Parere sul “Leonardo”
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postulato tralatizio dell’engagement, tanto lucida consapevolezza è forse troppo
attribuirla ai velleitari campioni del “Leonardo”, che per altri versi prolungavano
alquanto una tradizione fortemente estetizzante e assai ben rappresentata da alcuni
collaboratori, ad esempio un de Karolis e un Vannicola, un Costetti e un Macinai.
Ma per poco approfondita che fosse, si trattava di una tematica all’epoca molto
attuale, ancorché discutibile nei suoi presupposti, subito perimibili. Di fronte al
compito di diversa responsabilità culturale e politica che svolgeva a quell’epoca il
Croce, con “La Critica” e non solo con “La Critica”, i Leonardiani, così per
iniziativa propria come mutuando in parte dall’Idealismo stesso, con
immediatezza pari alla superficialità, esprimevano i motivi salienti posti all’origine
dei nuovi bisogni del Paese, evidenziando la trasparente necessità di procedere ad
un presunto rinnovamento della letteratura come di tutta quanta la società con
essa. Il che vale, si intende, quanto ai propositi inizialmente fissati. Così,
nonostante i suoi limiti, il “Leonardo” tentò comunque una nuova definizione
della letteratura apparentemente rispondente a un meno controllato e perciò stesso
meno rigoroso e più rischioso ideale di cultura. Insomma era già la via sulla quale
si sarebbe posta più risolutamente “La Voce”. Tant’è che rispetto al tentativo
operato dai Vociani, quello omologo del “Leonardo” si caratterizza semmai per le
ambizioni confuse, per i toni enfatici delle dichiarazioni, per un eccedente spirito
eversivo, oltre che per la bigamia tra letteratura e filosofia, si capisce, e infine per
quei depositi di estetismo di più o meno diretta derivazione dannunziana che
persistevano. Non per nulla nel secondo numero del foglio compariva
l’Anniversario orfico del d’Annunzio. Chi veda del resto il programma sintetico
esposto alla inaugurazione del giornale, desumerà che il superomismo di marca
dannunziana e una forte tendenza estetizzante ne costituiscono un aspetto, poiché
non c’è dubbio che l’esperienza decadente fosse tutt’altro che superata, se ancora si
poteva scrivere, e perfino con l’aria di aver detto tutto l’importante, che il
proposito era di promuovere un’arte tesa alla “trasfigurazione ideale della vita”, e
di conseguire la “bellezza come suggestiva figurazione e rivelazione di vita
profonda e serena”. Si aggiunga a questo una accentuazione delle predette
inclinazioni irrazionalistiche, e si comprenderà che, essendosi presentata con
siffatto programma una delle riviste più significative dei primi del secolo,
bisognerà ammettere che la crisi di cui si parla a proposito di quel periodo fu
davvero profonda e diffusa. Tuttavia le esperienze di allora servirono parecchio a
dissodare, e il “Leonardo” assolse assai bene alla bisogna. Nel pur evidente
riecheggiamento di molti luoghi comuni di fine Ottocento, già fece intervenire una
diversa considerazione dell’importanza del “pensiero”, non solo per sé, ma anche
nell’espressione artistica. E sebbene preterintenzionale, fu intuizione non
trascurabile, che per vie sotterranee potrà confluire in ciò che Heidegger
denominerà “pensiero poetante”, tracciando così una linea della poesia moderna di
cui furono esecutori massimi Hölderlin e Leopardi, seguiti da un Valéry e
parecchio dopo da un Luzi – a tacere dell’ode Per la morte di un distruttore e d’altri
individui del d’Annunzio.
Intanto spiritualismo, magismo, nazionalismo si rifondevano nell’ansia di un
superamento immediato verso acquisizioni nuove. Nuove, sì, ma si badi: non
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sufficientemente previste ed elaborate in via di consapevole definizione critica,
visto che i programmi del “Leonardo” risultano la quintessenza della vaghezza.
Appaiono perciò giustificate le osservazioni del Croce, in verità non sul solo
“Leonardo”: “si assisteva, in queste riviste e in quei libri, a uno scoppiettio
incessante di idee, ora felici ora avventate, ora acute ora sgangherate, nessuna
arrestata nel rapido volo e considerata da vicino, analizzata, elaborata e fatta
fruttare”.
