S giovanni bosco



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VI.
Autari e Teodolinda (85).

(Dall’anno 573 all’anno 590).


Morto Alboino i Longobardi si radunarono in Pavia, ed elessero per loro re uno dei più illustri dell’esercito per nome Clefi. Il regno di costui durò solo due anni, ed egli fu ucciso da un suo cortigiano. Dopo Clefi ebbe luogo un interregno di dodici anni; cioè per lo spazio di dodici anni non fu più eletto alcun re. Qui parmi opportuno di farvi brevemente conoscere come fossero governati i Longobardi. Di mano in mano che essi conquistavano nuove provincie, ne affidavano il governo a un duca, il quale aveva l’amministrazione di tutti gli affari militari e civili. Sotto ai duchi stavano gli Sculdasci o Centenari, di cui ognuno reggeva un distretto di 144 famiglie o fare con autorità pari a quella del duca, benché meno estesa. Sotto agli Sculdasci erano i Decani, ossia capi di 12 famiglie; ogni famiglia poi era ancora retta da un capo, detto Arimanno (*).
[(*) I seguaci del culto oddinico avevano la decina composta di dodici unità; quindi per loro il centinaio corrispondeva al numero 144. Il duca aveva sotto di sé circa un 1728 fare o famiglie (a)].
Ogni uomo atto a portare le armi era obbligato a servire in guerra, ed ogni giovane appena decorato delle armi diventava capo-famiglia, e veniva designato col nome sopra detto di Arimanno o Esercitale, cioè atto a servire negli eserciti. Tutto lo Stato poi era governato dal re e dall’assemblea. Alla morte di un re se ne eleggeva un altro tra i duchi, il quale capitanava gli eserciti, presiedeva l’assemblea, proclamava le leggi, e giudicava le cause di maggior momento. All’assemblea apparteneva eleggere il re, approvare le leggi ed anche giudicare le cause gravi. Essa componevasi di tutti gli arimanni, i quali si radunavano insieme quando si avevano a trattare affari d’importanza.

Alla morte di Clefi, durante l’interregno di dodici anni, siccome sopra vi ho detto, ciascun capo di provincia, ciascun duca governò i sudditi compresi nel proprio distretto; eglino si moltiplicarono fino a trentasei, e si divisero i beni della corona. La qual cosa cagionò gravi disordini e gravi mali all’Italia, perciocché ciascuno voleva essere indipendente, e non sapevasi a chi ricorrere in occasione di litigi. Laonde per assicurare la pace interna e per avere un capo che li difendesse contro ai Greci, che minacciavano di togliere loro l’Italia, i duchi medesimi si radunarono, e restituendo alla corona i beni che le avevano tolto, elessero Autari figliuolo di Clefi. Fu questi uno dei più illustri re Longobardi, il cui senno e valore poterono consolidare la vacillante loro monarchia, mercé le molte vittorie riportate contro ai suoi nemici. E dilatò i confini del suo regno, ed essendo trascorso coll’esercito sino a Reggio di Calabria, spinse il cavallo verso di una colonna che sorgeva in mare, e toccandola coll’asta esclamò: Fin qui saranno i confini dei Longobardi.

L’avvenimento più notabile del suo regno fu il matrimonio celebrato con Teodolinda, figliuola di Garibaldo re di Baviera.

Autari desiderava di conoscerla prima delle nozze; perciò invece d’inviare altri si travestì e accompagnò egli stesso l’ambasciatore spedito per dimandare la mano della donzella.

Giunto l’ambasciatore al cospetto del duca di Baviera, espose il motivo della sua ambasciata, e Garibaldo, cui erano già note le prodezze del re d’Italia, di buon grado acconsentì. Ma Autari, per vedere Teodolinda prima di partire rivoltosi al duca: fa, gli disse, che noi vediamo quella tua figliuola che deve essere nostra regina, perché tengo commissione particolare dal nostro re di dargliene contezza. Garibaldo fece venire la fanciulla, la cui semplicità ed avvenenza palesavano le luminose virtù dell’animo. Autari allora voltosi al duca: poiché, soggiunse, noi la vediamo tale da stimarla veramente degna di essere nostra regina, fa che riceviamo dalla sua mano, come è in uso presso di noi, un bicchiere di vino.

