G
IULIANA
M
ARINIELLO
1584
cristiani”.
22
Non va infine dimenticato il dramma in cinque atti
Buddha (1902) che testimonia
ancora una volta il desiderio di De Gubernatis di divulgare nel nostro paese la vita
e il pensiero di Siddharta Gautama, all’interno di una più generale conoscenza
della cultura e della letteratura indiana.
B
IBLIOGRAFIA
D
E
G
UBERNATIS
Angelo,
Drammi indiani, Firenze, 1872
D
E
G
UBERNATIS
Angelo,
Nuova Antologia, 2
a
serie, vol. XXXIII, fasc. IX, maggio 1882
D
E
G
UBERNATIS
Angelo, Storia universale della letteratura, vol. I: Il teatro drammatico,
Milano, 1883
D
E
G
UBERNATIS
Angelo, Fibra. Pagine di ricordi, Roma, 1900, a
D
E
G
UBERNATIS
Angelo, Étincelles, Roma, 1900, b
P
ISANI
Vittore,
Le letterature dell’India, Milano, 1970
R
OSSI
Ernesto,
Quarant’anni di vita artistica, vol. I, Firenze, 1887
R
UNCINI
Romolo, “Angelo De Gubernatis pioniere della ricerca antropologica e
sociale nei miti e nei generi letterari”, in Maurizio Taddei (a cura di), Angelo De
Gubernatis. Europa e Oriente nell’Italia umbertina, vol. I, 1995, pp. 39-68
T
ADDEI
Maurizio, “De Gubernatis e il Museo Indiano di Firenze: Un’immagine
dell’India per l’Italia umbertina”, in Maurizio Taddei (a cura di), Angelo De
Gubernatis. Europa e Oriente nell’Italia umbertina, vol. I, 1995, pp. 1-37
22
Ibidem.
L
E RAPPRESENTAZIONI DI KŌDAN NEL
G
IAPPONE DI OGGI
Matilde Mastrangelo
Nel 1943 il critico Sano Takashi scriveva:
Scomparirà dunque il kōdan negli anni Shōwa? No, non succederà mai
nulla del genere, o meglio: non deve accadere. Non è pensabile che vada a
scomparire il kōdan, un’arte oratoria giunta a tali sviluppi, un’arte tipicamente
giapponese, che ha avuto origine e si è formata come unico esempio
nell’Impero Giapponese, nata con l’obiettivo di educare ed esaltare lo spirito
dei figli dell’Impero.
Forse, saranno piuttosto le rappresentazioni negli yose a finire, e del resto
il kōdan è cresciuto nei teatri, ma non appartiene solo ad essi. […] È giunto il
momento in cui il kōdan, repertorio tradizionale dell’Impero, liberatosi dagli
spazi angusti degli yose, debba risuonare negli animi del popolo in maniera
ampia e decisa.
1
L’evidente nazionalismo che emerge dalle affermazioni del critico, permea e
sostiene il mondo del kōdan durante il secondo conflitto mondiale; se ciò determina
una considerevole centralità artistica del genere in quel periodo, lascia al contempo
su di esso un’impronta difficile da cancellare nei decenni successivi. Tono
nazionalistico a parte, è da rimarcare un’intuizione: il distacco del kōdan dallo
stretto giro rappresentativo degli yose, verificatosi a partire dal dopoguerra fino ad
oggi.
In questo lavoro vorrei illustrare gli sviluppi più recenti delle modalità
rappresentative dei
kōdan, sottolineando come esso continui a vivere anni ricchi di
creatività e come, pur nel rinnovamento, stia ritornando a delle tipologie e a delle
scelte narrative tipiche della fase iniziale del repertorio. Della lunga storia di
questo genere di letteratura vocale, privilegerò in particolare l’importante rapporto
oralità e scrittura per illustrarne l’evoluzione fino all’epoca contemporanea.
2
1. Oralità e scrittura nelle origini: il ruolo dello shakudai
La presenza di un modello scritto da seguire o al quale ispirarsi è costante già
dagli inizi del kōdan, che resta uno degli esempi più noti dei dentō wagei (arti
La stretta collaborazione con il declamatore Kanda Sanyō III per la messa in scena di alcuni kōdan
durante il suo periodo di lavoro in Italia, mi ha permesso di imparare come un
minarai in uno
yose. Per
tutte le pazienti risposte e il materiale messomi a disposizione, gli sono profondamente grata.