Certo è che se il problema era di afferrare in una prospettiva storicamente
corretta la qualità dei processi sottostanti al profondo mutamento della società
italiana, allora i paradigmi mentali che i Leonardiani avevano ereditato dal secolo
precedente non potevano essere certamente i più idonei; e particolarmente carente
a fronte di un tale compito, anzi in contraddizione aperta ma alla lunga felice con
lo stesso, risultava l’idea che essi, nonostante tutto, continuavano a nutrire
dell’intellettuale e più ancora del letterato, del poeta. Salvo che la ferma
opposizione espressa ad esempio nei confronti del Naturalismo, lungi da una
effettiva capacità di proposta originale, finiva poi per far capo all’arte aristocratica
intesa come mezzo della suddetta trasfigurazione della vita. Si pensi ad esempio a
uno specimen come L’arte nova del de Karolis. Egli, che non fu immune dai
preziosismi della maniera modernista, e che a pieno titolo si inserisce nel gusto
decadente, sottolinea l’intenzione di riconnettere il culto della “Bellezza” alla
tradizione italiana, e di riproporre, come già il d’Annunzio, il recupero
rinascimentale di un’arte classicheggiante ed eletta. E questo risulta assai
significativo, non solo per una migliore definizione degli orientamenti artistici del
“Leonardo” (sul cui primo numero l’intervento apparve), ma anche, più in
generale, per la comprensione del cosiddetto “stil novo” italiano. Il quale,
condizionato da forti preoccupazioni di identità nazionale, rielaborava le
esperienze che andavano svolgendosi altrove, soprattutto in Francia, ma risultando
infine incapace di cogliere le reali potenzialità innovative che si attuarono ad
esempio nelle ricerche formali del Simbolismo, che in Italia, salvo forse che nel
Lucini, ebbe infatti seguito scarso e soprattutto incondito.
Inevitabilmente, intanto, quel pragmatismo che pure aveva voluto segnalarsi
come la nota nuova della rivista, si riduceva ad un frenetico attivismo di forme
assai prossime ai modi ottocenteschi, risultando alla fine inidoneo a dar luogo a
una poetica compiutamente diversa: e ciò, malgrado la qualità novecentesca delle
motivazioni colte nell’immediato presente; malgrado le inclinazioni nietzchiane; e
ancora per l’evidente misticismo e per il fatto di stimare la volontà, se non il Wille
zur Macht, atta di per sé a modificare il reale. Tant’è: l’apparato di quel particolare
Decadentismo italiano di apertura di secolo si ritrova in buona parte ordinato in
uno scritto del Prezzolini uscito sul primo numero del “Leonardo”, e così
sintomaticamente dedicato ad Angelo Conti. Alludo alla poetica del fanciullo,
all’assaporamento delle opere intese come “voluttuosi afrodisiaci orientali”, al
titanismo irrepresso, all’irrazionalismo e al fenomenologismo. E si deve notare
inoltre lo sforzo particolare di dare una interpretazione di questi elementi in linea
con l’intuizionismo e il volontarismo correnti, per cui il “sogno” diventa l’“essenza
dell’uomo”, e l’arte (è ancora lei, si badi, il centro della riflessione) l’arte diventa al
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contempo creazione del reale e mezzo per acquistarne la conoscenza valido al pari
della scienza. Ma nell’equivoco affastellarsi di tanti e disparati motivi che
compongono questa pagina, quel che soprattutto ne risalta è la sostanziale
inefficacia dei Leonardiani nel mettere a punto una poetica autonoma rispetto al
Decadentismo.
