Autonomia e riscatto, I principi libertari ed identitari di g m. angioy a 210 anni dal moto popolare



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Nel caso dell'Università di Sassari l'impostazione regalistica della riforma aveva dovuto infatti fare i conti con la strenua resistenza della comunità gesuitica locale, che richiamandosi agli antichi regolamenti dello Studio, ma più ancora a una tradizione ben consolidata, puntava a conservare la guida e il governo delle istituzioni universitarie. All'opposto, nelle segreterie torinesi e tra i magistrati del Supremo consiglio di Sardegna si era subito radicata la convinzione, saldamente ancorata all'esperienza delle riforme universitarie amedeane (e infine rinforzata dalle incoraggianti esperienze asburgiche), che l'affermazione delle prerogative del principe nel campo dell'istruzione superiore costituisse il presupposto irrinunciabile dei nuovi ordinamenti universitari.

La situazione di stallo che si era profilata nel corso del 1763 (e che ritardò notevolmente la riforma sassarese rispetto a quella cagliaritana) si sbloccò soltanto nell'autunno del 1764, quando il ministro Bogino riuscì a costituire un apposito tavolo di trattative a Torino, impegnandovi direttamente un rappresentante della Provincia gesuitica sarda (che a quel tempo faceva ancora parte dell'Assistenza di Spagna), e contemporaneamente scavalcando il Collegio turritano per cointeressare al buon esito dei negoziati la Provincia lombarda, l'Assistenza d'Italia e lo stesso generale della Compagnia. Fu la mossa vincente che consentì di aprire la strada alla riforma che in base alle intese dell'aprile del 1765 poggiava su due punti fondamentali: da un lato l'impegno del sovrano a nominare sei professori gesuiti nelle cattedre assegnate alla Facoltà di teologia (sacra scrittura e lingua ebraica, teologia scolastico-dogmatica e storia ecclesiastica, teologia morale e conferenze) e al Magistero delle arti (geometria e matematiche, e logica e metafisica e fisica sperimentale, i cui titolari ad anni alterni dovevano tenere anche il corso di filosofia morale); dall'altro la rinuncia da parte dei gesuiti alla direzione della vita accademica, affidata ora, in linea con le Costituzioni cagliaritane, al Magistrato sopra gli studi e all'arcivescovo di Sassari, che assumeva la carica di cancelliere dell'ateneo, mentre la Compagnia si obbligava a mettere a disposizione le aule e gli arredi del collegio13.

Si delineava, dunque, il singolare paradosso di una riforma universitaria che, all'indomani dell'espulsione dei gesuiti dalla Francia e nel pieno dell'offensiva anticuriale che agitava tutta l'Europa cattolica, riconosceva come colonna portante della funzione docente quella tanto criticata Compagnia di Gesù che era stata definitivamente estromessa dall'Ateneo torinese con le riforme amedeane e che era ormai apertamente osteggiata da diversi governi europei che la indicavano come una pericolosa centrale di sovversione e di oscurantismo. Eppure il capolavoro diplomatico del ministro Bogino, che consentiva di vincere le resistenze dei gesuiti con l'aiuto dei gesuiti, gettava le basi di una riforma largamente innovativa e rigorosamente assolutistica, in cui l'Ordine ignaziano accettava di mettersi a disposizione del sovrano sabaudo offrendogli di attingere al proprio patrimonio, ancora assai cospicuo, di energie intellettuali, di studiosi, di scienziati e soprattutto di insegnanti. Si trattava in realtà di una soluzione molto simile a quella adottata qualche anno prima, nel 1759, dal governo austriaco per la riforma degli studi a Vienna e poi riproposta da Kaunitz, come schema di riferimento per il riordinamento degli studi in Lombardia: non a caso le direttive impartite dal cancelliere austriaco nei primi mesi del 1765, prendendo le distanze dalla radicale offensiva dei regni borbonici, suggerivano di conservare ai gesuiti l'insegnamento delle lettere e delle scienze e di sopprimere la loro semi-università sciogliendo la Facoltà filosofico-teologica e privandoli della possibilità di conferire i gradi accademici14.