Il duca acconsentì, e Teodolinda versò il vino prima all’ambasciatore, poscia ad Autari; ed appunto in quella occasione poco mancò che Autari fosse conosciuto; perciocché l’età sua giovanile, la bella statura, il biondo crine e l’elegante aspetto diedero a sospettare che egli fosse il re stesso d’Italia, di cui fingevasi ambasciatore.

Ritornando egli nel suo regno fu accompagnato da un nobile corteggio di Bavari sino al confine delle Alpi, e nell’atto che essi volevano prendere commiato per tornare alloro paese, Autari piantando con un gran colpo un’azza, ossia una scure nel tronco di un albero, esclamò: «Così colpisce Autari re dei Longobardi».

Teodolinda divenuta regina dei Longobardi ebbe grande e benefica parte nelle vicende d’Italia: essa era cattolica, i Longobardi alcuni erano ariani, vale a dire seguaci dell’eresia di Ario, altri pagani. Nondimeno tre anni da lei passati con Autari bastarono a conciliarle gli animi di tutti. Sicché Autari essendo morto in Pavia nel cinquecentonovanta senza lasciar prole, i Longobardi proposero a Teodolinda di eleggersi un marito, quale a lei meglio gradisse, ed eglino lo avrebbero tenuto per loro re. Ella scelse Agilulfo duca di Torino, principe fra gli Italiani il più ammirato per valore e per virtù, e parente del re defunto.



VII.
Agilulfo, Teodolinda e S. Gregorio Magno (86).

(Dall’anno 590 all’anno 625).


Quando la virtuosa Teodolinda decise di scegliersi a marito e re Agilulfo, tacque il suo divisamento; e fattolo pregare di venire alla sua corte, da Pavia andò ad incontrarlo fino alla terra di Lomello oggidì Lomellina.

Quivi dopo cortesi accoglienze fece recare un nappo, bevette ella prima, poi l’offerì ad Agilulfo, perché esso pure bevesse; questi nel restituirle il nappo le baciò la mano, secondo l’uso dei Longobardi. Non è questo, disse allora Teodolinda, il bacio che io devo attendere da quello, che io destino per mio marito e mio re; la nazione Longobarda mi concede il diritto di darle un sovrano, ed essa per bocca mia t’invita a regnare sopra di noi. Allora i Longobardi si radunarono in un campo vicino a Milano, fecero montare Agilulfo sopra uno scudo, ed elevatolo alla vista di tutto il popolo, secondo che costumavan di fare, l’acclamarono re d’Italia.

Una cosa segnalò l’esaltazione di Agilulfo al trono, e fu la sua consacrazione colla corona di ferro, di cui vi farà certamente piacere di udire il racconto.

Nell’anno 327 sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, scoprì sul monte Calvario la croce ed i chiodi, con cui fu crocifisso il nostro Salvatore. Con due di essi fece lavorare un diadema ossia una corona, e un freno, mandando l’uno e l’altro in dono a suo figlio.

Il chiodo, che aveva servito per freno o morso, fu poscia donato da S. Ambrogio al duomo di Milano, ove tuttora si venera come preziosa reliquia. Il diadema passò da Costantino ai romani Pontefici; e S. Gregorio Magno Papa ne fece dono alla pia Teodolinda, e costei lo presentò alla basilica di S. Giovanni Battista in Monza. Questo diadema, chiamato Corona di ferro, è tutto d’oro, girando solamente nell’interno di esso una lamina sottilissima di ferro formata col santo chiodo. L’altezza della Corona di ferro è di cinque centimetri, il diametro, cioè la larghezza interna, è di centimetri quindici.

Colla Corona di ferro s’incoronarono i re Longobardi; poi quasi tutti i sovrani che si chiamarono re d’Italia. Questa corona si conserva gelosamente in Monza, città distante dieci miglia da Milano. Primo ad essere incoronato colla Corona di ferro fu Agilulfo.

