso il decentramento, insiti nell’organizzazione i pericoli di burocratizzazione e lunghi (venti anni) i tempi di realizzazione.

Nel modello dei “poli” petrolchimici, calato dall’alto e dall’esterno, senza l’accertata congruità ambientale e culturale, il sottosviluppo che si voleva nelle intenzioni eliminare, non poteva uscire dalla sua condizione in quanto antitesi necessaria dello sviluppo. Difatti, acquisite le relazioni della Commissione speciale per il Piano di Rinascita sull’indagine della situazione economica e sociale delle zone interne a prevalente economia pastorale e sui fenomeni di criminalità ad esse connessi, nel 1968, il Consiglio regionale, dibattendo nella primavera del 1969 il IV Programma esecutivo del Piano di Rinascita a chiusura della V° legislatura, costatava che gli interventi attuativi non avevano procurato che una crescita di pura facciata. Il Piano non faceva giustizia, con effetto liberante, anzi nascondeva l’insidia d’una ulteriore subordinazione dell’isola. Il che non era davvero esaltante per l’autonomia.

Né rincuorante sullo stato dell’isola appariva la relazione generale presentata alle Camere il 29 marzo 1972, dalla Commissione parlamentare d’indagine sui fenomeni di criminalità in Sardegna. La Commissione rilevava la mancata “aggiuntività” che era tassativa nella legge 11 giugno 1962, n. 588, dei 400 miliardi; il mancato coordinamento tra tutte le iniziative programmando tutte le risorse per cui gli squilibri territoriali e sociali si erano aggravati a causa della politica dell’accentramento in poli di sviluppo; la lentezza della spendita dei 400 miliardi, con gli investimenti proiettati soprattutto sull’industria di base petrolchimica (dei 330 miliardi programmati fino al 31/12/1970: 116 all’industria dei poli petrolchimici contro i 92.500 per l’agricoltura); lo svuotamento anche demografico delle zone interne che si è ipotizzato di frenare col terzo polo petrolchimico della media valle del Tirso a Ottana; la marginalizzazione sulle coste del turismo, escludendo quasi del tutto il turismo montano.

22 - Di grande rilievo l’avvertimento sulla necessità di evitare l’impatto violento tra cultura locale e cultura industrializzata per cui la crescita pastorale potrebbe diventare un meccanismo contro la conflittualità causa pur essa di comportamenti devianti. Posizioni ben diverse, per non dire di condanna, queste della Commissione parlamentare, da quella di un alto teorico della programmazione isolana, nel 1968, in periodo di pieno trionfalismo industrialistico. Egli afferma perentoriamente la necessità e l’urgenza di travolgere il mondo pastorale legato a pratiche delittuose e di puntare esclusivamente su industrie ad alta tecnologia; di evitare il ricorso alle tradizionali industrie trasformatrici dei prodotti agricoli; di procurare un intervento moderno completamente alienato dall’ambiente circostante; di travolgere i gruppi di potere locale, la “piccola borghesia economica locale”. Il “miracolo industriale” unico mezzo ed esclusivo termine di sviluppo e di rinascita della Sardegna e dei sardi. Si oppone, d’altra parte, che l’industrialismo è un fatto nuovo, una realtà, che non va esaltata ma nemmeno denigrata da posizioni arretrate e conservative. Bisognerà introdurvi una misura morale che superi il gretto economicismo per coordinarsi in un rapporto corretto, col retroterra umano contadino e pastorale che è pronto anche a contrastarlo e rifiutarlo. Si auspica un’interazione pacifica tra le due culture urbana e rurale, l’una borghese – capitalistica e l’altra preborghese e comunitaria. Da evitare un’acculturazione violenta così da essere immaginata – e di fatto realizzata – come un fatto di colonizzazione.