Il primo anno accademico dell'università riformata fu inaugurato il 4 gennaio del 1766, ma la gran parte dei corsi era già iniziata nell'autunno del 1765: anche la piccola e antica Università di Sassari entrava a far parte del nutrito gruppo degli atenei italiani che nei decenni centrali del secolo furono trasformati e rimodellati dalle riforme dell'assolutismo. Ben presto accanto alle esperienze di Cagliari e di Sassari presero corpo altre incisive riforme universitarie, come quelle di Pavia, di Parma, di Ferrara, di Modena e di Catania15. Ma quali fattori caratterizzarono l'esperienza dell'Università di Sassari e resero possibile quella felice stagione d'intensa operosità e di rinnovamento degli studi che si aprì nel 1765 e si protrasse per quasi un decennio?

Innanzitutto la riforma dovette reperire le risorse che, almeno sulla carta, assicurassero all'ateneo l'indispensabile autosufficienza economica, consentendogli di contare sulle proprie forze, su appositi finanziamenti, su un proprio organico docente, su locali specificamente destinati. Ma i principali fattori che dettero impulso al rinnovamento degli studi furono sostanzialmente tre: in primo luogo la profonda trasformazione degli ordinamenti che ridisegnava gli organi di governo dell'ateneo, riservando al ministero ampi poteri di direzione e di supervisione; in secondo luogo l'introduzione di nuovi programmi d'insegnamento, l'attivazione di nuove cattedre e soprattutto l'imposizione dell'effettivo svolgimento dei corsi; in terzo luogo il radicale ricambio del corpo docente che fu prevalentemente costituito da professori forestieri (ben 9 su 11), «arruolati» in Piemonte e in altri Stati della penisola. Inoltre la concomitanza con il processo di attuazione della riforma delle scuole inferiori fece sì che la rifondazione dell'ateneo s'inserisse nelle trasformazioni in atto contribuendo a rivitalizzare l'intero sistema educativo locale, che consolidava il suo originario impianto verticalizzato e fortemente unitario: non a caso i due insegnanti di retorica, che erano anche i prefetti delle scuole inferiori dei gesuiti e degli scolopi, erano chiamati ad alternarsi nel delicato incarico di recitare l'orazione di apertura dell'anno accademico e facevano parte, di diritto, del Collegio delle arti che inizialmente era composto soltanto dai professori di filosofia e di fisica sperimentale e di geometria e altre matematiche16.



Nell'esperienza dell'università riformata confluivano due solide tradizioni: da un lato il modello accademico e scientifico dell'Università di Torino a cui s'ispiravano tanto le Costituzioni e il Regolamento quanto la struttura degli organi di governo, i programmi dei corsi e soprattutto i valori di riferimento che erano quelli tipici della meritocrazia educativa sabalpina; dall'altro la robusta tradizione della Ratio studiorum che si riproponeva rinnovata e filtrata attraverso le esperienze culturali e le pratiche educative dei collegi piemontesi, veneti, emiliani e soprattutto lombardi, in cui si erano formati i gesuiti forestieri chiamati a insegnare sia nell'università, come il piemontese Giuseppe Gagliardi o il comasco Francesco Cetti, sia nelle scuole inferiori, come il vicentino Angelo Berlendis, che, entrato nella Compagnia di Gesù a Novellara (Reggio Emilia), aveva studiato nel Collegio di Santa Lucia a Bologna, insegnato grammatica, umanità e retorica in quello di San Rocco a Parma e dal 1762 al 1765, nel periodo immediatamente precedente al suo trasferimento a Sassari, aveva ricoperto l'incarico di ripetitore nel prestigioso Collegio dei nobili della stessa città, proprio negli anni in cui la capitale del Ducato borbonico veniva rivoluzionata dalle politiche neogiurisdizionalistiche del ministro Du Tillot. Certo, verso la metà del XVIII secolo la tradizione pedagogica e culturale della Ratio studiorum era da tempo in crisi, eppure la sua impronta, ben riconoscibile nei metodi didattici, nel frequente ricorso alle esercitazioni pubbliche, alle accademie, alla poesia e al teatro, finì per segnare i momenti più vivi e dinamici dell'università riformata17.

