L’
EVOLUZIONE DELL
’
I
SLAM IN
B
ANGLADESH
N
OTE E DISCUSSIONE
Amedeo Maiello
Con la fine delle piogge e l’arrivo del clima più temperato ancora una volta il
Bangladesh è stato funestato da ricorrenti atti di violenza
1
che in questo caso sono
da collegare all’avvio della campagna elettorale per le politiche del 2007. L’odierna
ondata di violenza, sempre più spesso associata anche al crescente peso di gruppi
islamisti radicali nel paese,
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ha portato i media occidentali a prestare inusitata
attenzione al Bangladesh,
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paese relegato, spesso con toni paternalistici, alla
rappresentazione di primati catastrofici, naturali e sociali.
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Tuttavia l’approccio al
problema evidenzia la mancanza di una, seppur sommaria, conoscenza dell’Islam
bengalese che, rifuggendo qualsiasi intento apologetico, potrebbe costituire una
cornice interpretativa atta a suggerire le spiegazioni causali della crisi di un paese
la cui creazione nel 1971 fu affrettatamente salutata come il trionfo del laicismo.
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1
Come è stato osservato: “political agitation or events take place in the cooler months […] inevitably
lead to arson, rioting and other acts punishable by law”. Ahmad – Baqee, 1988, p. 73. Dal ’99 al 2005 si
hanno avuto più di venti attacchi terroristici per lo più contro raduni politici, centri culturali e tribunali.
Nel 2005, nel mese di dicembre, si sono verificati anche attacchi suicidi. Montero, 2005, p. 3.
2
Il primo Ministro Begum Khaleda Zia nell’Aprile del 2002 all’accusa della presenza di gruppi
terroristici in Bangladesh, non solo proibì la circolazione della Far Eastern Economic Review che aveva
riportato la notizia, ma comunicò al parlamento che “vested quarters at home and abroad are trying to
tarnish the country’s image by spreading untrue, misleading and malicious information”. Bearak, 2002.
Da notare che l’attacco terroristico al tempio Sanka Mochan di Varanasi del marzo 2006 è stato
attribuito ad un gruppo terroristico con base in Bangladesh. Swami, 2006.
3
Da notare che negli anni Novanta l’opinione pubblica occidentale s’interessò per alcune settimane al
caso della scrittrice Taslima Nasreen che fu forzata in esilio a causa della violenta reazione dei
fondamentalisti al suo romanzo Lajja (Vergogna). Per una lettura critica del ruolo dei media nel caso
Nasrin si rimanda a Riaz, 1995. Da questa prospettiva è opportuno segnalare che la stampa occidentale
ha invece completamente ignorato il furore causato dalla pubblicazione nel 2003 di Ka uno scritto
autobiografico di Nasrin “that contains detailed narrations of her sexual relations with mostly the ‘well-
known’ literary personalities”. Taposh, 2003. L’assegnazione nell’ottobre 2006 del premio Nobel per la
pace al professor Yunus ha, invece, portato i media a focalizzare l’attenzione sul ruolo del microcredito
nel Bangladesh. Sul programma di Yunus, la cui idea guida è “charity is not an answer to poverty”,
oltre che per la sua autobiografia (1998), si veda Yunus, 2004. In Italiano si veda Endrizzi, 2002.
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Per una discussione delle problematiche inerenti ai ricorrenti disastri naturali si veda Nasreen, 2004.
Tuttavia, più devastanti dei cicloni e delle inondazioni, sono gli squilibri sociali. Da quest’ottica il
dramma delle donne è ritenuto emblematico. Sulla tragedia delle donne acidificate si rimanda a Pisu,
2000. Ma, altresì devastante è lo sfruttamento a cui sono sottoposte le donne dall’industria tessile che
dal gennaio 2005, con la fine della quota garantita di esportazione verso gli USA, deve fronteggiare la
temibile concorrenza cinese. La questione dei “sweatshop” fu oggetto di una bella e partecipata
trasmissione Rai curata da Paola Salsano (2006).
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A. Rossi, in un saggio degli anni ’70, pur lamentando il fallimento di un “processo autenticamente
rivoluzionario” vede nel movimento di liberazione il prodotto di una “tradizione nazionalista laica”.
A
MEDEO
M
AIELLO
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Un’attenta lettura delle dinamiche interne all’Islam bengalese contribuirà a
delineare la natura composita di una realtà che, sulla scia di un certo orientalismo,
il paradigma huntingtiano prima e l’11 settembre dopo hanno ridotto ad una
fuorviante e pericolosa piatta omogeneità.