Erano poi le stesse ragioni più o meno manifestamente presenti nelle vicende
artistiche e letterarie del Decadentismo europeo, è vero. Ma non si dimentichi che
proprio in tal modo si facevano conoscere fra noi aspetti della recente letteratura
restati fin lì estranei, a parte Pascoli d’Annunzio e poco altro, alle esperienze
italiane. Un posto di tutto rilievo toccò in questo processo alla cultura francese, e ne
risultarono, per la divulgazione fattane dal “Leonardo”, ulteriori motivi per la
polemica antipositivista. A proposito della quale la Frigessi scrisse che, “per lo più
implicito, comunque non teorizzato, l’antipositivismo dei Leonardiani minori, con
l’eccezione dunque di Papini e di Prezzolini, ha natura prevalentemente letteraria,
estetica. Non è soltanto Borgese, che sostiene il principio dell’autonomia dell’arte”.
È proprio così? Non si può sottacere che gli artisti e i letterati puri ben presto
usciranno, come il Borgese, dal “Leonardo”, e che allora, almeno apparentemente,
vi prevarrà la filosofia. Che se dapprima, con Calderoni e Vailati, non era andata
disgiunta dal pensiero scientifico, tosto inclinerà a problematiche morali con
l’Amendola, o anche religiose con Papini; e con lo stesso Papini e Righini, e in linea
con la diffusione epocale delle dottrine teosofiche, inclinerà a interessi perfino
iniziatici e occultistici, vale a dire non ignari dell’inconscio (L’Interpretazione dei
sogni era del resto uscita il 1900). Ma va soprattutto rilevato che nel frattempo il
Papini andava pubblicando prose d’arte come Marta e Maria sul “Leonardo” stesso,
e racconti fantastici come La profezia del prigioniero su “Hermes”, il foglio del
fratello separato Giuseppe Antonio Borgese. Letteratura dunque. Certo, l’intreccio
di letteratura, poesia, arte, filosofia, teosofia, occultismo e molti altri “ismi” – lo ha
documentato Paolo Casini pochi anni fa – è un intreccio inestricabile che non
concorre affatto a un quadro univoco. Tuttavia un filo rosso, un filo pur sottile, e
magari dissimulato da altri più appariscenti, attraversa esperienze e voci del
“Leonardo”. Se può riuscire funzionale a un giudizio il criterio evoluzionistico
della finalità a-posteriori, si rammenti infatti che in Un uomo finito, 1912, Papini
testimonierà che il “Leonardo” (basta del resto scorrerne gli indici) “parlava di
tutto (anche di politica) ma più d’arte che di filosofia, e la filosofia aveva
un’andatura così lirica, fantasiosa e bizzarra che non pareva più lei”. Una “poesia
d’idee”, l’aveva del resto definita. E profeticamente aveva opinato: “Invece della
filosofia diranno che facciamo della letteratura filosofica o della filosofia letteraria”.
Sempre nel ’12, con Dacci oggi la nostra poesia quotidiana, Papini esalterà poi la
poesia. Ancora un paio d’anni, e il vecchio sodale, Prezzolini, dirà da parte sua con
uno spirito auto-critico che gli fa onore: “Politica, azione: ma si fanno meglio
altrove”. “A ciascuno il suo lavoro” sarà la sua esortazione conseguente. Che
voleva dire riconoscere alla letteratura uno spazio specifico. E tutto ciò le rendeva
la sua dimensione specifica e la sottraeva alla soggezione e alle ipoteche cui il
“Leonardo” prima, e quindi “La Voce”, l’avevano generosamente ma
avventatamente esposta. Sarà poi “La Ronda” – lo sappiamo – a ricondurre la
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letteratura dentro gli argini frapposti dal suo stesso essere letteratura, dal suo
essere un sistema con sue proprie istituzioni e una sua propria evoluzione: niente
affatto solipsistiche, non estranee alla società e alla storia, voglio dire, ma
autoteliche. Non per nulla il rappel à l’ordre di un Bacchelli sarà che il “dovere
civico” dei letterati era quello di far bene il loro mestiere: che non era di “salvare il
mondo” o di “proporre nuovi ordini”, ma di “scrivere belli e buoni libri”. Era il
1919: le tensioni spesso convulse della prima parte del secolo erano ormai alle
spalle, tanto più che ad esse aveva fatto seguito già “La Voce” del De Robertis, ed è
notorio che si trattava di una “Voce” tutta letteraria, ossia senza più illusioni di
engagement.
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