La fisionomia culturale del nuovo corpo docente era, dunque, assai variegata. Al di là della prevalente appartenenza alla Compagnia di Gesù, i professori chiamati a dar vita all'ateneo riformato presentavano profili biografici molto differenti per età, provenienza geografica, esperienze formative e interessi culturali. Tra i docenti forestieri si segnalavano il cipriota Simone Verdi, gesuita, titolare della cattedra di Sacra scrittura e lingua ebraica (nato a Monte Libano nel 1714, era uno dei docenti più anziani: si era formato nel Collegio maronita romano e aveva alle spalle un singolare trascorso di studio e di predicazione presso la missione della Compagnia a Costantinopoli); il gesuita torinese Giuseppe Gagliardi, chiamato a ricoprire la nuova cattedra di fisica sperimentale (aveva fatto il noviziato in Piemonte, ma avrebbe preso i voti solenni in Sardegna, dove arrivò, nel 1764, poco più che trentenne); il gesuita valdostano Gaetano Tesia, professore di teologia scolastico-dogmatica, studioso di solida formazione (al suo arrivo a Sassari, a trentasei anni, aveva al suo attivo una notevole esperienza d'insegnamento nei collegi piemontesi); il gesuita di Chieri Giovanni Battista Ceppi, docente di teologia morale, già professore di eloquenza a Genova (si ammalò gravemente appena giunse nell'isola dove morì nel gennaio del 1766); il gesuita cuneese Pietro Alpino, professore di logica e metafisica (si era formato nel Collegio dei nobili di Milano e aveva insegnato nelle «scuole basse» a Monza); il saluzzese Giuseppe Della Chiesa, professore di istituzioni canoniche (a soli trent'anni era dottore collegiato dell'Ateneo torinese e come risulta dalle sue patenti aveva dato ottime prove come insegnante); il chirurgo collegiato torinese Giovanni Olivero, titolare della nuova cattedra di chirurgia, che si era trasferito nell'isola al seguito dell'arcivescovo Viancini; il dottore collegiato torinese Felice Tabasso, professore di materia medica, che si era già fatto apprezzare anche come studioso di anatomia e di botanica; e infine il gesuita lombardo Francesco Cetti, titolare della nuova cattedra di geometria e matematiche, che rappresentava la figura di maggior spicco nella nutrita pattuglia dei nuovi professori. Cetti, infatti, si era già segnalato nella Provincia lombarda sia come insegnante che come valente studioso: nato a Mannheim nel 1726 da genitori comaschi, aveva compiuto i primi studi nel collegio gesuitico di Monza; nel 1742 era entrato come novizio nella Compagnia a Genova; si era poi dedicato agli studi scientifici e aveva perfezionato la sua preparazione universitaria a Milano nel Collegio di Brera di cui faceva parte l'autorevole ingegnere e matematico Antonio Lecchi; aveva professato i voti solenni nel 1760, e nel 1765, quando accettò di trasferirsi nell'isola, poteva vantare una lunga e qualificata esperienza d'insegnamento maturata nei collegi di Bormio, Monza, Arona e infine nel Collegio dei nobili di Milano, dove da oltre sei anni ricopriva la cattedra di filosofia e appariva ormai integrato nell'ambiente culturale delle scuole di Brera, caratterizzato da una significativa presenza di studiosi di notevole levatura scientifica, da una robusta tradizione di studi di filosofia e di matematica pura, e infine dall'entusiasmante esperienza dell'osservatorio astronomico che era stata da poco avviata da Ruggero Boscovich18.

Un fattore che diede notevole slancio al rinnovamento degli studi fu il passaggio dalla dimensione dello Studio gesuitico alla nuova temperie culturale dell'Università regia, che segnò la nascita di una comunità accademica particolarmente coesa e ben consapevole della propria identità e del proprio ruolo. Del resto, le stesse modalità di reclutamento, la nomina regia e la stretta dipendenza dal ministero conferivano ai docenti dell'Ateneo riformato uno status professionale abbastanza particolare, che in linea con le riforme da tempo avviate nell'Università torinese tendeva a trasformarli in funzionari statali, distaccandoli nettamente dall'esperienza dell'antico Studio19.