Un altro avvenimento che merita di non essere dimenticato, si è che san Gregorio Magno, fu innalzato alla dignità di Sommo Pontefice nel medesimo giorno in cui Agilulfo fu incoronato re dei Longobardi. Vi ho già raccontato nella Storia Ecclesiastica le grandi cose operate da questo Papa a pro dell’Italia e di tutta la cristianità. Ora accennerò soltanto quello ch’egli fece riguardo ai Longobardi.

Vedendo egli con cuore addolorato le persecuzioni che quei barbari muovevano contro ai cattolici, volle adoperarsi efficacemente per convertirli. Si portò in persona alla corte di Agilulfo, e d’accordo colla pia Teodolinda ottenne la conversione del duca. Questa principessa seppe guadagnarsi talmente l’affetto del marito, e fargli comprendere le bellezze della cattolica religione, che egli abiurò pubblicamente l’arianismo; esempio che venne seguito dai capi dell’esercito. Allora i Longobardi corsero a schiere per rinunziare ai loro errori ed abbracciarono la religione degli Italiani, cominciando nel tempo stesso ad imitarne i costumi. Così la Chiesa, favorita dall’autorità civile, faceva vere conquiste e diradava le folte tenebre dell’ignoranza e della barbarie.

In quel medesimo tempo S. Colombano, di nascita Irlandese e fondatore di un novello ordine di monaci, dopo di aver aperto molti monasteri in patria e nella Francia, si recò in Italia. Agilulfo lo accolse favorevolmente, e gli assegnò una cappella, dove ora è la città di Bobbio; di più gli diede una estensione di terreno lungo e largo cinque miglia. Il santo uomo vi fondò un monastero, dove i monaci attendevano alla pietà, allo studio e a dissodare i terreni incolti della valle della Trebbia.

Agilulfo poco prima di morire radunò in Milano i capi della nazione, e in loro presenza in maniera solenne fece coronare successore suo figliuolo Adaloaldo. La morte di Agilulfo avvenne nel 615.

Ma Adaloaldo divenuto pazzo, fu deposto, e Teodolinda continuò ad essere il sostegno del trono dalla morte di Agilulfo al 625, quando con rincrescimento universale ella cessò di vivere.

Non fu mai donna che abbia avuto tanta influenza negli affari politici d’Italia quanto Teodolinda: essa beneficò i suoi sudditi; per sua cura quasi tutti i Longobardi abbracciarono il cattolicismo, e visse da buona cattolica affezionatissima alla Santa romana Chiesa.



VIII.
Rotari. – L’Editto Longobardo (87).

(Dall’anno 625 all’anno 712).

Morto Adaloaldo, i Longobardi venerando le virtù di Teodolinda nell’anno 625 acclamarono a re Ariovaldo, genero di lei. Dopo la morte di Ariovaldo fu eletto re Rotari, il cui regno divenne celebre per le leggi che pel primo promulgò in favore dei sudditi. Egli raccolse le antiche consuetudini dei Longobardi, e facendo ad esse alcune modificazioni formò un codice, ossia un corpo di leggi detto editto, la quale parola significa legge pubblicata. L’editto pubblicato nel 644 ci porge una chiara idea della vita civile de’ Longobardi prima che si fondessero, per così dire, coi vinti Italiani, ed io colla scorta di tanto documento ve ne darò un cenno, restringendomi al Mundio, alla Meta, alla Faida ed al Guidrigild. Mundio chiamavasi la tutela che l’arimanno o capo-famiglia esercitava sulla moglie, sui figli che ancor non avessero cinte le armi, e sopra i servi. Il mundio dava al capo di casa l’autorità di comporre i litigi, che sorgevano tra i membri della famiglia e le persone estranee, e di percepire il provento delle fatte composizioni. Quando poi gli era chiesta una figliuola a nozze, il richiedente doveva pagargli il mundio pel diritto che egli acquistava sopra la promessa consorte.