Il discorso si riferiva in particolare e soprattutto al terzo polo petrolchimico, quello della piana di Ottana, area destinata in origine ad agricoltura irrigua e pastorizia stanziale. L’evento industriale di base – di Stato e privato – vi si era intromesso in modo improprio, per non dire traumatico. Ottana nello scenario petrolchimico era un’anomalia, una scheggia deviata, e già all’origine a rischio. La collocazione nel cuore d’una struttura antropologica “arcaica” con una società comportante valori ma anche disvalori che l’industria avrebbe dovuto risanare, ancorata a codici e a regole comportamentali, a ritmi di vita e di lavoro diversi se non contrastanti la cultura di “fabbrica”, non poteva non porre dei problemi al di là delle speranze e dello stesso ottimismo che pure si erano ingenerati in molti (non in tutti). L’anomalia, l’eccezione “Ottana”, e la mescolanza e la divaricazione, il contrasto interiore e intellettuale sino alla polemica accesa tra le due culture (tra padroni e operai) si rivelarono via via nel percorso dell’attività industriale. Il personale operaio, derivante dal bacino “barbaricino”, portava nella fabbrica lo spirito di indipendenza e il mito eroico del balente che, uniti alla socialità di classe, lo rendevano naturalmente “antagonista” rispetto alla dirigenza. Non accettava la sudditanza al sindacato avendo punto di riferimento e di azione, assai dura, nel Consiglio di fabbrica. Vivevano in lui due anime, quella dell’operaio e del pastore. Alternava la tuta al gambale, alla frontiera tra stivale e mocassino. Rifiutava l’albergo operaio a bocca di fabbrica per riportarsi quotidianamente al focolare domestico nel paese anche lontano dove si è mantenuto un po’ di pecore caso mai servissero in tempi bui (ciò che poi è avvenuto). Aperto alle ali del nuovo, non tradisce le radici. La gente dice che Ottana è una “cattedrale nel deserto”, ma lui si conforta perché la vede circondata, in funzione salvifica da “cori” di pecore.

L’eccezione Ottana fallisce nel processo di “verticalizzazione”, nelle industrie derivate “a valle” del “polo”. Queste vengono rifiutate (Lula), o vedono presto spente le ciminiere (Bitti) o le fabbriche iniziate sono subito interrotte, configurando con i lacerti murari un paesaggio ruderistico (Sarcidano). Il “miracolo industriale” a Ottana diventa luttuoso, tale da meritare un epicedio.

23 - Proprio quando, nel 1968, si presenta nell’isola la novità dell’industrialismo, che accende entusiasmi di sviluppo e di progresso, si avverte un allarmante abbassamento della temperatura regionalistica. Una parabola discendente, un grave momento di crisi proveniente dall’esterno e complicato da difficoltà interne che determinano confusione e scetticismo nella gente. L’Istituto autonomistico, la Regione statutaria è sfiduciata dalle popolazioni scarsamente sensibili ai suoi problemi fondamentali e alle attività delle sue rappresentanze politiche. Alla perdita della vocazione regionalistica e autonomistica corrisponde, all’opposto, qualunquismo e nostalgie “unitariste”. Vale la pena registrare alcune voci del dissenso autonomistico, nel 1969. Un esponente cagliaritano del movimento studentesco: “La Regione con l’autonomia è un organismo di mediazione e di equilibrio per la classe degli sfruttatori”…”L’autonomia appare come il simbolo del potere, e non come una meta da raggiungere”… “Parlare di rilancio dell’autonomia non ha interesse”. Altre definizioni dell’autonomia: “folklore”, “pseudoproblema”, “svago di colletti bianchi”, “strumento di repressione”, “necessità dello Stato borghese”. Infine la contestazione alle linee politiche autonomistiche tradizionali. Ecco la critica d’una frangia deviazionistica del maggior partito dell’opposizione di sinistra alla politica “di unità autonomistica”: “E’ fallita la politica di unità autonomistica basata sull’ipotesi di derivazione sardista di unità di tutto il popolo sardo contro lo Stato sfruttatore”. Questa frase rimbalza, come tolta di peso, in un recente documento di un noto “Centro di cultura” cagliaritano, che raccoglie gruppi di intellettuali dei vari “dissensi”. Più in generale, tra i giovani, vi è indifferenza, per non dire noia, verso il tema autonomistico. La loro tensione si indirizza ai grandi universali temi di fondo del mondo contemporaneo, stemperando il regionalismo e il nazionalismo (e lo stesso concetto di nazionalità) nell’ecumenismo, nuovi ideali comuni alla gioventù intellettuale di quasi tutti i Paesi, sviluppati e sottosviluppati.

