S giovanni bosco



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EPOCA TERZA


L’ITALIA NEL MEDIO EVO DALLA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO IN OCCIDENTE NEL 476,

ALLA SCOPERTA DEL NUOVO MONDO NEL 1492




I.
Odoacre, primo Re d’Italia. - Invasione de’ Goti (79).

(Dall’anno 476 all’anno 493).


La storia che imprendo a raccontarvi, miei buoni amici, dicesi del Medio Evo, ossia dell’età di mezzo. Con questo nome s’intende comunemente quella serie d’avvenimenti succeduti dalla caduta del Romano Impero in Occidente fino alla scoperta del Nuovo Mondo, fatta da Cristoforo Colombo nel 1492.

In questo lungo spazio di tempo l’Italia fu quasi continuamente il ludibrio de’ barbari, i quali in varii tempi e da diversi paesi la vennero ad assalire, e con danno immenso degli Italiani la fecero loro preda. Erano i barbari uomini senza leggi, senza politica e quasi senza religione. In ogni loro questione la forza teneva luogo di ogni diritto.

Già vi raccontai come Odoacre, quell’antico ministro del feroce Attila, era venuto in Italia con molte schiere di barbari, ed erasi fatto riconoscere per primo re d’Italia nel 476. poiché il nome d’imperatore era caduto in discredito in Occidente, egli si contentò del titolo di patrizio di Roma, che ottenne dall’imperatore d’Oriente (80).

Sebbene barbaro di nazione, Odoacre mostrò capacità e virtù degne del grado cui aveva saputo innalzarsi. È per altro tacciato di essersi usurpate le proprietà dei vinti per darle a’ suoi soldati. Egli aveva loro promessa la terza parte delle terre d’Italia, Affinché lo eleggessero re, e la promessa adempì appena salito sul trono. Questo fatto sarebbe reputato vera ingiustizia, se non fosse stato in certa maniera giustificato dallo scarsissimo numero di uomini che abitavano l’Italia, e dal grande bisogno di avere nuove braccia per coltivare le campagne.

Nello spazio di pochi anni, che passò in Italia, depose la fierezza propria di tutti i barbari, e benché professasse l’eresia degli Ariani, tuttavia si mostrò molto propenso a favorire il cattolicismo. La moderazione di questo re è dovuta alla relazione che mantenne con un santo solitario di nome Severino, il quale abitava sulla sponda del Danubio vicino alla città di Vienna.

Mentre Odoacre veniva co’ suoi in Italia, fu rapito dalle maraviglie che da tutte le parti si raccontavano di questo solitario, e volle andare in persona a visitarlo. Egli vi andò sotto modeste sembianze, penetrò nella grotta dove il santo era come sepolto. Per la bassezza di quella abitazione il principe, di statura altissimo, dovette starvi col capo chino per non urtare nella volta. Odoacre non avea cosa nelle sue vesti, che potesse manifestare chi egli fosse; nondimeno nel licenziarlo Severino lo salutò per nome, e gli predisse tutta la serie delle sue imminenti vittorie. «Tu vai in Italia, gli disse, e vai vestito di povere pelli, ma in breve diverrai padrone di grandi ricchezze; il tuo regno sarà di 14 anni».

Allora che Odoacre si trovò difatto re d’Italia si rammentò dell’uomo, e gli scrisse domandandogli quale cosa avrebbe potuto fare di suo maggior gradimento. L’umile Severino non volendo rifiutare la liberalità di un principe, lo pregò del richiamo di un bandito, e ne fu immediatamente appagato.

Odoacre era divenuto pacifico re d’Italia, quando un capo barbaro di nome Teodorico con grande moltitudine di Ostrogoti, andando in cerca di paesi da conquistare, minacciava le frontiere. Devo qui notarvi che gli Ostrogoti erano una parte di quei Goti, di cui ebbi già altre volte occasione di parlarvi. Essi venivano da una regione detta Scandinavia, che oggidì si appella Svezia e Norvegia, e giunti al Danubio si divisero tra loro, recandosi altri verso l’Oriente, altri verso l’Occidente. I primi furono detti Ostrogoti, cioè Goti Orientali, gli altri Visigoti, cioè Goti occidentali.