Oltre il mundio lo sposo con quell’atto doveva sborsare al padre della sposa una somma più o meno cospicua secondo le sue facoltà, che addimandavasi Meta. Così non la donna portava la dote al marito, ma questi doveva pagarla al padre della sua futura compagna.

Presso i Longobardi non vi erano schiavi propriamente detti: i loro servi lavoravano i campi e dicevansi aldii. In generale essi erano trattati bene, contraevano matrimoni tra loro, e potevano per volere del re o del duca venire affrancati, cioè entrare nel numero degli uomini liberi.

Ma i Longobardi avevan recato seco dai loro paesi insieme col mundio la così detta Faida, cioè diritto ed obbligo della vendetta. Questo diritto regolava le successioni, e si estendeva fino alla settima generazione. La religione cristiana non tardò a farli accorti che la Faida era una mostruosa barbarie in sé; e che privare i deboli, i minorenni e le donne delle sostanze paterne per ciò solo che non potevano maneggiar la spada, era grave ingiustizia. Laonde Rotari negli articoli dell’editto, che riguardano la parte criminale, sostituì alle pene del taglione, messe in opera antecedentemente, il guidrigild, ossia i compensi. Così, per es., chi uccide un uomo libero pagherà il guidrigild di 900 soldi; chi ammazza un aldio sborserà all’arimanno, a cui appartiene, soldi 60. Di 282 articoli solo 14 decretano la pena di morte, da cui non può liberarsi chi offende l’onore della donna, chi abbandona la propria bandiera o si ribella allo Stato. Quanto al modo di amministrare la giustizia i Longobardi sceglievano fra gli arimanni i più onesti, e a questi buoni uomini (che tale era il loro nome) affidavano le loro cause nel distretto del Ducato e della centuria a cui appartenevano. Questi buoni uomini applicavano la legge e davano sentenza inappellabile a nome delle fare o famiglie di cui erano i rappresentanti. A fine di scoprire la verità eglino ammettevano non le difese degli avvocati, ma il giuramento ed i giudizi di Dio. Chi in sua difesa adduceva più testimoni o sacramentali che giurassero per lui, vinceva la lite; se dall’un lato e dall’altro era pari il numero dei giuranti, allora si veniva alla prova del giudizio di Dio. Questa consisteva nel sottoporre il reo a passare sopra carboni accesi od impugnare un ferro rovente, o nel battersi coll’avversario. Se da tali prove usciva illeso, il reo dichiaravasi innocente e assolto. E perché le donne ed i deboli non potevano reggere a siffatti cimenti, bisognava che si cercasse chi per loro ne sostenesse i giudizi. Costoro che si pigliavano a cuore l’onore degli inabili alla prova del giudizio di Dio dicevansi campioni; il pegno deposto dalle parti per assicurare i giudici che non mancheranno di comparire nel tempo dato, si chiamava gaggio, parole che restarono nel corpo della nostra lingua comune. Voi, cari giovanetti, vedete che le leggi longobarde non dimostrano ancora un grado di molta civiltà in questi barbari già di fatto convertiti dall’arianesimo e dall’oddinismo alla santa nostra religione. Tuttavia non potrete non riconoscere in esse la benefica influenza del Vangelo, che impone la estinzione degli odi, l’onore ed il rispetto a tutti, e inspira il sentimento della dignità che ha l’uomo.

Dai buoni uomini si trasse a’ dì nostri l’istituzione dei giurati; ma questi non dànno quel frutto di giustizia che forse porgevano i buoni uomini a’ tempi di Rotari e di poi. E per non dilungarci ad altre cose, che dire dei giudizi di onore o duelli che tutti i giorni udiamo farsi tra noi? Miei cari giovanetti, i duelli non sono altro che una continuazione di quelle lotte, che vi ricordai or ora essere state solite farsi dai campioni dei Longobardi per sostenere l’onore delle donne e dei deboli. La Chiesa fin d’allora non cessò dal condannare i giudizi di Dio, e contro i duellanti colla Chiesa le civili nazioni protestarono sempre. Sciagurato chi pensa di aver Dio in aiuto nello esporre volontariamente la propria persona al pericolo della morte; insensato chi, facendosi giudice e parte ad un tempo, tenta colla spada o con una rivoltella in mano di decidere della propria innocenza!