24 - Posizioni e dichiarazioni queste (ed altre negative) che non possono non allarmare e preoccupare gli autonomisti, intellettuali e politici, lo stesso Consiglio regionale direttamente investito dalla querelle. Esse invitano al dibattito e sollecitano misure di guardia e di rinnovamento. Sono gli intellettuali di diversa estrazione ideologica, a muovere per primi, già dal 1967, la discussione nelle loro Riviste: “Rinascita sarda”, “Il Democratico”, “Ichnusa”, “Autonomia Cronache”. Il tema in discussione è ancora una volta, la “questione sarda” e la costituzione regionalistica fondata sull’autonomia e la democrazia.

In “Rinascita sarda”, si pone l’esigenza di superare il regionalismo inteso nella funzione soltanto negativa di argine di resistenza allo Stato italiano, ed emergono tre teorizzazioni in proposito: regionalismo come strumento per rafforzare l’unità dello Stato (G. Sotgiu), sardismo – paraindipendetismo (A. Congiu), “questione” nell’esclusivo spazio culturale fuori dalle ortodossie ideologiche e partitiche. L’esperienza del “Democratico” è volta a introdurre nella politica regionale e nel contesto culturale dell’autonomia forze giovani urbane e rurali (e specie rurali) superando la vecchia generazione politica di estrazione soprattutto cittadina (“Giovani turchi”). “Ichnusa” si propone di aprire un dialogo culturale sui problemi molteplici della “questione” e farla andare avanti in un marcato e sempre presente rapporto politica – cultura. Necessità di sprovincializzare la politica tradizionale e accettare l’industrialismo e la civiltà tecnologica, denunziando, nel contempo, i pericoli per la società sarda del neocapitalismo avanzato, giunto anche nell’isola.

In “Autonomia – Cronache”, la “questione” è vista come ricerca all’interno dell’isola di concezioni, motivi e fattori validi originali per rinfrescare e vivificare, oltre che caratterizzare di sardo, l’autonomia. Punto nodale è quello dell’individuazione e del riconoscimento d’una realtà storico – culturale nativa, quale è l’area arcaica delle zone interne e, più in particolare, l’area barbaricina, cioè l’area dell’autentico sardismo etnico e culturale, incrostato di folklore, cioè di cultura popolare.

25 - Nella seduta del Consiglio regionale del 2 ottobre 1967, il Presidente, democristiano, Giovanni del Rio pone in termini espliciti ed ufficializza il tema del separatismo sardo. Questo viene ripreso nel quotidiano sassarese del 10 ottobre dall’intellettuale leader del Partito sardo d’azione Antonio Simon Mossa, inteso come ratio per una nuova spinta autonomistica del popolo sardo. Autonomia politica, indipendentismo e separatismo – egli scrive – hanno lo stesso significato. Più tardi, in “Sardegna Libera”, (Sassari, a.1, n.2, aprile 1971, p.8 sgg.), precisa il suo pensiero politico che in parte ricalca quello di C. Bellieni e E. Lussu. Vi si riconoscono anche stimoli dell’azionismo risorgimentale applicato alla Sardegna e fermenti di oltranzismo sindacale – rivoluzionario, in una prospettiva di Stato repubblicano italiano federalista, tendenzialmente proteso all’autonomia politica (quasi all’indipendentismo) dell’isola, fondata sulla riforma sociale di tipo “laborista”. Il movimento di riscatto sardo, la rivoluzione sarda, coincide con quello mondiale dei popoli oppressi dal colonialismo. Ha il significato non solo di emancipazione economica e sociale di una classe (il proletariato sardo) ma anche, se soprattutto, di libertà dell’intero popolo sardo: cioè ha senso etnico, etico e culturale, oltre che politico. Se ciò non si potrà ottenere con una riforma costituzionale, è da realizzare per altre vie: la resistenza passiva e la non obbedienza (violenza armata). Accogliendo in parte queste tesi del Simon Mossa, la frazione degli indipendentisti del Partito sardo d’azione si danno appuntamento a Lula, il 26 novembre 1967.

Qui viene definita la linea ideologica e strategica del sardismo in seno istituzionale e sociale, concependo l’unificazione sul terreno degli schieramenti e legittimando la posizione indipendentistica. La maggioranza dello stesso Partito, assente la minoranza, nel congresso, celebratosi nel salone della Fiera di Cagliari nel 24/25 febbraio 1968, approva un nuovo statuto del Partito in senso federalistico che abbia come meta il riconoscimento dell’autonomia statuale della Sardegna nell’ambito dello statuto italiano concepito come Repubblica federale, e nella prospettiva della Confederazione europea.