Non dovette però esser facile amalgamare provenienze così eterogenee com'erano quelle del nuovo corpo docente dell'ateneo. In realtà, per riuscire a impiantare, in un ambiente in parte prevenuto e ostile, una tradizione accademica così fortemente connotata in chiave assolutistica, diventava indispensabile che la nuova università mostrasse subito la propria superiorità sul piano dell'efficienza didattica e organizzativa rispetto all'esperienza dell'antico Studio. La sfida era ben chiara agli artefici della riforma, che non a caso indicavano nell'allineamento dei nuovi ordinamenti a quelli dell'Ateneo cagliaritano il provvedimento che avrebbe finalmente assicurato anche al Capo settentrionale gli stessi «vantaggi di uno Studio ben ordinato» e un assetto universitario «d'egual lustro e floridezza»20.

Di qui l'attenzione quasi ossessiva con cui il ministro seguiva tutti gli aspetti della vita universitaria, dall'organizzazione dei corsi al funzionamento dei collegi dottorali, dall'andamento del bilancio ai contenuti delle lezioni. Tanta cura riservata perfino ai dettagli non era però solo una tipica manifestazione del centralismo assolutistico sabaudo, né un'ulteriore testimonianza del solido e pragmatico riformismo boginiano, bensì la riprova dell'importanza che veniva attribuita al buon funzionamento dell'organizzazione didattica come cardine della nuova Università restaurata. In realtà, a scorrere il fittissimo carteggio che Bogino intrattenne sui più disparati aspetti della vita universitaria non si può non restare colpiti dal ruolo di sapiente regista che il ministro svolse nella rifondazione dell'Ateneo sassarese e nella delicata fase della prima attuazione della riforma.

Al di là del viceré e delle autorità locali, il principale interlocutore del ministro fu l'arcivescovo di Sassari, Giulio Cesare Viancini, che fin dal suo ingresso nella diocesi divenne suo fidato consigliere e insieme attivo «guardiano» della riforma. Tuttavia il ministro, consapevole che il successo dell'Università riformata era strettamente legato al grado di identificazione in essa del corpo docente, non esitò ad intraprendere rapporti epistolari con gli stessi professori e a profondere tutte le sue cure nel proteggere, incoraggiare e valorizzare i docenti forestieri che sperimentavano le difficili condizioni di vita nell'isola. Così il carteggio ci mostra un ministro preoccupato di preannunciare il loro arrivo alle autorità del Regno, di illustrarne qualità e competenze, di raccomandare che fossero accolti con tutti i riguardi. Inoltre il ministro non trascurava di far giungere a ciascun docente un piccolo incoraggiamento per la futura permanenza nell'isola: «Posso avanzarle – scriveva per esempio a Francesco Cetti in procinto di partire per la Sardegna – che troverà in quei giovani ingegni felici, e disposizioni tali a farvi rapidi progressi, e sorgerne allievi distinti, tostoché adattandosi in sui princìpi alla loro abilità, e portata, vi si insinui l'amore, ed il genio, che ne è il primo requisito»21. Le lettere di Bogino rivelano infine il suo costante interessamento per le condizioni di vita e di lavoro dei docenti forestieri, e le sue partecipi attenzioni per ogni loro disagio o per la loro salute22.

Probabilmente anche la disponibilità del ministro a prendersi cura della comunità universitaria favorì il coagularsi di quello spirito di corpo che caratterizzò la stagione inaugurata dalla riforma. Del resto si era fatto di tutto per rimarcare lo stacco rispetto al passato, e perché fosse chiaro che s'intendeva voltare pagina. Un segnale preciso era stato dato nel febbraio del 1765 (prima della promulgazione dei nuovi ordinamenti), quando il viceré Balio della Trinità aveva imposto al rettore dello Studio turritano l'immediata sospensione del conferimento dei gradi, ormai distribuiti con evidente generosità nel timore di una rinnovata severità degli studi23.

D'altra parte anche il ministro continuò ad insistere, all'indomani della riforma, sulla necessità di riqualificare l'Ateneo e sulla scarsa affidabilità delle «lauree, che costì conferivansi in passato [...]. Le dirò ora chiaramente – confidava a Viancini – che le ho sempre riputate tali a non potersi fissare il menomo capitale su di esse, massimamente dopo l'esempio che mi si è presentato di chi avendo già preso costì i gradi, confessò con ingenuità di non saper il latino»24.