A Rotari succedettero altri re che non nomino, perché nessuno fece illustri imprese, ma tutti pigri ed oziosi attendevano solo a godere, trascurando intanto gli affari dello Stato. Così fu sino a Liutprando che cominciò a regnare nel 712.



IX.
Regno di Liutprando (88).

(Dall’anno 712 all’anno 744).


Che se i re Longobardi ponevano in non cale le cose d’Italia, in maggior trascuranza delle cose d’Italia erano caduti gli imperatori d’Oriente. Quanto più essi occupavansi per combattere i Persiani, i Saraceni ed altri nemici di quelle provincie, tanto meno badavano agli affari d’Occidente. Quella parte d’Italia che loro ancora ubbidiva lasciavasi governare dai prefetti, che vi si mandavano; anzi avvenne che morto un prefetto non si davano neppur pensiero di nominargli il successore. Così che gli Italiani cominciarono a nominarli essi medesimi.

Per la noncuranza dei Greci e per quella dei Longobardi accadde che parecchi si crearono duchi indipendenti nelle provincie da loro governate, e che altre città cominciarono a non più ubbidire né agli uni, né agli altri.

Fra queste città si novera Roma, la quale era bensì sottomessa a un governatore greco, ma questo né per dignità, né per ricchezze, né per soccorsi poteva competere col sommo Pontefice. Laddove in Roma il Papa sovrastava per la sua dignità spirituale, e pei continui benefizi che compartiva al popolo. Egli lo aveva alcune volte felicemente difeso dai barbari; egli procurava che a Roma affluissero le elemosine del mondo cristiano, e le spendeva in opere pubbliche ed in soccorso dei poveri. Perciò la città tenendo in poco conto il rappresentante del Greco imperatore, si consultava e si reggeva secondo il parere del supremo Gerarca suo vero benefattore. Il governatore imperiale avea il nome, il Papa aveva la realtà del comando.

Liutprando cominciò il suo. regno coll’aggiungere nuove leggi al codice Longobardo; e Gregorio II il suo pontificato col provvedere alla sicurezza di Roma, rifacendo a sue spese una parte delle mura della città.

Questo periodo di tempo è assai celebre per la nuova eresia introdotta da Leone Isaurico imperatore di Oriente. Creatosi giudice delle cose di fede, egli pubblicò un editto, in cui ordinava che quindi innanzi fossero vietate, e si dovessero togliere tutte le sacre immagini esistenti nelle terre soggette all’impero. Per questa eresia egli ebbe il soprannome di Iconoclasta che vale spezzatore di immagini.

All’esecuzione di quell’editto si oppose in Roma il pontefice Gregorio, il quale scrisse anche lettere risentite all’imperatore; ma questi rispose insistendo con più calore, e minacciando di deporlo dal trono pontificale. Allora Gregorio indirizzò ai cristiani una lettera, con cui comandava di conservare le immagini divote, e di opporsi all’empio disegno del sovrano. Sdegnato per questa opposizione l’imperatore spedì più e più volte sicari a Roma, incaricati di uccidere Gregorio; ma il popolo come seppe insidiata la vita di lui, si sollevò ed uccise alcuni dei sicari. Inviperito vie più Leone di queste cose, ordina ai pochi soldati imperiali esistenti in Italia, di recarsi a Roma per arrestare il Papa; ma il popolo romano ed altre provincie italiane si armano e pongono in fuga gl’imperiali.

Nuove forze raccoglie Esilarato, duca di Napoli, e si avvia contro Roma, ed il popolo lo sconfigge, prende Esilarato col figliuolo e li mette a morte; poi caccia di Roma il governatore imperiale. Gl’Italiani si erano accesi di tanto sdegno contro Leone, che già disegnavano di nominarsi un altro imperatore, ma Gregorio vi si oppose.

