P
ARERE SUL
“L
EONARDO
”
Angelo Raffaele Pupino
Nelle principali riviste italiane dell’inizio del secolo si coglie un panorama così
mosso che non facilita certo una loro definizione complessiva e tale da non lasciar
residui. Quanti al “Leonardo”, alla “Voce”, a “Lacerba”, a “Hermes”, al “Regno”
collaborarono, consentono sì a una comune riduzione, ma tale che si avverte poi di
continuo la necessità di valutare diversificazioni non sempre conciliabili. Il rischio
è, a fronte di tanto composito quadro, di incorrere in approssimazioni gravi,
qualora si miri a dar conto di quella pubblicistica adducendo ragioni letterarie. Ma
quand’anche s’uscisse dalla letteratura, quand’anche si manovrasse il concetto di
cultura, onde proporre considerazioni più ampie, non sarebbe ancora soddisfatta la
pretesa di ricongiungere tutte le articolazioni in causa in un tessuto unitario.
Basterà allora che di una così frastagliata vicenda, della quale le diaspore furono
peraltro parte integrante, emergano alcuni dei motivi fondanti e che se ne operino
le distinzioni essenziali. Infine, quel che preme di cogliere è la materia letteraria,
giacché poi non necessariamente compete a ciascuno tutto intero l’universo. Certo,
resteranno così esclusi alcuni fra gli aspetti più significativi della cultura del
tempo, ma sarà per ricomparire senza pregiudizio, e più opportunamente invece,
in altri generi di indagine. Intanto si potrà evitare di ammassare tutti i più svariati
“ismi”, pur legittimi, che spesso si ritrovano uno sull’altro. Ma soprattutto, un
discorso passato sul fatto letterario, lungi dal presupporne un suo solipsismo
esclusivo, consentirà di fissare in breve spazio un disegno senz’altro sommario, ma
che non sia sempre sul punto di volatilizzare o di perdersi nel tentativo di una
sintesi impossibile.
E si dovrà incominciare dal “Leonardo”, premettendo che quella del Papini, il
fondatore, e poi del Prezzolini, suo contubernale, è testimonianza evidente della
generale crisi di valori civili e assieme letterari. Manifestatasi già a chiusura
dell’Ottocento, e lievitata via via con l’abbrivio del secolo successivo, su di essa
concrebbe però una impellente necessità di rinnovamento e un costante interesse
verso la cultura straniera, ed è ad esempio indicativa l’attenzione tanto frettolosa
quanto vorace riservata dal Papini alle filosofie europea ed americana. Soltanto
che, diversamente dagli imminenti Vociani, il Papini assimilò senza diaframmi
l’irrazionalismo che poté annusare nel cosiddetto Zeitgeist: non vi fu avventura
intellettuale per la quale non risultasse disponibile, e in ciascuna si imbarcò col
peso della sua precipitosa retorica e delle sue conoscenze magari non conformiste,
ma approssimative. Sicché, per quanto giovi a documentare un momento della
nostra civiltà, la sua opera risulta assai meno fertile per gli svolgimenti più
immediati, se pure oppugnabili. Con la stessa convulsa animosità che caratterizza i
suoi interessi filosofici, al tempo del “Leonardo” il Papini pratica infatti la
letteratura, a lui più congeniale, per esserne alfine l’inesausto paladino in ambito
vociano, trattandosi ora di privilegiarla rispetto agli interessi più latamente
A
NGELO
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AFFAELE
P
UPINO
2058
culturali e politici del foglio di Prezzolini. Nacque così “Lacerba”, a rifondare una
proposta letteraria cui la prima “Voce” fu renitente: sulle pagine di quella nuova
rivista, fra le sortite futuriste e le iniziali proteste di indipendenza dalla politica, se
pur frammiste a proclami rivoluzionari, la letteratura ritrovò nondimeno una
caratterizzazione decadente riattinta ai miti fin de siècle. Giusto a distinguersi da
una simile impostazione, gioverà invece al Prezzolini l’incoato accostamento
all’idealismo crociano. Ma alla fine la di lui figura, aggiunta al novero dei così
diversi protagonisti di quel clima, conferma l’instabilità del periodo. Solo che, al
fondo delle più contrastanti inquietudini, converrà riconoscere ancora una
fondamentale proiezione europea e novecentesca. Fuori dalle facili contestazioni di
un dibattito ormai sesquipedàle sul famigerato “impegno”, fra le ultime
sopravvivenze ottocentesche, fra le prime insorgenze del secolo nuovo, fra
irriducibili contrapposizioni e mediazioni subito vanificate, fra tutto ciò, s’impone
tuttavia l’opera di aggiornamento sulla cultura cresciuta fuori d’Italia, essendo
legata ad essa l’occasione per la verifica di un disagio generalizzato e incontenibile.
In tale contesto risulterà di primario interesse, a partire appunto dal
“Leonardo”, tutta quanta l’opera delle riviste moltiplicatesi fino allo scoppio della
prima guerra mondiale. Già il gran numero di queste iniziative editoriali
testimonia l’impellente necessità avvertita dagli addetti ai lavori di rompere i limiti
iniziatici della letteratura giovandosi del diretto approccio ad un pubblico non più
circoscritto a quello tradizionale. Ambizione mai intermessa del tutto, peraltro,
nella storia delle lettere, ma che si ripropone con particolare urgenza ogni qual
volta, mutando i rapporti fin lì invalsi, si ipotizza l’angustia del proprio stato e se
ne ridiscutono da capo le ragioni. Precisamente il bisogno di una nuova
dimensione politico-sociale, avvertita, contro alla separatezza di poc’anzi, fino a
progettare un partito di intellettuali, precisamente tal bisogno, dicevo, fu la prima
preoccupazione, sincera ma piuttosto epidermica, esibita dal “Leonardo”. E non si
ignori che questo “simbolico nome augurale” evocava una figura paradigmatica,
uno dei grandi miti infraseculari, un mito che raccolse e potenziò anche un
d’Annunzio, e che intendeva cauzionare, dichiarerà il Papini stesso, un “giornale
ampio e vario, di vita e di pensiero, oltre che d’arte”, dal momento che Leonardo
da Vinci era il “tipo completo dell’uomo interiore”, l’“Uomo” con la maiuscola,
l’“Uomo universale: l’Eroe”. Talché, nonostante tutte le valutazioni negative,
sempre legittime, l’opera del Papini e dei Leonardiani si qualifica per la capacità di
tenere appunto il dibattito, sia pur disordinatamente, a quei temi rilevanti. A
ragione Giorgio Luti ha scritto di recente che fu comunque “un deciso lavoro di
revisione critica della vecchia cultura, un lavoro talvolta caotico e confuso, ma
certamente destinato a incidere nel contesto culturale della società giolittiana”. E
ugualmente a ragione Delia Frigessi osservò a sua volta che rispetto al
contemporaneo “Marzocco” il “Leonardo” si differenziava per un punto
fondamentale: ossia perché si arrogò di assegnare al pensiero una preminenza
rispetto all’arte, e “sostenere l’importanza, il primato del pensiero, significava
rivendicare la necessità di una rivoluzione di valori. Poteva derivarne il
riconoscere l’opportunità dell’‘impegno’, della lotta infine ideologica per
l’intellettuale”. Ebbene, anche a non considerare che su tali parole gravava il