Colpisce la fermezza con cui vengono respinte, sotto il ministero Bogino, le richieste di grazie avanzate dai sudditi privi di titolo universitario, mentre per converso la promessa d'impieghi e di future promozioni da riservare ai laureati dell'Ateneo riformato aveva finito per riportare sui banchi universitari diversi laureati degli anni accademici precedenti. Così il sovrano apprendeva «con gradimento», riferiva il Bogino, «che i laureati di legge abbiano continuato nel corso de' due ora scaduti anni ad intervenire con esemplare assiduità alle lezioni della legale in codesta Università». Ma perché i loro nominativi potessero esser presi in considerazione per la concessione di grazie o impieghi il sovrano chiedeva che il Magistrato sopra gli studi ne trasmettesse l'elenco insieme con una dettagliata «informativa non meno della capacità di ciascuno d'essi, che de' maggiori o minori progressi che avranno fatti»25.

 

 

3. Le difficoltà e le resistenze



 

L'attuazione della riforma fu accompagnata da una lunga serie di opposizioni e resistenze, in cui si esprimevano le molteplici riserve degli ambienti sociali legati al vecchio Studio. In effetti le ostilità, iniziate ben prima del varo dei nuovi ordinamenti, si radicalizzarono all'indomani dell'accordo tra la corte sabauda e i superiori dell'Ordine. Il malumore della comunità gesuitica locale non tardò a indirizzarsi contro l'arcivescovo Viancini, consigliere e portavoce del ministro, che veniva indicato come l'eminenza grigia della riforma. Ma i sospetti giunsero a coinvolgere anche il provinciale dell'Ordine, il sardo Pietro Maltesi, accusato di abbandonare gli interessi della Compagnia di fronte alle lusinghe del governo. D'altra parte anche il ministro aveva colto la pericolosità del focolaio di resistenza che si annidava all'interno dell'antico Collegio: «Non lasci di fare attenzione al contegno del padre Tocco, che [...] esige d'esser guardato da vicino», raccomandava all'arcivescovo26.

Con il varo dei nuovi ordinamenti l'antagonismo tra le due personalità religiose locali divenne insanabile: il padre Tocco, costretto a dimettersi dalla carica di rettore del Collegio, aveva perso la guida dello Studio generale che era stata assegnata all'arcivescovo in qualità di cancelliere e presidente del Magistrato sopra gli studi. Il conflitto non nasceva però da questioni di mero potere. La posta in gioco era, in realtà, l'intero processo di trasformazione del sistema scolastico e il controllo dei meccanismi di formazione e di selezione delle élites locali.

Le vivaci reazioni dei gesuiti riflettevano un'insofferenza e un disagio frutto della repentina radicalità delle innovazioni che essi stessi erano chiamati a interpretare e ad assecondare. Non era un caso peraltro che le resistenze ai nuovi piani di studio riguardassero anche le scuole inferiori, dove tanto i gesuiti quanto gli scolopi stentavano ad adeguarsi ai nuovi programmi e alle direttive della riforma. Si possono d'altra parte comprendere le difficoltà, le frustrazioni e i risentimenti che allignavano tra i maestri sardi, spesso anziani, che improvvisamente dovevano riconvertire il proprio insegnamento, impadronirsi dei contenuti dei nuovi libri di testo e d'un colpo abbandonare la lingua spagnola, fino ad allora in uso nelle scuole, per passare a quella italiana. E del resto nel 1765, dopo alcuni anni di sperimentazione della riforma, la situazione delle scuole sassaresi appariva ancora così incagliata che si dovette far ricorso a due maestri forestieri, lo scolopio valsesiano Giacomo Carelli e il gesuita vicentino Angelo Berlendis, entrambi chiamati a insegnare nella classe di retorica e a dirigere le scuole inferiori27.