Di quest’odio universale contro ai Greci si valse Liutprando per assalire molte città e terre dipendenti dall’imperatore, e già aveva incominciato ad occupare quelle del ducato romano, quando Gregorio prese a proteggere queste ultime; perciò Liutprando ne fece dono al Pontefice, Affinché non più ricadessero sotto al dominio imperiale.

Leone accortosi ornai che così andava perdendo quella parte d’Italia che era sua, offrì a Liutprando molti castelli e terre a condizione che egli movesse contro Roma per ristabilirvi il dominio imperiale. Già si appressava alla città il re Longobardo, quando Gregorio uscì ad incontrarlo, e gli mostrò il grave suo torto: alle paterne ammonizioni del Pontefice rimase Liutprando così commosso, che gli si gittò ai piedi, invocando perdono; poi solo entrò in Roma e sopra il sepolcro del principe degli Apostoli depose il manto reale e quanto aveva di prezioso, facendone dono a S. Pietro.

Poco dopo morì Gregorio II, e gli succedette Gregorio III, che in un concilio di 93 vescovi scomunicò gli Iconoclasti. Di lì a poco passò ancora di questa vita Leone Isaurico, che ebbe per successore Costantino Copronimo suo figliuolo, peggiore del padre. Ad istigazione di lui si mosse nuovamente Liutprando contro di Roma e contro alle terre da essa dipendenti. Allora il Pontefice vedendosi quindi assalito dai Longobardi, e quindi insidiato dagli imperiali, chiese soccorso a Carlo Martello re dei Franchi. Costoro erano quel popolo che, come già vi dissi, venuto dalla Germania si era impadronito della Gallia. L’autorità di Carlo Martello bastò perché il re Longobardo rinunziasse alla sua folle impresa; se non che Liutprando dovette poco stante rinunziare alla vita.

Prima peraltro di esporvi i fatti di Carlo Martello e dei suoi successori, allora che vennero in Italia, stimo bene di darvi un cenno del dominio temporale dei Papi, che si andò formando e consolidando in quei tempi all’Italia tanto calamitosi.

X.
Dei beni temporali della Chiesa e del dominio del Sommo Pontefice (89).

(Dall’anno 700 all’anno 750).

Cari giovani, voi udiste sovente a parlare ora in biasimo, ed ora in lode dei beni temporali della Chiesa e del dominio del Sommo Pontefice; giova quindi darvene una giusta idea.

La Chiesa è la società dei credenti, governata dai propri pastori sotto la direzione del Sommo Pontefice. L’interrogare se questa società abbia diritto di sussistere e vivere, sarebbe lo stesso come interrogare se la verità abbia il diritto di esistere e diffondersi sulla terra. Ma per vivere è necessario il pane quotidiano, che ogni dì dimandiamo al Signore; ed a questo pane hanno diritto quei pastori che si consacrano al bene delle anime.

Donde mai la Chiesa traeva questo pane?

Dalle oblazioni spontanee dei fedeli, i quali erano padroni d’impiegare le loro sostanze come volevano. Nei primi tempi della Chiesa si facevano collette nelle chiese, ed i cristiani offerivano i loro doni agli Apostoli ed ai loro successori. L’ufficio di distribuire queste oblazioni fu commesso ai diaconi, i quali così provvedevano anche alle vedove, agli orfani e generalmente ai poveri. Se si offerivano beni stabili, questi si solevano vendere sì per provvedere ai bisogni urgenti, e sì perché non fossero involati dal governo pagano, il quale non solo i beni, ma la vita stessa toglieva ai cristiani.

Quando poi Costantino riconobbe la verità della religione cristiana, egli stesso, come buono e ricco fedele, faceva del proprio edificare sacri templi, li ornava, loro offerendo pei medesimi copiose limosine. Frattanto la Chiesa cominciò ad accettare in dono ed a ritenere, senza più venderli, beni stabili; perciocché gli imperatori avendola conosciuta per vera ed esistente non le potevano negare quei diritti e quei mezzi di sussistere, che un governo non può negare ai privati, dovendola piuttosto proteggere contro agli usurpatori.