Per meglio comprendere con quanta facilità gli Ostrogoti abbiano potuto rendersi padroni d’Italia, è bene che io vi faccia ancora notare che alla caduta dell’Impero Romano in Occidente gl’imperatori d’Oriente, non essendo più in grado di difendere l’Italia, l’avevano abbandonata, e lo stesso imperatore Zenone acconsentì volontieri a Teodorico che venisse a conquistarla. Alla notizia di quell’innumerevole turba di nemici, Odoacre radunò le sue genti, ed andò ad accamparsi sulle rive dell’Isonzo (fiume dell’Illirio) per difendere i suoi Stati. Il suo esercito era numeroso, ma dopo le conquiste lo aveva lasciato in ozio, da cui nacquero molti vizi, di modo che que’ soldati erano piuttosto pronti a fuggire, che a combattere. Toccata colà una grave sconfitta nell’agosto del 489, Odoacre raccolse un secondo esercito, ed andò ad affrontare il nemico sulle rive del fiume Adige, vicino alla città di Verona, dove seguì la grande battaglia, che dovea decidere della sorte di que’ due illustri guerrieri.

Dicesi che nella mattina di quel giorno memorando Teodorico si recasse sotto la tenda in cui la madre e la sorella si erano ritirate colle donne del loro seguito, e che le pregasse di dargli la più bella veste che esse avessero fatto colle loro mani, perciocché presso gli antichi popoli le donne di qualunque grado usavano occuparsi a filare la lana ed a tessere panni per gli abiti de’ loro mariti e de’ loro figliuoli. Teodorico rivolgendo poscia un pietoso sguardo alla genitrice: «Signora, le disse, la vostra gloria è legata colla mia; si sa che siete la madre di Teodorico, e tocca a me di mostrare, che sono degno vostro figliuolo».

Dette queste parole, andò a porsi alla testa de’ suoi soldati, e appiccò una terribile battaglia, l’esito della quale fu con grande vigore contrastato. Anzi fu un momento in cui gli Ostrogoti quasi disfatti, avvolgendo nella ritirata il medesimo loro re, tentavano di andare a cercarsi salvezza nei loro quartieri, quando la madre di Teodorico movendo contro ai soldati gridò ad alta voce: «Soldati, dove mai volete correre? se fuggite quale scampo vi rimane ancora? volete che i nemici possano dire che i soldati di Teodorico siansi dati a vergognosa fuga?».

Queste parole riaccesero il coraggio nell’animo dei fuggitivi, i quali radunatisi intorno alloro re ritornarono alla pugna e riportarono compiuta vittoria. Odoacre venne ancora altre volte alle mani co’ nemici, ma ne fu sempre sconfitto. Ciò non ostante si fortificò nella città di Ravenna, ove sostenne un lungo assedio con raro valore. Finalmente per la mancanza de’ viveri fu costretto a capitolare, ma colla condizione che egli e Teodorico regnassero ambidue insieme in Italia. Teodorico gli accordò quanto chiedeva; ma pochi giorni dopo il perfido in un solenne banchetto fece trucidare Odoacre, suo figliuolo e tutti quei del suo seguito che vi erano stati invitati.




II.
Regno di Teodorico (81).

(Dall’anno 493 all’anno 526).

Teodorico, divenuto re per via d’un assassinio, faceva temere assai pei poveri italiani che, ora per un motivo, ora per un altro, erano continuamente perseguitati ed oppressi. Tuttavia in breve tempo l’amenità del nostro clima, e qualche resto dell’antica civiltà italiana gli fecero deporre grande parte di sua fierezza, così che si occupò con molto zelo a ristorare le città e riparare alla miseria, in cui molti dei suoi sudditi erano caduti. Conquistò eziandio diversi paesi confinanti coll’Italia; cacciò varie torme di barbari che cercavano d’invadere i suoi Stati.

