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Giuseppe Allegro
cosa fosse Dio, poiché sapeva solo che agli uomini è impossibile sapere cosa sia».
Il richiamo al passo di Ambrosiaster, citato come agostiniano, in cui si afferma che
neanche i Cherubini e i Serafini possono comprendere pienamente cosa è Dio com-
pleta la chiosa abelardiana a Macrobio: «neppure gli stessi spiriti celesti, che sono
dotati di una sapienza più grande, possono conoscerlo pienamente». Sono, questi,
passaggi dal tenore apofatico, che richiamano alla mente i celebri testi dionisiani,
molto in auge in quel momento nell’Occidente latino. Ed è Dionigi l’Areopagita, che
Abelardo chiama
magnus ille philosophus, ad essere evocato subito dopo, ancorché
solo per ricordare il famoso episodio del Dio ignoto descritto in At. 17, 23.
Il dogma trinitario, pur reso in qualche modo disponibile mediante la rigorosa
formulazione che la
fides universalmente
tenet incommutabiliter, rimane un mistero
ineffabile, di fronte al quale ogni tentativo di argomentare si riduce a un vano blate-
rare. Chi osa tentare di dipanare il mistero non si accorge che le sue apparentemente
elevate argomentazioni di fronte al mistero divino non sono altro che miseri ragiona-
menti,
ratiunculae. Mediante le parole usate per indicare il mistero divino esso deve
essere, più
che capito, gustato.
Pur essendo “scienza”, la teologia non potrà mai aspirare a comprendere ap-
pieno l’oggetto del suo discorso. Lo stesso Alberto Magno nel suo
Commento alla
Teologia Mistica dello pseudo Dionigi mette in risalto il lato mistico della teologica.
Affrontando l’interpretazione della singolare tesi dionisiana secondo la quale è me-
diante il non vedere e il non conoscere che si può vedere e conoscere Dio (questione
XI).
23
Alberto elenca tre modi possibili nei quali una cosa può essere “nota”: in se
stessa (
per se), in quanto effetto di una causa (
propter quid), in quanto causa di un
effetto (
quia). Ebbene, nessuno dei tre modi suddetti può essere invocato efficace-
mente a proposito della conoscenza di Dio:
Neque per se notus est sicut principia,
neque propter quid, quia non habet causam, neque quia, quia non habet effectum
proportionatum.
24
Dio non è noto né in se stesso (
per se),
come lo sono i principi,
né in quanto effetto di qualcosa che lo produce (
propter quid), poiché non ha causa
da cui possa derivare, né in quanto causa (
quia), dal momento che non produce un
effetto a lui proporzionato. A lui non si può insomma pervenire in nessuno dei modi
naturali mediante i quali si acquisisce la conoscenza:
in deo vacant omnes modi
cognoscendi naturales nobis, quibus scientias acquirimus. Resta allora il fatto che
la nostra mente può cogliere, al di sopra della sua natura, «una certa luce divina che
la eleva al di sopra di tutti i modi naturali di vedere le cose».
È solo grazie a questa
23
«Noi preghiamo di trovarci in questa tenebra luminosissima e mediante la privazione della
vista e della conoscenza poter vedere e conoscere ciò che sta oltre la visione e la conoscenza con il
fatto stesso di non vedere e non conoscere» (D
ioniGi
a
reopaGita
,
Teologia Mistica 2, tr. it. P. Scazzoso
,
Milano, Rusconi 1981, p. 410).
24
a
lBerto
M
aGno
,
Super mysticam theologiam Dionysii, ed. P. Simon, in
Opera omnia […]
curavit Institutum Alberti Magni coloniense, vol. 37/2, Aschendorff, Münster i. Westf. 1978, p. 466.
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Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio
luce divina che si può giungere alla visione di Dio; una visione tuttavia non distinta,
ma confusa (“non determinata”, in termini albertiani), la quale può permettere una
conoscenza di Dio non
per se, ma solo
quia, permette cioè di conoscerlo non in se
stesso ma in quanto causa di tutte le cose. L’intelletto creato non può raggiungere
perfettamente Dio, in una maniera tale cioè che nulla che riguardi la conoscenza
di lui rimanga fuori dell’intelletto. Ci si può unire a lui solo in maniera confusa e
indistinta, come a qualcosa che stia oltre. Infatti di Dio non possiamo conoscere né
il
quid, l’essenza, dal momento che essa è infinita, né il
propter quid,
la causa, in
quanto Dio non ha causa, e nemmeno, in modo determinato, il
quia, il fatto “che è”
causa, poiché i suoi effetti non sono a lui proporzionati.
25
La conclusione di questo discorso è posta significativamente all’inizio del te-
sto da Alberto. Si tratta della celebre espressione del profeta Isaia: «veramente tu sei
un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore».
26
Lo stesso Tommaso d’Aquino ripren-
derà questi temi e affermerà che pur essendo possibile, con l’aiuto dell’illuminazione
della grazia, “vedere” Dio, almeno nello stato beatifico, non sarà mai possibile com-
prenderlo pienamente, essendo l’essenza divina infinita.
27
Conclusioni
Abbiamo analizzato brevemente il ruolo giocato da pensatori del XII e del
XIII secolo, in particolare Pietro Abelardo e Alberto Magno a proposito del processo
di “costruzione della teologia medievale”, per citare il titolo di un recente libro di
Inos Biffi
28
(teologia intesa in questo senso ampio di
summa, di sintesi e vertice del
sapere). La loro opera teologica può essere letta come il tentativo di edificare un
sapere razionale, ancorché fondato sui dati della rivelazione cristiana, grazie all’uso
accorto della filosofia e degli strumenti logici aristotelici; un sapere nel quale tro-
va ampio spazio, e anzi diviene metodo, la discussione dialettica, l’argomentazione
razionale, la confutazione. Tuttavia, la teologia non è solo
scienza di Dio (scienza
secondo i canoni aristotelici, cioè un sapere costruito con metodo, mediante argo-
mentazioni razionali, e che ha come punto di partenza, come le altre scienze, principi
indimostrabili e inconfutabili); è anche
ricerca di Dio,
una ricerca mai risolutiva,
mai conclusa, essendo il suo oggetto, propriamente parlando, ineffabile e irraggiun-
gibile (secondo il modello della teologia negativa e mistica).
25
Ibid.
26
Is. 45, 15.
27
t
oMMaso
D
’a
quino
,
Summa Theologiae, I, q. 12.
28
I. B
iFFi
,
Mirabile Medioevo. La costruzione della teologia medievale, Milano, Jaca Book
2009.