Ma la Chiesa deve inoltre essere libera, perciò indipendente nell’esercizio de’ suoi doveri spirituali. Chiamata a diffondere il Vangelo nel mondo, non può mutarlo per accondiscendere alle voglie dei prìncipi terreni: ma deve predicarlo quale fu predicato da Cristo Signore. Gesù Cristo perché lo annunziava con piena libertà fu posto in croce: gli Apostoli perché lo bandivano con massima franchezza sostennero tutti il martirio. Ed i Papi? di trentadue che si contano anteriori a Costantino, trentadue morirono per la fede, di cui ventinove soffrirono il martirio, e martiri furono molti vescovi e molti sacerdoti. La Chiesa adunque ed il suo Capo supremo furono liberi ed indipendenti nei primi secoli, ma a costo della vita.

Viene Costantino, il quale riconosce la religione cristiana come discesa da Dio per la salvezza degli uomini; ad un tempo riconosce e venera san Silvestro come principe dei pastori e centro della religione, e supremo monarca del regno spirituale. Quindi per uno di quei consigli, che non si spiegano secondo il mondo, trasporta il suo trono ai confini d’Europa nella città di Bisanzio, rinunziando alla splendida Roma per la povera Bisanzio che volle denominata Costantinopoli. Ciò fatto, niun imperatore ebbe dipoi residenza in Roma; e quando Teodosio creò due imperi, uno in Occidente, l’altro in Oriente, Milano e non più Roma fu la capitale dell’impero occidentale. Vennero dipoi i barbari a fondare un regno in Italia, ma ora risiedettero a Ravenna, ora a Pavia. Così che da Costantino in poi gli imperatori, i re e prìncipi non vennero più a Roma se non come viaggiatori, e Roma divenne la sede del Sommo Pontefice, la stanza del principe dei cattolici. Ciò non ostar.te i Papi non possedevano ancora su Roma un dominio temporale come già lo ottenevano sopra le cinque città di Ancona, di Umana, di Pesaro, di Fano e di Rimini, dette la Pentapoli: tuttavia vi godevano di una sovranità morale, che presto si convertì in vero dominio.

Infatti Leone Isaurico, come abbiam detto, imperatore d’Oriente, avendo dichiarato guerra alle sacre immagini, pretendeva che Papa Gregorio II le spezzasse in Roma, sperdesse le reliquie dei martiri, e così negasse l’intercessione dei Santi presso Dio. Gregorio risolutamente negò di ubbidire, e Leone perseverando nella perfidia mandò suoi ministri per deporre il Papa, mandò sicarii per ucciderlo a tradimento, mandò soldatesche per arrestarlo a viva forza, e per ispogliare le chiese. Ed il popolo? il popolo romano sempre difese la persona e la vita di Gregorio e colle armi respinse i soldati imperiali. Finalmente il Senato ed il popolo si dichiararono indipendenti da un tiranno eretico e persecutore. Roma allora si diede al Papa, come molte altre città si erano già date ai Pontefici, perché sotto il loro governo trovavano pace, giustizia e soccorsi, dove che i principi laici riponevano il diritto nella spada. Pipino e Carlo Martello re di Francia, siccome presto sarò per raccontarvi, fecero anche dono ai Papi di varie città, e Carlomagno solennemente riconobbe e confermò quelle donazioni. .

Così Roma fu liberata dal trono imperiale per dare luogo al solo trono pontificale; Roma divenne indipendente dall’impero e propria dei Pontefici, senza che questi la conquistassero coi raggiri o colle armi. Così i Pontefici acquistarono una città ed un territorio abbastanza grande per essere liberi ed indipendenti a casa loro, ma abbastanza piccolo da non divenire mai potentati tremendi come quelli della terra.