1
Sano, 1943, pp. 211-212.
2
Per ulteriori approfondimenti sull’origine e sull’evoluzione dei kōdan, e per evitare di ripetere elementi
già presenti in altri lavori, rimando a: Orsi, 1977; Mastrangelo 1987, 1989, 1995, 1996, 2005 a, 2005 b.
Colgo l’occasione per ringraziare il professor Adolfo Tamburello per avermi indirizzata e guidata a
questa tematica di ricerca, fin dai tempi della tesi di laurea.
M
ATILDE
M
ASTRANGELO
1586
tradizionali della parola). Nel caso giapponese sappiamo che il rapporto tra oralità
e scrittura è molto interessante e ricco di spunti di riflessione. Molti generi
declamatori partivano da un testo scritto, o dalla presunta esistenza di esso;
l’esempio più illustre è lo Heike monogatari (Storia degli Heike) e in generale i gunki
monogatari (racconti guerreschi) che venivano declamati sulla base di testi di autori
ignoti imparati a memoria. Nel kōdan, il testo è presente a cominciare dal nome
classico del genere, utilizzato fino all’epoca moderna: kōshaku, che sta appunto per
“lettura e spiegazione di un testo scritto”. Ma anche ‘fisicamente’ il documento
cartaceo è presente nell’iconografia scenica ed è testimoniato da uno dei
fondamentali arredi caratteristico del kōdan, lo shakudai, una sorta di cattedra
piccola e bassa posta davanti al narratore, che in origine doveva servire a poggiare
il testo manoscritto durante la performance. Lo shakudai sta al kōdan come il dipinto
del pino sullo sfondo sta al teatro nō: una simbologia scenica che distingue una
tipologia narrativa e teatrale. L’indicazione suggerita dallo shakudai è che lo
spettatore si deve predisporre allo spettacolo d’intrattenimento aspettandosi una
morale, un insegnamento che viene dalla storia e dalla tradizione, che può far
anche ridere ma deve lasciare una traccia. In alcune illustrazioni che ritraggono
kōdanshi nei primi secoli in cui il genere si andò affermando, come il famoso Fukai
Shidōken (1682-1765),
3
troviamo infatti lo shakudai sul quale poggia un testo. Con
l’evolversi del
kōdan si impongono, verso la seconda metà del periodo Tokugawa,
le performance muhon (senza testo), in cui appunto il manoscritto non è più
esposto durante la declamazione: l’innovazione sembra risalga al maestro Tanabe
Nankaku I, fondatore dell’omonima scuola, famoso per le capacità mnemoniche.
Lo shakudai tuttavia è presente ancora oggi, elemento necessario sia per la valenza
simbolica sia per la conduzione del ritmo narrativo.
L’attenzione degli ascoltatori viene guidata anche da un altro attrezzo di scena,
unico del kōdan, lo hariōgi, un bastoncino di bambù avvolto da alcuni fogli di carta
giapponese che assume la forma di un ventaglio chiuso. Con lo hariōgi si colpisce la
cattedra segnando l’inizio di una performance, con uno o due colpi che il kōdanshi
fa come saluto appena è seduto, e la fine con un solo colpo. Soprattutto la funzione
dello hariōgi emerge quando con esso si sottolineano i momenti più pregnanti di un
racconto, per segnare una vera e propria ‘punteggiatura’ della declamazione, per
facilitare e aprire all’ascolto, e richiamare da eventuali distrazioni chi ascolta; il
suono, un po’ ovattato ma forte, prodotto dallo hariōgi diventa tipico dell’atmosfera
delle narrazioni di kōdan, come il suono degli hyōshigi richiama il kabuki. In alcune
scene in cui il ‘sonoro’ della storia deve essere ancora più incisivo, viene utilizzato
per battere sullo shakudai anche un ventaglio vero e proprio, che in genere serve,
come nel rakugo,
4
per rappresentare degli oggetti.
L’insieme di simboli contenuti nello
shakudai segna anche una distanza, una
demarcazione, tra chi narra e il pubblico. Nei declamatori contemporanei, come
3
Hiraga, 1990, copertina; Takarai, 1971, p. 25.
4
Declamazione esilarante, ricca di giochi di parole, conclusa da una battuta finale, ochi, che può non
avere un forte collegamento con il resto della storia. Anche il rakugo deriverebbe dalle spiegazioni dei
testi classici, ma con un’impostazione rivolta fin dalle origini al solo intrattenimento.