26 - Se con la riforma statutaria del proprio partito i Sardisti non si riconoscono più, in conseguenza, nello Statuto regionale del 26 febbraio 1948, questo viene contestato e ritenuto superato da loro e da altre forze e voci politiche nel Consiglio regionale. Uno Statuto speciale – si dice – involutosi e degradato, “normale”, anzi più normale degli statuti normali delle Regioni ordinarie, da poco costituitesi e già funzionanti con poteri maggiori e adeguati ai tempi, di quelli – infimi – contenuti nella Carta sarda.

Nel raggiunto assetto regionalistico dello Stato italiano, perché la specialità sarda abbia senso e prospettive sicure e manovra di libertà, urge rompere la situazione di stallo e di conservazione delle strutture politiche – giuridiche in atto con mutamenti costituzionali. Occorre seguire una nuova via e stabilire un ordine nuovo, dare vero significato ed effetto all’autonomia, alla rinascita, alla liberazione, uscendo dall’esperimento dell’autonomia statutaria conseguita, ormai lontana ed obsoleta, prevalentemente burocratica e di mediazione, per attingere un vero potere, governare in stato di sovranità.

Con questi intenti, in seduta del Consiglio regionale del 22 ottobre 1971 (IV Legislatura), furono presentati, da varie parti, ordini del giorno a conclusione del dibattito sui rapporti tra Stato e Regione. Vi si espressero istanze per prospettare al Parlamento nazionale i problemi relativi alla mancata attribuzione alla Regione sarda delle maggiori competenze di cui all’art. 117 della Costituzione al fine di predisporre adeguate iniziative politiche e giuridiche. Nel ripensamento critico dell’autonomia legato strettamente alla revisione dello Statuto speciale sardo, anche per rendere integrale l’attuazione dell’ordinamento regionalistico dello Stato previsto dall’art. V della costituzione repubblicana, si faceva sollecitudine per costituire un Comitato di esperti di diritto costituzionale da affiancare a una Commissione della Regione. Ciò al fine di elaborare un nuovo testo di Statuto speciale per la Sardegna da proporre alla discussione e alla approvazione dell’Assemblea.

27 - Il 28 febbraio del 1971, mentre nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo cagliaritano va sbollendo l’ira devastante degli studenti del ’68, il Consiglio dei docenti – sardi e peninsulari unanimi – firma un documento in allora esplosivo e che richiama l’attenzione dei servizi segreti. La Facoltà è invitata, al fine di promuovere i valori autentici della cultura isolana, primo fra tutti quello dell’autonomia e provocare un salto di qualità senza un’acculturazione di tipo colonialistico ed il superamento dei dislivelli di cultura, ad assumere l’iniziativa di proporre alle autorità politiche della Regione autonoma e dello Stato il riconoscimento della condizione di minoranza etnico – linguistica per la Sardegna e della lingua sarda come lingua “nazionale” della minoranza. Di conseguenza è opportuno disporre tutti i provvedimenti a livello scolastico per la difesa e la conservazione dei valori tradizionali della lingua e della cultura sarde. In ogni caso tali provvedimenti dovranno comprendere, a livelli minimi dell’istruzione, la partenza dall’insegnamento del sardo e dei vari dialetti parlati in Sardegna, l’insegnamento nelle scuole dell’obbligo riservato ai sardi e a coloro che dimostrino un’adeguata conoscenza del sardo, e di tutti quegli altri provvedimenti atti a garantire la conservazione dei valori tradizionali e della cultura sarda. La delibera del Consiglio vuole essere un’iniziativa motivata per realizzare in Sardegna una vera scuola, una vera rinascita, in un rapporto di competizione culturale con lo Stato, che arricchisce la nazione.

La delibera dei docenti della Facoltà di Lettere anticipava di un anno le considerazioni sulla cultura e la scuola in Sardegna, fatte dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità nell’isola. Sarebbe un errore – si scriveva – il ritenere che il compito della scuola in Barbagia, debba essere quello di mortificare o addirittura di uccidere la cultura barbaricina, opponendo modelli stranieri i quali, adeguati ad altre realtà, servirebbero soprattutto ad acuire i contrasti. Si giudicava necessario che i sardi conservassero e facessero agire le esperienze e le tradizioni, cioè confrontandola col patrimonio culturale del mondo contemporaneo. E si auspicava una scuola che non sradicasse i sardi dal loro ambito, ma, al contrario, li mettesse nelle condizioni di meglio comprendere gli autentici valori, anche ai fini professionali e di lavoro da esercitare in un particolare terreno quale quello isolano.