Con l'infoltirsi della colonia dei docenti forestieri, le reazioni alla riforma rischiarono di assumere coloriture xenofobe. Ma l'ostilità di molti ambienti locali derivava dalla contrapposizione di diverse sensibilità religiose e di diversi modelli sociali e ideologico-culturali. Il fatto è che le riforme scolastiche e universitarie mettevano in discussione tutto il sistema di rassicuranti certezze e convinzioni su cui poggiavano gli assetti della società e della cultura locali. La ventata di aria nuova introdotta nelle aule scolastiche e universitarie metteva a nudo i limiti di una cultura spagnolesca finita ormai su un binario morto, priva di contatti vitali con l'esterno dell'isola e arroccata su posizioni di nostalgica difesa del passato e di astiosa chiusura alle innovazioni. Non era un caso che gli ambienti conservatori individuassero nei nuovi programmi di studio diramati dal ministero, nelle lezioni tenute dai docenti forestieri e nelle direttive ecclesiastiche dei prelati piemontesi una pericolosa minaccia al loro mondo di valori. «S'è introdotta nuova università – denunciava un anonimo "Lamento del Regno" – dove si insegna una filosofia inventata dagli eretici, opposta alla ragione e alla Scrittura de' Santi Padri, sendo di tutto ciò la colpa, i prelati piemontesi»28. D'altra parte il severo rigorismo religioso dell'arcivescovo Viancini era arrivato al punto di vietare le tradizionali processioni notturne della Settimana santa e di mettere al bando i gosos, gli antichi canti religiosi popolari locali, condannando le prime come pericolose occasioni di licenziosità e promiscuità e i secondi come riti indecorosi29. Il fatto è che la scuola e l'università costituivano un naturale crocevia di delicate questioni religiose e linguistiche. D'altra parte il problema della formazione di una nuova leva di ecclesiastici sardi preparati nel campo dottrinale, colti e soprattutto ben orientati verso la monarchia sabauda, rappresentava uno degli obiettivi nevralgici della riforma dell'istruzione. Di qui l'importanza che veniva assegnata all'educazione civile dei futuri sacerdoti e alla «vera istruzione» degli ecclesiastici, «da' quali poi si diffonde – ricordava il ministro – nel resto del popolo»30.

Passando a esaminare le caratteristiche del rinnovamento prodotto dal nuovo sistema universitario, si possono individuare tre principali aspetti: la valorizzazione dell'impegno didattico dei docenti; l'adozione di nuovi piani ufficiali di studio con programmi decisamente più moderni e aggiornati; l'impianto di un modello pedagogico che faceva del sistema scolastico e universitario il canale privilegiato di selezione e di parziale ricambio dei gruppi dirigenti.

La rilevanza assunta dalle attività didattiche appare legata al ruolo attribuito al sistema scolastico come leva del cambiamento dei costumi e delle mentalità e come principale strumento di trasmissione delle conoscenze, in linea con l'idea che le stesse ostilità manifestatesi nell'ambiente locale sarebbero state alla lunga vinte proprio dal magistero didattico e scientifico delle nuove istituzioni. «Mi lusingo di credere [...] – dichiarava Bogino – che i lumi delle scienze gioveranno assai nel dissipare i radicati pregiudizi e condurre i nazionali a una diversa maniera di pensare e di vivere»31. Oltre alla significativa novità di un regolare svolgimento dei corsi, la differenza rispetto all'epoca precedente era data da un tipo d'insegnamento tendenzialmente uniforme, rigorosamente pianificato, basato sulla ripresa di tradizioni didattiche consolidate, ma soprattutto vivacizzato dal ricorso a nuove pratiche pedagogiche e dal fervore d'iniziative che accompagnavano l'attività didattica: esercitazioni, esperimenti scientifici, componimenti poetici, accademie teatrali.

Peraltro, era proprio contro il fiorire di queste efficaci innovazioni dell'insegnamento che si appuntava lo sferzante scetticismo dei detrattori delle nuove scuole: «S'insegna una grammatica sproporzionata alla capacità de' figlioli – denunciava il "Lamento del Regno" –, e con le accademie (le di cui spese si pagano dai padri d'essi) loro s'insegna ad essere piuttosto commedianti e buffoni con indecoro della Chiesa»32. Riecheggiavano tra gli avversari delle riforme scolastiche alcune delle critiche più insistenti della polemica rigorista e antigesuita di cui si era fatto campione il teologo domenicano Daniele Concina con le sue animose dissertazioni De spectaculis theatralibus (1752), con il suo fortunato trattato De' teatri moderni contrari alla professione cristiana (1755), con la sua intransigente condanna del teatro come fonte di comportamenti licenziosi e come emblema della dilagante corruzione della cristianità33.


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