L’agricoltura, il commercio, la pubblica tranquillità ricomparvero in questo paese già da un secolo divenuto teatro delle invasioni nemiche; per le quali cose l’Italia era divenuta molto scarsa d’abitatori. Per ripopolarla egli spedì S. Epifanio vescovo di Pavia a riscattare i Romani, che giacevano schiavi fuori d’Italia, ed invitò gli esiliati a fare ritorno in patria.

Teodorico era ariano, ma rispettava molto i Papi e la cattolica religione; sicché i cattolici durante quasi tutto il suo regno godettero pace, e poterono liberamente professare la loro religione. Ma siccome un re che non ha la vera religione nemmeno può avere la vera moralità, così Teodorico sul fine della vita divenne sospettoso e crudele.

Obbligò papa Giovanni I ad andare a Costantinopoli per chiedere a Giustino imperatore che gli ariani suoi sudditi potessero liberamente professare la loro religione, e fossero ristabiliti nelle loro chiese state chiuse, minacciando che egli tratterebbe i cattolici d’Occidente in quella guisa che Giustino avrebbe trattato gli ariani in Oriente. Al papa Giovanni aggiunse quattro senatori. Si appressava il sommo Pontefice a Costantinopoli, e tutta la città colla croce e con doppieri venne ad incontrarlo alla distanza di dodici miglia. Giustino stesso inginocchiato a’ suoi piedi gli prestò l’onore che si conviene al Vicario di Gesù Cristo. Il Pontefice espose all’imperatore gl’intendimenti di Teodorico, e Giustino, considerato il pericolo dei cattolici d’Occidente, promise di lasciare in pace gli ariani d’Oriente, ed accomiatò il Pontefice facendogli ricchi doni per le chiese di Roma. Giovanni rientrato in Italia si recò a Ravenna per ragguagliar Teodorico dell’esito felice della sua ambasciata; ma Teodorico, fosse per la gelosia degli onori fatti al Papa, fosse perché il Papa non avesse chiesto (e chiedere non lo poteva) che fossero restituiti all’arianesimo coloro che lo avessero abbandonato per farsi cattolici, fece imprigionare il Pontefice, il quale poco dopo morì, di stento in carcere.

Era a quei tempi insigne in Italia Severino Boezio, uomo dedito alle lettere, alla filosofia ed alla teologia, il quale applicando alla verità cattolica i suoi studi filosofici aveva scritto contro l’eresie di Ario e di Eutiche. Creato console da Teodorico, si era lealmente adoperato a vantaggio del regno; ma poi accusato di tener segrete pratiche con Giustino per ridonare la libertà ai Romani, incontrò, sebbene innocente, lo sdegno del sospettoso Teodorico, che lo fece porre in carcere, dove in capo a sei mesi venne ucciso.

Suocero di Boezio era Simmaco, discendente da famiglia patrizia, senatore venerato per le sue virtù e il suo sapere. Teodorico sospettando che Simmaco, addolorato per la morte del genero, potesse tramare contro di lui, lo invitò a venire a Ravenna, dove sotto colore di finti reati lo privò di vita.

Siccome Boezio e Simmaco erano e vivevano da buoni cattolici, così Teodorico divenne abbominevole presso di tutti i buoni; tanto più che egli aveva ordinato che si dessero agli ariani le chiese dei cattolici. Ne aveva sottoscritto il decreto, quando colto da un flusso di ventre nel termine di tre giorni e nel dì stesso destinato all’occupazione delle chiese perdé la vita e il regno. Corse fama che pochi giorni prima essendogli stato portato a mensa il capo di un grosso pesce, gli parve di mirare il capo di Simmaco, che egli aveva fatto uccidere, il quale coi denti e cogli occhi torvi lo minacciasse.

III.
Amalasunta, Vitige, Belisario e Totila (82).

(Dall’anno 526 all’anno 550).