Il giorno 27 settembre del 1971, stimolati dal documento del Consiglio della Facoltà di Lettere, sardisti di ogni colore decidevano a Nuoro, nel circolo culturale “L. Milani” di costituire l’ “Associazione per la difesa della lingua e della cultura sarda”. Al termine dei lavori, fu approvato un testo nel quale, fra l’altro, si richiamava il Governo nazionale ad applicare alla Sardegna l’art. 6 della Costituzione italiana che “tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.

28 - L’autorità politica e il Consiglio regionale non potevano rimanere estranei al nuovo clima che per l’autonomia e la rinascita poneva a fondamento e spinta la cultura sarda, ignorata in precedenza. Nella seduta del Consiglio regionale del 24 marzo 1970, consiglieri di parti diverse considerano essere giunto il momento di attivarsi per avocare alla Regione, con la modifica dello Statuto, almeno la competenza in materia dell’istruzione primaria e della scuola dell’obbligo. Nelle scuole di Stato non si tiene conto delle radici, anzi le si ignora e le si disprezza. Vi è in atto una sottile manovra di desardizzazione, con l’emarginare la lingua, la cultura, i costumi, i valori locali che costituiscono la sorgente primitiva dell’autonomia politica e di tutte le libertà. Una scuola di base regionalizzata può scongiurare i pericoli di attentato alla nostra entità minoritaria. Può, inoltre, risolvere il problema congiunturale dell’occupazione intellettuale e quelli sostanziali che si riferiscono all’organizzazione e alla diffusione della scuola in Sardegna, secondo ben precisi parametri fissati dalla Regione sulle linee d’una politica avanzata e aperta, salva l’autonomia della docenza. Insomma una nuova cultura per una nuova Regione, impegnata e calata nella realtà della società sarda sin nei luoghi più remoti, a livello di popolo che sente e sa il valore culturale, fondamento della sua identità. Vanno oltre l’istanza di competenza primaria nelle scuole elementari e dell’obbligo le sollecitazioni per l’autonomia emerse nella seduta del Consiglio del 25 gennaio 1972. Si chiede la pari dignità di lingua sarda e lingua italiana, il bilinguismo perfetto; il riconoscimento della Sardegna come entità etnolinguistica minoritaria, in base all’articolo 6 della Costituzione italiana; la liberazione del colonialismo dei mass media nazionali e la regionalizzazione della TV.

29 - Nell’intento di restaurazione dell’autonomia languente, il Governo regionale, conta anche su due strutture culturali. Con la legge 11 agosto 1970, n. 20, sostenta con specifico finanziamento, la scuola di specializzazione in studi sardi annessa alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, istituita con D.P.R. del 20 maggio 1966, n. 431. La scuola si propone di studiare la realtà sarda negli aspetti culturali e politici, promuovendo le conoscenze con una corretta divulgazione che esca fuori dalle chiuse accademie. Vuole concorrere alla formazione di quadri intellettuali, su base regionale, dai quali estrarre elementi d’una nuova classe dirigente atta a risolvere la crisi dell’autonomia e a rilanciarla dando un tono alto alla politica di rinascita. Con la legge regionale n. 26 del 5 luglio 1972 nasceva a Nuoro l’Istituto superiore regionale etnografico con gli annessi Musei del Costume (avente il nuovo titolo di Museo della vita e delle tradizioni popolari) e della Casa Grazia Deledda, nel centenario della nascita della grande scrittrice nuorese. L’Istituto voleva essere una risposta culturale alle indicazioni della Commissione parlamentare sui fenomeni di criminalità nell’isola, e in particolare nelle zone interne, con una struttura destinata a studiare i problemi che affannavano il cammino di quell’area arcaica, a cultura barbaricina, e a dipanare le cause della sua questione all’interno della generale questione sarda. Si trattava di approfondire lo studio di quella singolare zona antropologica, a forte connotazione tradizionale, che, nel momento, veniva a incontrarsi e scontrarsi con la cultura dell’industrialismo, con effetti positivi ma anche perversi.


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