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Il presente lavoro intende, dunque,
focalizzare l’attenzione sull’origine dei diversi, spesso conflittuali, orientamenti
religiosi ed ideologici presenti nella società del Bangladesh, e come questo
patrimonio culturale è utilizzato, in modo dialettico, per misurarsi con le sfide di
oggi. Si verrà così a trattare la questione dell’adattabilità, nonché dell’agentività, di
una cultura altra al macro-processo storico della modernità, problematica spesso
oggetto delle lunghe discussioni avute con Adolfo Tamburello.
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Parlare di Islam bengalese può, forse giustificatamene, suscitare delle
perplessità. Ma rivolgere l’attenzione a tale specificità non mira affatto a
parcellizzare la religiosità islamica sulla base di una dimensione areale, bensì a
tentare di cogliere la natura di un processo che ha portato alla sedimentazione di
una visione islamica intessuta anche di tratti peculiari ed originali. La singolarità
islamica bengalese è da iscrivere all’interno dell’area evolutiva dell’Islam in Asia
meridionale;
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tuttavia l’Islam in Bengala evidenzia articolazioni proprie tali da
richiedere un livello di analisi distinto. L’obiettivo di delineare un quadro
dell’Islam bengalese, individuando nel divenire storico le spinte che ne hanno
determinato il proprio singolare sviluppo impone tuttavia una procedura
metodologica appropriata.
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Infatti tale studio impone l’abbandono dell’approccio
olistico che eleva a paradigma esclusivista la dimensione omogenea e globale,
immobile nel tempo, dell’Islam. Questa ultima tendenza è rapportabile, in primo
Rossi, 1983. Daniela Bredi sottolinea altresì che “il nuovo stato nasceva […] con spiccati caratteri di
laicità”. Bredi, 1983, p. 228.
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L’obiettivo di tale “compression and reduction” è indubbiamente lo stesso individuato da Said più di
vent’anni fa: “the result is to eradicate the plurality of differences among the Arabs […] in the interest of
one difference. That one setting Arabs off from everyone else. As a subject matter for study and
analysis, they can be controlled more readily”. Said, 1987, p. 309.
7
Tamburello focalizza l’attenzione per lo più sugli aspetti strutturali dell’economia giapponese pre-
moderna, sostenendo che “la maggior parte dei settori tradizionali (agrari, ittici, artigianali, ma anche
manageriali) continuano non solo a tenere ma a servire lo sviluppo contemporaneo”. Tamburello, 1977,
p. 1. Di recente Bayly nell’intento di mitigare la tesi dell’“European exceptionalism” utilizza le ricerche
di diversi studiosi per ribadire questa “adattabilità” del Giappone. Bayly, 2004, p. 79.
8
Sulle diverse articolazioni regionali dell’Islam indiano, si veda Dalla Piccola, 1993.
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Da tempo lo studio dell’Islam nel contesto locale o delle cosiddette società islamiche periferiche ha
raggiunto una propria legittimità metodologica. L’islamistica italiana, da questa prospettiva, deve
molto all’approccio elaborato da Alessandro Bausani, per il quale lo studio della natura composita della
realtà islamica non andava scisso dalla macro-categoria Islam. Infatti, se è vero che l’uso di quest’ultima
categoria “ha svolto nella sua indagine un ruolo euristico importante” (Galasso, 1998, p. 459), bisogna
altresì sottolineare che Bausani, adottando in forma intuitiva concetti oggi assai di moda, quale
“fluidity” o “liminality”, approdò ad una comprensione feconda delle manifestazioni dell’Islam
“locale” quale quello indiano, considerato “uno dei capitali più affascinanti dell’Islamistica”. Bausani,
1973. Della saldatura auspicata da Bausani, G. Scarcia scrive: “in questo Islam, quanto altre cose mai
unitario, le forme regionali, diceva Bausani, sono soprattutto momenti, stagioni, e in modo più preciso,
stili, in ognuno dei quali il contributo di un singolo genio nazionale al grande concerto si fa più
sostanzioso, più sfolgorante: una sorta di rotante zodiaco che certamente non fa perdere nulla della sua
luce, del suo calore al solo invitto che ne è fuoco e centro”. Scarcia, 1990, p. 35.