Teodorico prima di sua morte fece riconoscere re d’Italia suo nipote Atalarico di soli otto anni, sotto la tutela di sua madre Amalasunta. La quale a fine di assicurarsi un appoggio invocò la protezione dell’imperatore di Costantinopoli, e tutta si adoperò per dare una buona educazione al giovine principe. Ma i barbari, annoiati di vedere il loro re più occupato nelle lettere che nelle armi, lo tolsero di mano alla madre, e lo diedero compagno ad alcuni giovani scostumati. Il misero Atalarico, fatto così preda di malvagi consigli, diedesi alla crapula ed altri vizi, i quali in breve tempo il condussero alla tomba in età appena di anni diciotto.

Amalasunta, addolorata per la morte del figliuolo e desiderosa di provvedere un novello appoggio alla sua autorità, sposò un principe suo cugino di nome Teodato; ma costui per governare liberamente fece strangolare la novella sposa in un bagno. Allora l’imperatore Giustiniano per vendicare la morte della sua alleata mandò in Italia Belisario, generale di alto grido, che già si era segnalato in una guerra gloriosamente terminata in Africa. Come si fece vedere in Italia, molte città gli aprirono le porte; quindi egli poté venire diffilato a Roma, ed entrarvi pacificamente senza il minimo contrasto.

I Goti, accorgendosi che avevano un padrone incapace di governarli, si crearono re un altro valoroso capitano di nome Vitige, e misero a morte Teodato. Il novello principe corse tosto a cingere di assedio la città di Roma, donde fu costretto ad allontanarsi dalle genti di Belisario. Dopo molte e sanguinose battaglie Vitige, disperando di poter più oltre resistere in campo aperto, andò a fortificarsi in Ravenna. Belisario sollecitamente lo inseguì, e diedesi a cingere d’assedio quella città, cui riuscì a sottomettere colla fame. Lo stesso Vitige tratto in inganno cadde nelle mani di Belisario.

Allora i Goti per assicurarsi di avere un uomo valoroso e capace di governarli offerirono lo scettro a Belisario. Questi non volle tradire la causa del suo sovrano, e lo rifiutò, assicurando che egli voleva con fedeltà governare a nome dell’imperatore. Caricò pertanto molte barche delle spoglie d’Italia e conducendo prigioniero Vitige, la moglie, i figliuoli di lui ed i più nobili dei Goti, fece gloriosamente ritorno a Costantinopoli per condurre il suo glorioso esercito contro ai Persiani.

Dopo la partenza di Belisario i Goti si radunarono ed elessero a re d’Italia un generale per nome Ildebaldo, il quale fu ucciso dopo un anno di regno. A costui succedette Erarico il quale in breve tempo fu eziandio trucidato dai Goti.

Totila solo era l’uomo capace di regnare e di sostenere alquanto il vacillante trono dei Goti. Egli era duca del Friuli, vale a dire di quella provincia di Venezia, posta tra le Alpi Giulie e l’Adriatico, ed erasi già segnalato in molti fatti d’arme sotto al regno di Ildebaldo suo zio, e di Erarico.

Totila (anno 541) era giovine prudente e coraggioso; niun pericolo rallentava le sue imprese; ma per le vittorie di Belisario e per le intestine discordie il suo regno era ridotto ai paesi racchiusi tra le Alpi ed il Po. Inoltre egli si trovava alla testa di Una nazione degenerata ed abbattuta dalle sconfitte; perciò se riportò molte vittorie fu piuttosto debitore alla fortuna, e agli errori dei generali Greci, che non alla forza delle sue milizie. Tuttavia molti per la fama del suo valore unendosi a lui ingrossarono il suo esercito, ed egli poté avanzarsi verso il mezzodì dell’Italia, impadronirsi di molte città, ed occupare Benevento, Cuma e Napoli.

L’imperatore di Costantinopoli qualificava Totila di tiranno e di barbaro; tuttavia presso ai Romani egli ebbe vanto di umanità e generosità. Entrato in Napoli fece distribuire dei viveri al povero popolo che moriva di fame; ma colla tenerezza e colle cure di un padre il quale solleva gli ammalati suoi figliuoli, e non coll’ostentazione di un vincitore, il quale si occupa solo della sua gloria. Fornì eziandio del denaro e delle vetture ai soldati nemici, perché potessero andare dove volessero, facendoli accompagnare dalle sue soldatesche fino là dove non avessero più nulla a temere. L’esatta disciplina dei Goti, la generosità di Totila fecero sì che di buon animo le città d’Italia gli aprissero le porte.