Gli antichi Greci colla loro autorità vengono a confermare le tre massime: che un oracolo religioso deve essere libero ne’ suoi giudizi; che per essere libero abbisogna dell’indipendenza; e che per essere indipendente deve abitare in città propria ed in proprio territorio. Infatti l’oracolo di Delfo, rinomatissimo in tutta l’antichità, era cattolico presso i Greci, perché da tutti venerato, e da tutte le parti andavano a visitarlo e consultarlo; ma Affinché fosse libero i Greci vollero che la città ed il contado di Delfo fossero indipendenti dagli Stati della Grecia, e per conseguenza l’oracolo risiedesse in paese suo. Per ottenere vie meglio il loro intento vari Stati greci mantenevano a Delfo ambasciatori, che formavano il così detto Consiglio amfizionico, incaricato di tutelare l’indipendenza e il dominio dell’oracolo e della città contro le usurpazioni e gli insulti sì dei privati, sì delle repubbliche. Avvenendo un’usurpazione, il consiglio giudicava e condannava il reo; se questi ricusava di ubbidire, era scomunicato, e tutti lo potevano ammazzare. Ove poi contro al reo bisognasse venire alle armi, il Consiglio invitava gli Stati federali, si faceva la guerra, e la guerra si chiamava sacra.

Come l’oracolo religioso era cosa cattolica, ossia universale per tutti i Greci, così la città, il contado, il tempio e le ricchezze di Delfo non appartenevano punto ai cittadini di Delfo; e così voi, giovani, pensare dovete rispetto all’oracolo cattolico del Vicario di Cristo.

Sebbene questo regno non sia molto vasto, tuttavia perché ne è sovrano il romano Pontefice, capo di tutto il cattolicismo, le potenze cattoliche si diedero sempre massima premura per conservarlo; perciò si mantenne ognora florido, e come tale da 1200 anni si conserva.

Ai nostri giorni a tal uno pare sia cosa incompatibile che il Papa, capo della religione, sia anche re temporale; il che tuttavia non sembrerà a voi cosa strana, se richiamerete alla memoria come gli antichi patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, Melchisedecco, Eli, Samuele e moltissimi altri siano stati capi della religione e principi ad un tempo delle cose temporali.

Altronde tanto l’autorità spirituale, quanto l’autorità temporale vengono ambedue da Dio: perché dunque non si potranno conciliare insieme? tanto più che ogni potere temporale per camminare con giustizia deve regolarsi in modo da non fare cosa alcuna contra al potere spirituale stabilito da Dio.

Che se per supposizione in questi tempi il romano Pontefice non fosse re, ed egli come capo del cattolicismo dovesse comandare qualche cosa contraria ai voleri di quel sovrano, di cui fosse suddito, potrebbe forse aver libera relazione coi re cattolici di tutto il mondo, quando (come per disavventura potrebbe accadere) diventasse suddito di un re eretico o persecutore del cristianesimo?

Riguardo poi ai beni temporali della Chiesa ed al dominio temporale del Sommo Pontefice, noi possiamo fare alcuni riflessi, che vi prego di non dimenticare. Primieramente è di vera necessità che il Papa dimori in un paese libero ed indipendente, affinché possa liberamente giudicare le cose di religione. 2° Questo dominio temporale non solamente appartiene ai sudditi degli Stati romani, ma si può chiamare proprietà di tutti i cattolici, i quali come figli affezionati in ogni tempo concorsero, e devono tuttora concorrere per conservare la libertà e le sostanze al capo del cristianesimo. 3° Nella stessa guisa poi che un figliuolo deve amare l’onore di suo padre, rispettare e fame rispettare le sostanze; così noi cattolici, tutti figliuoli del medesimo Iddio, nati ed educati nella medesima religione, tutti dobbiamo professare il medesimo interesse per la libertà, per l’onore, per la gloria e per le sostanze del nostro padre spirituale, il Vicario di Gesù Cristo, il Romano Pontefice.

Nel progresso di questa storia non mancherò di accennarvi le principali vicende, a cui i beni della Chiesa ed il dominio temporale del sommo Pontefice andarono soggetti.


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