Alla nuova di queste gloriose vittorie l’imperatore Giustiniano spedì nuovamente Belisario in Italia, ma con sì pochi soldati e con sì pochi danari, che non poté impedire al re Goto d’impadronirsi di quasi tutta la Penisola e della stessa Roma, la quale venne più volte presa dai barbari e ripresa dai Greci. Si afferma che Totila volesse eziandio atterrare le mura e parecchi altri belli edifizi di quella superba città per timore che i Greci potessero ancora aver modo di fortificarsi contro di lui: ma essendo stato supplicato da Belisario di risparmiare quei monumenti delle antiche glorie romane, egli preferì al proprio interesse la riverenza dovuta a quelle memorie.

Non voglio qui omettere un fatto, che dimostra come questo principe barbaro rispettasse la religione. Nel corso delle sue vit­torie capitò nel regno di Napoli vicino al monte Cassino. Avendo ivi udito a parlare delle meravigliose virtù di S. Benedetto, volle egli far prova se questo santo uomo avesse il dono della profezia. Si fece annunziare, ma in luogo di andare egli stesso mandò uno dei suoi ufficiali in abito reale e con tutto il corteggio di un sovrano. San Benedetto come vide di lontano quell’ufficiale: Figliuol mio, gli disse, deponi quell’abito, esso non è tuo. L’ufficiale e tutti quelli che lo accompagnavano si prostrarono riverenti a’ piè del santo, e non si alzarono se non per correre ad annunziare al re quanto era accaduto. Vi andò Totila in persona e appena da lungi vide il santo abate si prostrò egli pure, e sebbene S. Benedetto gli dicesse ben tre volte di levarsi, egli non osò fado; così che il santo fu costretto a rialzarlo. Allora S. Benedetto colla libertà di un profeta gli rappresentò i suoi doveri e i suoi falli, e dopo avergli presagito le sue vittorie e insieme ogni altro più notabile avvenimento, aggiunse che sarebbe morto l’anno decimo del suo regno. Preso Totila da estremo spavento si raccomandò alle sue orazioni, poi si ritrasse in silenzio (*).[(*) GREG. M., Dial. 2 (a)].

Tornando ora a Belisario, dico che egli riconoscendo la prevalenza delle forze di Totila, e da Costantinopoli non ricevendo più alcun rinforzo di soldatesche, si vide costretto a partire d’Italia. Ritornato a Costantinopoli finì la vita nell’oblio.

IV.
Totila e Narsete. - Caduta dei Goti. - I Franchi (83).

(Dall’anno 550 all’anno 568).

Per la partenza di Belisario, rimasto Totila tranquillo possessore d’Italia, poté estendere le sue conquiste in altri paesi. Pose in piedi una possente armata, s’impadronì della Corsica, della Sardegna e della Sicilia; e già si preparava a passare nella Grecia, quando l’imperatore risolse di fare l’ultima prova per ricuperare quello che Belisario aveva perduto. Quest’ardua impresa fu affidata ad un vecchio ottuagenario di nome Narsete, accortissimo e peritissimo capitano. Questi ben fornito di danaro dopo aver radunato un numeroso esercito, costeggiando per terra l’Adriatico, entrò in Italia ed andò ad incontrare Totila in Toscana appiè dei monti Apennini. Narsete mandò a Totila un araldo, ossia messaggero, per invitarlo ad arrendersi, offrendogli il perdono da parte dell’imperatore. Totila rispose che non altro accettava che la guerra, e che era preparato a vincere o a morire. Cui di nuovo disse l’araldo: Qual tempo fissi tu alla pugna? L’ottavo giorno, rispose Totila.

Al giorno stabilito si venne ad una battaglia campale che riuscì fune sta ai Goti. Dopo moltissime prove di valore e grandissimo spargimento di sangue da ambe le parti, perì Totila insieme col fior delle sue schiere. I Goti scampati dalla battaglia si ridussero in Pavia, e crearono loro re Teia il più valoroso dei loro uffiziali; ma, assalito da Narsete alle falde del Vesuvio presso Napoli, morì in una sanguinosa battaglia dopo aver fatto prodigi di valore. Non ostante la morte del loro re i Goti continuarono a combattere vigorosamente, sicché la battaglia durò ancora tre giorni. Ritiratisi finalmente e radunato il consiglio mandarono a dire a Narsete di essere pronti a deporre le armi, ma che non volevano rimanere sudditi dell’impero. «Noi, dicevano, vogliamo uscire dall’Italia, e andarcene a vivere cogli altri nostri fratelli. Perciò fateci libero il passo, dateci i viveri necessari, lasciandoci portar via il danaro che abbiamo nelle nostre case». Narsete esitò alquanto, poi accondiscese. In simile guisa finì la monarchia Gota in queste nostre contrade, dopo aver durato 78 anni (*)[(*) Leggi: 63 anni. *]. I Goti che rimasero ancora fra noi a poco a poco deposero la loro ferocia e divennero italiani.

Mentre ardeva la guerra tra i Greci ed i Goti, vennero i Franchi ad assalire l’Italia settentrionale. Erano costoro popoli della Germania, i quali in antico abitavano le sponde del Reno. Alla decadenza del Romano Impero in Occidente invasero le Gallie, e dopo esserne stati più volte cacciati riuscirono a fermarvisi stabilmente nel 45 I. Farete bene di non dimenticare che dai Franchi si denominò poi Francia, e non più Gallia, il paese che scelsero per loro dimora. Questi Franchi tentarono d’impadronirsi dell’Italia, ma ne furono respinti dal valoroso Narsete, il quale appunto venne dichiarato esarca, cioè governatore generale, ed aveva la sua sede in Ravenna. In mezzo alle guerre che imprese questo pio generale non dimenticò mai i doveri di buon cristiano, mostrandosi tuttora affezionato alla cattolica religione.

Egli conservò la pace in Italia per lo spazio di anni quattordici, amato dai buoni, e temuto dai suoi nemici. Nondimeno è tacciato di avarizia; e dopo aver accumulato immense ricchezze morì in età d’anni 95 nel 567. Vuolsi che Sofia, imperatrice di Costantinopoli, invidiosa della gloria di Narsete, dall’Italia lo richiamasse alla corte con parole ingiuriose, dicendo che quel vecchio non era più buono se non a filare colle donne, cui egli rispondesse che col suo filo avrebbe ordita una tela, da cui difficilmente ella avrebbe saputo sbarazzarsi e che perciò invitasse i Longobardi a discendere in Italia.




V.
Invasione dei Longobardi (84).

(Dall’anno 568 all’anno 573).


Alla morte di Narsete, l’Italia restò quasi senza governo, sicché parecchi popoli barbari ambivano di venire ad impadronirsene. Uno di quei popoli che abitava sulle rive del Danubio, si dispose per primo ad invadere le nostre contrade. Quei novelli conquistatori dicevansi Longobardi, e diedero il loro nome a quel paese che oggidì chiamasi Lombardia. Questi Longobardi allettati dai racconti che alcuni venturieri di loro nazione avevano fatto della dolcezza del clima e della fertilità delle terre d’Italia, scesero dalle Alpi, conducendo seco mogli, fanciulli e vecchi, carri, buoi, e giumenti. Essi erano riputati i più valorosi ed i più crudeli di tutti i barbari. Il loro re era un guerriero feroce ed intrepido di nome Alboino. Il quale apparve sulle Alpi Giulie che chiudono l’ingresso dell’Italia dal lato dell’Oriente, e dall’alto di quelle montagne salutò con un grido di gioia quel paese che intendeva di conquistare. Senza combattere egli s’impadronì di tutta l’Italia superiore. Il terrore precedeva il suo esercito, i popoli fuggivano al suo avvicinarsi, e per cercare qualche scampo, pigliando ciò che avevano di più prezioso, andavano a nascondersi nei boschi e sulle montagne.

La sola città di Pavia osò opporre agli invasori lunga e vigorosa resistenza. Gli intrepidi abitanti, sperando di essere soccorsi dall’esarca di Ravenna, per tre anni respinsero gli assalti dei barbari; onde Alboino pieno di furore giurò che in quella sciagurata città non avrebbe risparmiato né uomini, né donne, né vecchi, né fanciulli, e che tutti coloro i quali non fossero periti per la fame sarebbero caduti sterminati dalla spada. Potete quindi immaginarvi qual fosse il terrore di quegli infelici, allora che si videro costretti ad aprire le porte ai vincitori: niuno dubitava che non fosse giunto per lui l’ultimo giorno. E già il principe Longobardo tutto furioso trovavasi all’entrata della città, quando gli cadde il cavallo improvvisamente: le grida, le spronate, le battiture a nulla giovavano per farlo rizzare: frattanto odesi una voce a gridare: «Che fai? rinuncia al tuo giuramento, ricòrdati che questo popolo è cristiano; perdonagli e andrai avanti».

Questo impreveduto accidente produsse un felice cangiamento nell’animo del conquistatore, il quale confuso e commosso rientrò in se stesso, calmò il suo sdegno e perdonò appieno a quel popolo col solo patto che si assoggettasse al suo dominio. Allora si rialzò di terra il suo cavallo; ed egli essendosi quindi recato al magnifico palazzo da Teodorico fatto edificare, ne fu talmente rapito dalla bellezza e dalla magnificenza, che lo scelse a sua dimora dichiarando Pavia capitale del regno Longobardo.

Malgrado questa moderazione, miei cari amici, non credete che l’indole di quel principe divenisse più mite; poiché cessati i pericoli della guerra egli si diede in preda alle più brutali passioni. La crapula, vizio comune a quei barbari, divenne il suo passatempo più gradito; e come ora vi racconterò fu la cagione della sua morte. Dovete sapere che i Longobardi nei loro paesi adoravano una divinità detta Odino, ed erano persuasi che la ricompensa dei guerrieri in paradiso dovesse essere il bere di uno squisito liquore nei crani dei loro nemici; perciò nei grandi conviti solevano servirsi di queste tazze orrende, se loro veniva dato di poterne avere.

Alboino prima di venire in Italia aveva ucciso il re dei Gepidi, chiamato Cunimondo, il quale era padrone di una parte della Germania, e poi aveva sposato Rosmunda figliuola di lui. Ora avvenne che Alboino avendo un giorno dato un gran banchetto ai capi del suo esercito, divenuto mezzo ubriaco, comandò che gli venisse recato il cranio di Cunimondo, cui egli riguardava come il più prezioso ornamento di sua tavola. Quindi empiutolo di vino squisito, in mezzo alle urla forsennate dei suoi compagni di stravizi, ebbe il diabolico pensiero di porgerlo a Rosmunda, la quale sedeva alla stessa mensa, affinché, egli diceva, la regina bevesse con suo padre. A tale vista ed a tale proposta Rosmunda tremò, e toccando colle labbra l’orribile vaso, disse: sia fatta la volontà del re. Ma giurò in cuor suo di farne atroce vendetta.

E per vero pochi giorni dopo introdusse due ufficiali negli appartamenti del re, e nel momento che egli oppresso dall’ubriachezza giaceva in profondo sonno, lo fece uccidere con cento colpi. Ecco a quali strani eccessi conducono i vizi della crapula e del libertinaggio. Notate però che Rosmunda e quei due ufficiali commisero una malvagia azione, perché non erano padroni della vita del loro re; perciò con quella uccisione si resero colpevoli di un grave misfatto, che fu pure terribilmente punito dal cielo; né passò poco tempo che ad uno di quegli uccisori furono cavati gli occhi e Rosmunda e l’altro cooperatore morirono di veleno. I malvagi non godono a lungo del frutto del loro delitto.



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